Queste note nascono dalla mia esperienza ormai quasi quarantennale di traduttrice letteraria, in particolare per quel che riguarda la traduzione della poesia e accompagnano l’Antologia delle opere del grande poeta irlandese James Harpur che spero di dare presto alle stampe. Dal mio lavoro su molti poeti di area anglofona, ma soprattutto su quello della sua poesia, che dura ormai da quindici anni, ho imparato moltissimo e forse ho anche capito qualcosa di più sull’essenza più profonda della poesia.

Per me, tradurre è – come nel quesito posto dal kōan zen – cercar di trovare il suono d’una sola mano. Un paradosso, forse un’impossibilità, se sono due i poli che interagiscono – il testo e il suo specchiarsi in un’altra lingua – due mani che, unendosi, generano una terza entità, prima fluttuante solo nel regno del possibile, cui non si può accedere aggrappandosi a forzate teorie accademiche sulla traduzione, ma solo con l’umile pratica. Quella terza entità è il suono del silenzio che si crea in quel rispecchiamento. Eppure, è qualcosa che mi viene naturale. Forse perché ho imparato osservando un Maestro, e ho respirato l’arte del tradurre fin da bambina.
Il suono d’una sola mano è un silenzio colmo; così è il silenzio del testo originale a colmare di sé la sua traduzione. Tradurre poesia è impresa quasi disperata. Quasi. Se la poesia è la ricerca, che mai può giungere a mèta, d’una parola che tutto contenga, manifesti ed esaurisca, insomma dell’inesprimibile; se il suo orizzonte è sempre al di là d’un altro orizzonte, legata indissolubilmente al ‘sentimento’, oltre che alla struttura, della lingua in cui viene generata e prende forma, e all’intrecciarsi inestricabile d’esperienza conoscenza vissuto inconscio visioni fantasmi suoni interni del poeta, come si potrà trovare forma altrettanto fedele, o anche solo evocatrice di quello, in ogni senso, straniero dire? Travasare un inesprimibile in un altro inesprimibile? Eppure, ci si avventura a farlo. Per amore, passione, fiducioso e sconsiderato entusiasmo. Ma soprattutto, almeno per me, per condividere la felicità di qualcosa che mi ha resa maggiormente me stessa, che ha aperto mente, cuore e spazi prima ignoti.
Tradurre non può che essere un atto d’amore. Con una chiosa necessaria: tradurre, per me, è conoscere. Del resto, anche l’amore lo è. Non è forse l’amore il più grande traduttore dell’altro, e di noi stessi?
Un’artigiana della traduzione quale io sono, impara che è questo il mezzo più diretto ed efficace per penetrare all’interno dei meccanismi della creazione, osservarli, percepirli nel loro divenire. Sotto la superficie dell’opera compiuta, com’essa appare all’esterno, pulsa un tessuto segreto, che la costituisce e la sostiene. È il regno cui si ha accesso traducendo. Questo sguardo furtivo, arricchito di conoscenza, privilegio d’ogni traduttore, va fatto scivolare fino a raggiungere la propria interità, perché la permei e la metta al servizio dell’autore che si è scelto. Si dev’essere generosi di sé. Parlo di scelta, perché è bene, soprattutto nel tradurre testi poetici, accostarsi a poeti che si amano, che si conoscono, che si sono seguiti a lungo, o dei quali ci si è improvvisamente innamorati. Così, forse si potrà sperare d’avvicinarsi alla loro voce e di dar loro, nella nostra lingua, un suono che non strida, non entri in conflitto o, peggio ancora, non li tradisca del tutto. Come talvolta purtroppo avviene.
Si deve lasciare rispettosamente uno spazio tra l’originale e l’opera che un traduttore di poesia compie. Uno spazio veritiero. L’autentica traduzione è quello spazio stesso; il suono d’una sola mano. Tuttavia, è indispensabile un accurato lavoro filologico ed ermeneutico, senza il quale ogni traduzione d’un grande testo sarà fallimentare. Però, una volta compiuto questo lavoro, lo si dovrà dimenticare e lasciare che il testo si impadronisca di te e ti modifichi. Come se, nel momento in cui ci si avvicina ad esso, si vivesse una metamorfosi e si dimenticasse d’essere ciò che si è per lasciarsi catturare, per diventare il testo stesso, il poeta stesso. Eppure, anche questo può accadere solo in parte, perché il testo e il suo autore incontrano l’universo del traduttore, che non può che far da filtro, da setaccio, oltre che da crogiuolo. Ed ecco perché due traduzioni d’uno stesso testo – intendo due buone e dignitose traduzioni – non potranno mai essere uguali. Un po’ come, nel generare dei figli, due patrimoni genetici si uniscono creando combinazioni sempre diverse.
E mai come per un poeta quale è Harpur, tutto questo è vero. La sua vastissima cultura, i numerosissimi riferimenti, talvolta solo suggeriti, il sottofondo filosofico, rendono necessario un complesso lavoro filologico anche se, fortunatamente, il poeta è sempre generosamente pronto a fugare ogni dubbio possa sorgere. Ma poi, il resto, quello che deve dare al poeta voce il più autentica possibile nella tua lingua, tocca al traduttore e non al filologo.
In quest’antologia, ho cercato di rendere la grande varietà dei temi e degli stili di Harpur, che nondimeno presentano una straordinaria coerenza e una continuità in costante evoluzione.
Ho ritenuto importante aggiungere integralmente anche due testi teorici: l’uno, una conferenza tenuta da Harpur su quello che egli definisce Il viaggio del poeta, l’altro, Bere alla fonte. Un’esplorazione dell’immaginario poetico, Lectio Magistralis tenuta a Padova nel maggio 2017. A questi ho aggiunto l’intervista da lui rilasciata per la Poetry Ireland Review, al suo grande amico e notissimo poeta John F. Deane, da cui ho tratto, in questa Introduzione, alcune citazioni. Ho infatti ritenuto che non fossero solo importanti per comprendere la sua poetica, ma anche perché testimoniano la sua profonda consapevolezza come artista, la cui arte è intensamente meditata quale espressione coerente di una visione del mondo. Sono dunque preziosi strumenti di una più profonda comprensione della sua personalità e del suo percorso poetico. Ho infatti sempre pensato che nessuno, meglio di un poeta o di un artista, possa parlare con maggior competenza e conoscenza delle proprie opere, e dunque è giusto ascoltare sopra ogni altra cosa la loro voce.
Tradurre l’opera di Harpur non è cosa semplice: anzitutto perché il suo linguaggio, benché limpidissimo e mai scontato, è intessuto di riferimenti, di stratificazioni storico-culturali, di echi delle tante tradizioni culturali e letterarie che in lui si fondono e, ancora, per la musicalità ed estrema preziosità della parola e per l’arte con cui egli costruisce i testi: allitterazioni, assonanze, rime infrequenti (e perciò particolarmente significative), il ricorso alla metrica greca e latina o a quella della tradizione bardica.
Con umiltà ho cercato di udire in tutto questo il suono d’una sola mano, la sua.
Francesca Diano
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