
Le Sorti, Francesco Marcolini – Giuseppe Porta inc. Venezia 1540
CONGEDI
Viatico in undici stazioni
un inedito di Francesca Diano
I
L’ESCLUSA
Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.
Ero povera – di quella povertà che non conosce
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.
Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono il delirio di un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.
Con la rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece
– me viva ancora –
Non vi perdono la disperazione
Vostra sola elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.
Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace.
II
STEPPA
Non ero che un bambino e tu un adulto.
Ti temevo. Temevo il tuo sorriso
Come una lama sfoderata a colpire
Senza guardarti in faccia.
La tua jurta era grande e molto solida
Però a te non bastava. Eri feroce
Nella tua sete di potere.
Quell’anno fu gelido l’inverno
Più dei passati e il fuoco non bastava.
La nostra gente – gente guerriera
Soffriva il freddo.
Predatori eravamo e predavamo.
Tu più di tutti.
Io non potei evitare che mio padre
Mi abbandonasse nella steppa
Lasciandomi bambino a sostenere
Il peso di un potere non voluto.
Mi piegava le spalle e mi schiantava.
Lo subivo il potere e con che gioia
A te lo avrei ceduto.
Dunque – quando quel giorno con un’ascia
Mi aggredisti alle spalle e mi spezzasti
Le vertebre e la vita – senza guardarmi in faccia
– non eri coraggioso – io non potei capire.
Ma avresti visto – per sempre congelata
Nei miei occhi la sorpresa e l’orrore.
Cadendo altro non vidi che terra congelata
E i licheni – come ricami di trine verdegrigie
A riempire lo spazio breve del mio viso.
I tuoi occhi una steppa – morta – immota.
Non ero che un bambino e tu un adulto.
III
LA PROMESSA
Vent’anni. Solamente vent’anni
E mai avevo odiato.
Tu eri il mio signore.
Ero nato nella tua casa.
A mio padre facesti la promessa
Che m’avresti protetto.
Morì sereno per la tua promessa.
Venne la guerra – aspra come l’aconito.
Case e campagne devastò e la miseria
E la fame tra la gente – sedute in trono –
reggevano lo scettro di regine gemelle.
Mi volesti al tuo fianco.
Così tu mi dicesti – al mio fianco,
Mi farai da scudiero e sarai il mio protetto.
Nulla di male ti potrà accadere –
Così tu mi dicesti. E ti credei
E ti seguii sul campo di battaglia
Di una guerra non mia e tua nemmeno.
Ma poi il saccheggio t’avrebbe fatto ricco.
Perché – mentre morivo trafitto da una lancia
Con il petto squarciato ed il dolore
Rovente e vivo come brace viva
Steso a terra tra corpi devastati –
Perché – mentre passavi fiero a cavallo
Tra rantoli e lamenti – col tuo morrione in testa
Ageminato d’argento e d’oro
Lo sguardo compiaciuto crudele e prepotente
del vincitore che sa d’esser temuto –
Non ti fermasti nemmeno accanto a me
Che ti chiamavo con l’ultimo respiro?
Aiutami – dicevo – sono qui, non mi vedi?
Ma alle tue orecchie la mia voce era muta
Ed ai tuoi occhi non ero che un’ombra.
Non mi guardasti e mi passasti accanto.
Ed io morendo imparai cos’è l’odio.
IV
ATTIS
Volgevo la mente alla speculazione astratta
E non volli sapere della vita
Che imbratta l’animo –
Non lasciai che irrompesse
Dentro di me – fui sordo al suo richiamo.
La nobiltà del pensiero
Non mi salvò dal contagio.
Vissi come in un sogno
Ricercando il segreto della vita
Non nelle azioni quotidiane
Non nella gioia o nella sofferenza
Ma perso nella mistica bellezza
Nel senso di ciò che non vivevo.
Guardavo da lontano – coltivavo il distacco
Con sguardo aristocratico.
Ed ero bello e nobile e vestivo
La tunica di lino della mia condizione
La vita cinta dalla fascia gialla
E il nastro giallo legato sulla fronte.
Portavo al collo il gioiello sacro
Forgiato nel metallo il cui segreto
Custodiva la mia stirpe e m’avrebbe donato
Chiarità di visione.
Credetti in vita che la conoscenza
Sgorgasse dalla mente – non dal cuore
E non amai nessuno – se non me stesso
Senza dare a me stesso
Amore per la vita.
Così, quando a trent’anni, venne il morbo
Che decimò la mia gente
E mi tolse la vita
Compresi – ma era tardi.
Amai la vita solo nell’istante
In cui divenni un’ombra
Incorporea – non un’orma
Lasciai di me – segnato dalla sete.
V
LA COPPA
Stretta la lama di luce che filtrando
Dalla finestra stretta
Si piega lieve a seguire in un barbaglio
La luce delle gemme
Traendone riflessi come un fuoco
Azzurro e verde tinto di rubino.
La mano sfiora la coppa d’oro
Si ritrae poi la sfiora
Esitando e poi ancora
Si sofferma sull’orlo.
Da una fiala riversa
Nel liquore un filo breve liquido
Di tetro rosso – denso come sangue.
La vedo ancora e ancora
La mano di mia figlia
L’orrore che si compie
Il suo esitare ed io
Stesa sul letto – con la mente persa.
Non avevo pace da darle
Solo paura di me e di se stessa.
E fu questa paura che la perse.
Come fiori mostruosi – parole
Di giusquiamo le fiorirono in bocca
In urla oscene – intessute di fiele
Quando con il suo complice
Mi forzò nella gola la morte liquida.
Quali lampi di tenebra oscurarono il sole
Riflesso dalla coppa stretta dalle sue mani.
Per terre e per ricchezze mi tolsero la vita –
Per il castello e il titolo e i gioielli.
Povere cose che il tempo disperde
Che nulla sono se non polvere
Ombre, apparenze, inganni della mente
E in cenere si sfanno – come il tempo.
VI
IL CAVALIERE NERO
Attendo. Arriverai. Il villaggio è deserto.
Così appare. Ma tutti sono chiusi nelle case.
Così povere le nostre case. Poco più che capanne.
Mi hanno preparata. La veste lunga
Di tela grezza e la cuffietta in testa.
Solo il terrore sanno. Temono la tua ira
E il tuo potere di padrone di queste terre.
Noi non siamo che servi. Solo cose.
E io – una cosa poco più che bambina.
Mia madre mi ha pettinata e mi ha lavato il viso.
Verrai. Da me tu torni sempre.
È questo il mio destino. Non ho scelta.
O te, o la morte di tutto il mio villaggio.
Attendo immobile e m’aggrappo
Per non cadere alla staccionata
Che divide la terra fangosa del villaggio
Dal grande prato e in fondo è la foresta.
Sento il rimbombo del tuo cavallo
Prima che tu compaia laggiù in fondo
Emergendo dal bosco fitto e scuro.
Trema la terra e trema la mia bocca.
So che ci sono. Sono tutti dietro
Le porte chiuse ed il silenzio è un maglio
Che picchia sul mio cuore e lo fa in pezzi.
Non verranno a salvarmi. Non verranno.
Si schianta il cuore nell’attesa
Buia come la notte quando la luna è nera.
Nero è il tuo viso e nera la tua veste
È nero il tuo cavallo e la tua barba
Nera come la terra che copre i nostri morti.
Sento l’odore del tuo cavallo
Che m’insegue e tu ridi
Della mia fuga inutile che per te è come un gioco.
Un balzo e mi sei sopra. Non ti guardo.
Gocciola il tuo sudore acre sulla mia pelle.
Come fuoco rovente la perfora.
La tua spada di carne che mi uccide
Ed il corpo mi squarcia.
Il tuo peso mi schiaccia e come morta
Crollo a terra. Non vedo altro che il cielo.
Non sento. Non sono viva più
Ed esco da me stessa.
Tutto s’è fatto immobile. Sospeso.
Vitrei i miei occhi. Persi dilatati.
Le nuvole – lontane – come angeli
Fuggono via nel cielo. Me ne riempio gli occhi.
Se io fossi un uccello dalle ali di vetro
Perforerei le nuvole veloci.
Ti rialzi. Ti giri. Ti allontani.
Non uno sguardo per me.
Non vuoi lasciare che ti legga negli occhi
Il vuoto buio che ti azzanna l’anima.
Chi di noi due è la vittima?
Questo è il nostro destino. Non c’è scelta.
VII
LA LEGGE
Tra il borgo e il bosco, solamente una striscia
Di terra spoglia, e di erba giallastra.
In questa terra erano venuti
I nostri padri traversando il mare
Su vascelli di legno e le case del borgo
Son fatte del fasciame delle navi
A ricordare che un mare ci separa
Dal passato – che in una terra nuova
Il nostro cuore sarebbe salpato
Solcando nuove rotte – nuove vite.
Ma non intero il cuore e l’anima divisa
Tra passato e futuro. Tra borgo e selva
Inesplorata – dove potente sussurra
Un richiamo che io sola intendevo.
Ed eccovi schierati – come tanti birilli
Come un muro di cinta da cui tenermi fuori.
Autorevoli, onesti cittadini
Le vesti nere, il cappello e le scarpe
Con le fibbie d’argento bene ornato.
Tutti in fila – con lo sguardo severo
Ed io la peccatrice – giudicata da voi.
Le vesti lacere – i capelli selvaggi.
Ma era per la fame. Avevo fame
E nulla da mangiare.
Tu mi guardavi, dall’alto del tuo rango
Di borgomastro ed io, la tua serva
Giovane e bella – mi dicevi allora.
Ma la bellezza non mi dava cibo.
Anche tu avevi fame. Un’altra fame.
Segreta, inconfessabile, ossessiva
Che attirava i tuoi sguardi
Su di me. Ma tua moglie,
La signora, padrona della casa,
Degnamente il tuo rango rispecchiava
Nella sua veste nera e con la cuffia bianca
Ornata di merletti, i gioielli preziosi.
Ma lei non ti sfamava.
Il corpo inaridito dalla dura virtù
Di donna onesta. Lo sguardo austero
E le labbra tirate – una fessura amara.
Come potevi sperare che il segreto
Non ti esplodesse in mano
Devastando quell’ordine e la legge
Dietro cui nascondevi i tuoi terrori
Le tue incertezze di senzapatria?
Avevo fame e il mio sguardo di selvaggia
Che ti accendeva dentro
No, non era per te – ma per il pane
Che poi mi avresti dato.
Io provavo ribrezzo del tuo corpo
Delle tue mani bianche – senza segni.
Non avevi vergogna di accoppiarti
Quando la tua di fame t’accecava.
Mai vidi compassione nei tuoi occhi
Ma avida follia. E quando un giorno
Il tuo peccato gridò la sua presenza
Perché non c’era legge che valesse
A tacere il crescendo della fame
Che ti mordeva l’anima
Io sola fui accusata. Io t’avevo stregato –
Dicesti. T’avevo preso l’anima
Con malefici e inganni – e mi scacciaste.
Votata a morte certa in quella selva
Vasta come l’oceano. Ma non avevo nave
Su cui salpare. O un porto.
Tu – il borgomastro – tu eri la legge.
Tutti mi giudicaste. Per non vedere
La trave che accecava i vostri occhi.
Con il dito puntato mi scacciaste.
Tu – nel vedermi andare –
Piegata in due per la disperazione
Provasti del sollievo.
Se ne andava a morire
Con me la tua vergogna.
Io la selva – voi il borgo
Io la strega e voi tutti la legge.
VIII
IL NULLA
La gola trema delle parole che s’avvitano
Come convolvoli alla tua fronte lunata.
Con te – dico – con te oltre le vette.
Niente più conta. Di tutto il resto
– e ti porsi la mano.
E quando uscii dalla mia casa che guarda il mare
Tacendo la tempesta del segreto – il cuore un lago inquieto –
Era per sempre. Non sarei mai tornata.
– Sali sulla mia nave – questo dici
Con un sorriso irrequieto a cui fui cieca.
Ed io salii. Per volare oltre me stessa
Per adattare il mondo alla tua sorte
Che diviene la mia contro la morte.
La morte t’è sbocciata tra le mani
Pervasa dal languore dell’assenzio
Che fu l’assenza dell’una parola mai détta.
Dètta dentro il tuo spazio limitato
Da cortei virginali di promesse
La legge degli opposti – la sinergia
Di feroci dolcezze che lambiscono il corpo
Con lingua di predone. Come radici malate
Fitte nelle midolla.
Umidore e rossore – rivoli come serpi
Sanguigne sulla pelle a fiotti da voragini
Slabbrate urlanti erompono in sorgenti.
Via se ne fugge la vita verso cui son fuggita
Resta sulle tue mani ormai svuotate
L’odore del mio sangue.
IX
LA PROFEZIA
Non mi voleste credere
Quando con il rigore della logica
Vi annunciavo il pericolo
La fine che incombeva su noi tutti.
Non ero un sacerdote né un veggente
Ma la mia mente seguiva i meandri
Della realtà che cela il suo disegno
Finale in ingannevoli apparenze.
La gente ch’era giunta da oltremare
Era contaminata. La purezza
Del cuore non era in loro e germinava
Soltanto il seme della distruzione.
Non mi voleste credere
Quando – leggendo i segni delle azioni –
Vi indicavo la falsità – l’opportunismo
Degli stranieri dalle lunghe barbe.
Sapevo calcolare riflettere e dedurre
Pur nel terrore di quello che vedevo
Quel che svelavano le relazioni
Dei messaggeri inviati alla scoperta.
Vi supplicavo invano di ascoltarmi
Di capire con me che il salvatore
Annunciato da tempi immemorabili
Che quel Santo che il mare avrebbe reso
Non era giunto. Non era lì tra loro
Il Dio Serpente – lì tra quella gente
Che si fingeva amica e ci avrebbe annientati.
Erano umani – come tutti noi
Ma avidi e bugiardi. Abili nella guerra
E nell’inganno. Voi non voleste credermi.
Avrebbero travolto e devastato
Distrutto e cancellato millenni di sapere.
E fui un vigliacco. Non seppi sostenere
L’orrore preannunciato – la morte d’ogni cosa.
Non la seppi affrontare con voi la fine.
Ero un aristocratico e il mio mondo
Era fatto di studio e di bellezza.
Ma la mia logica – la mia conoscenza
Non furono sorgenti di coraggio.
Quando salii sulla scogliera alta
Guardai le rocce aguzze e il mare ribollente.
Nel mio ultimo volo – a braccia aperte
Come un uccello dalle ali d’oro
Scorsi la libertà dalla paura.
Non percepii la fine. Non la morte.
Solo il mio corpo – disteso sulle rocce
Vidi dall’alto. Libero
Libero ormai – compresi.
Il mio posto era lì – con la mia gente.
Tolsi a me stesso e a voi la mia presenza.
Non mi voleste credere
Perché a me stesso io pure non credetti.
X
RITORNO
Percorro il sentiero di terra battuta
Tra le querce del bosco. Filtra il cielo
Tra le piante l’azzurro in mille occhi
Che accompagnano i passi.
Ombre come merletti disegnano le foglie
Sul bronzo del sentiero.
Sono felice – sto tornando a casa.
Il mio villaggio dove la mia gente
Mi attende. Sento già i rumori farsi
Più intensi. È così dolce e familiare
Il suono delle voci che mi giunge.
Un suono che mi avvolge in un abbraccio.
Ma quando arrivo alle siepi alte
La macchia che divide il bosco dal villaggio
Circolare che s’apre alla radura
La gioia si sframmenta e si contrae.
Soltanto il vuoto – solamente case
Vedo ed oggetti ed attrezzi – ma non voi –
La mia gente.
Non vedo i vostri volti o i vostri corpi
E solo avverto le voci e le risate.
Non posso valicare la barriera
Invisibile che da voi tutti mi esclude.
Non c’è ritorno dal buio e dal freddo.
Mi esplode allora crudo dentro il petto
E disperato un urlo d’abbandono
Come dicono facciano i vulcani
Che vomitano lava ribollente.
E quella pena si gonfia e s’accresce
Fino a serrare l’anima in un gorgo
Che mi squassa e mi schianta e mi travolge.
E allora – solo allora – ecco, ti vedo.
Alto solenne con la barba bianca
La testa fiera e il nobile profilo
Tu padre mio – nella tua veste bianca
Di veggente e di saggio. Ancora vigoroso.
Tu solo ti riveli alla mia ombra
Ch’è tornata dal freddo e dal silenzio
Perché sia certa dell’immenso amore.
E la pena si placa e si dilata
Sciogliendosi in dolcezza e compassione.
Non ci siamo mai persi – perché amore
È una potenza che non ha confini
Nel tempo e nello spazio ed è collante
Tra gli esseri che amano donando
Se stessi agli altri al di là d’ogni tempo.
XI
LA BAIA
Piatta si allarga nella sera dolce
Di fine estate e l’oro verdazzurro
Si liquefa nell’acqua e vi si fonde
Col violetto rosato del tramonto.
Piatta la baia incurva le sue braccia
Accogliendo nel cerchio ampio del seno
Mille isole verdi. Le grida dei gabbiani
Solcano il cielo alto dove nubi
Vive come vascelli dalle vele spiegate
Veleggiano per lidi liquescenti.
Sciabordio spumeggiando si trasforma
In un canto corale che si scioglie
Nell’aria nella terra e nelle acque
Fatte di luce che il tempo ha trafilato.
Piccole barche doppiano sull’acqua
Il volo dei gabbiani ed il salmastro
Ricolma le narici – inebriante.
In un luogo lontano – in un Nord indistinto
E in un tempo lontano da ogni tempo
Ti guardavo nascosta tra le piante
Alte di querce. Tu che scivolavi
Davanti a me sulla tua barca bianca.
Anima amante e amata cui l’amore
Mi ha pur saldata per la vita e oltre.
Ci siamo amati – ma da te divisa
Dalla meschinità dall’ignoranza
Del fanatismo che separa in caste.
Casto l’amore e puro come il mare
Che come ventre cercavi consolante
Alla tua pena. Solo – nel silenzio.
Il mare madre il mare confortante
Rifugio alla mia assenza.
Allora non riuscisti ad ignorare
Il marchio dell’infamia e rinunciasti.
Ma nulla è perso – tu che mi sei giunto
Da lidi dolci e amari – da terre che nell’acqua
Si frammentano in isole virenti
Anima amante e amata tu percorri
Il sentiero che solo porta a casa.
******
Anima amante e amata cui l’amore
Mi ha pur saldata per la vita e oltre.
A te che da altro tempo mi sei giunta
Sia lume la parola che ci lega.
Padova, febbraio 2007
(C) 2007 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA
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