L’Isola dei Famosi o la filosofia del naufragio

L’Isola dei Famosi 2012

Théodore Géricault – La zattera della Medusa

I reality non sono spettacoli ingenui. Non si limitano a mostrare, all’occhio avido e rapace dello spettatore, cosa avviene tra alcune persone poste in una situazione difficile e, in genere, claustrofobica. Sono invece, se ben fatti,  potenti (e crudeli)  metafore della vita e dei comportamenti umani e, da questo punto di vista, L’isola dei famosi, il reality show di Rai2, è esemplare.

Il mix è azzeccatissimo. L’isola deserta nei mari del Sud, un gruppo di personaggi molto noti, che si è abituati a vedere tirati a lucido sotto i riflettori e via via si riducono a dei relitti umani, la fame, l’assenza di ogni stimolo esterno (a parte la presenza delle telecamere e la trasmissione settimanale).  Il tutto ha l’aria di un esperimento da laboratorio. E, come tale, è molto crudele.

Viene in mente Il dio delle mosche, di Golding e il suo opposto, Robinson Crusoe .  Nel primo romanzo, dei ragazzi educatissimi e civilissimi, abituati alla disciplina di una Public School, sopravvivono ad un naufragio e, lontano dalla civiltà e dagli adulti, emergono istinti primordiali, selvaggi, ferini. Domina l’istinto. I forti opprimono e perseguitano  i deboli e arrivano all’omicidio.  I salvatori e i ragazzi stessi, una volta tornati alla civiltà, taceranno sugli orrori che il gruppo ha vissuto. La società ha fallito e si rivela una fragile pellicola, incapace di arginare la ferocia umana, il male che è alla radice dell’uomo.

Robinson invece è l’archetipo dell’uomo civile. Solo per più di venti anni su un’isola deserta, non dimentica un solo istante il mondo che lo ha formato e di cui è figlio. Robinson annuncia l’Illuminsmo che di lì a pochi decenni trasformerà l’Occidente. Crea una perfetta replica della società inglese del suo tempo, fin nei più meticolosi e ossessivi particolari. Tutto è sotto controllo, tutto è risolvibile per questo homo faber che è convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili.  Lo stesso Venerdì, per quanto amato, rimane un servitore,  sottomesso al più civile well educated gentleman.

Per i ragazzi di Golding è la cultura di cui sono figli che naufraga. Per Robinson il naufragio non è che un evento per il quale la cultura che lo ha forgiato gli offre ogni mezzo di riscatto e di salvezza fisica e psichica. Quella cultura che, nel secolo successivo, spingerà i filosofi illuministi a compiere degli esperimenti anche con dei bambini, per capire cosa nell’uomo è innato e cosa non lo è. Filosofi convinti dell’esistenza del “buon selvaggio”, vergine delle sovrastrutture culturali e sociali.

Il naufragio è un tòpos ricorrente, proprio perché è metafora dei peggiori terrori umani. La perdita di ogni punto fermo, l’allontanamento dai propri simili, il dover ripercorrere tutte le tappe dell’evoluzione umana, il trovarsi improvvisamente di fronte alla Natura in tutta la sua violenza senza i filtri della società.

Perché dunque un reality come L’Isola piace? In fondo la condizione dei naufraghi non è né disperata né senza speranza. E soprattutto è artificiale.  Piace perché soffrono, perché hanno paura, perché la fame e la mancanza di ogni confort, di lustrini e ribalte, fa emergere il peggio e il meglio (spesso molto carente) di ciascuno. Aggressività, maleducazione, volgarità, invidia, rivalità, gelosia, arrivismo, prepotenza, meschinità, vigliaccheria, menzogna, stanno sotto i nostri occhi con evidenza sempre crescente via via che il gioco si fa più duro.

Dunque lo spettatore è un sadico? Anche. Ma non è questo il motivo più profondo. Il vero motivo è che noi siamo degli spettatori della sofferenza altrui. Dunque che non siamo noi al loro posto. Il principio è lo stesso della catarsi tragica.  Nella tragedia greca, i personaggi agiscono e incarnano ogni male che può colpire l’uomo.  Lo spettatore sa che sono attori, tuttavia questo non diminuisce l’intensità dell’identificazione con quel personaggio. Si soffre, ci si adira, si piange, si compiange con loro e, nel farlo, si vive quel dolore, e vivendolo lo si esorcizza, perché comunque lo si vive attraverso il personaggio e non in prima persona.  Questo “vivere proiettato  all’esterno”, questo “agire” attraverso un altro, il timore di mali futuri,  e dunque il liberarsene, è la catarsi.

Dunque, nel vedere questi poveri VIP, spogliati di ogni maschera e orpello, abbandonare gradualmente il personaggio che hanno scelto di rappresentare nella vita,  vedere che di loro volontà si sono messi in qualcosa di cui poi non controllano gli esiti, ci ricorda che noi siamo seduti comodi nelle nostre case, col frigo pieno di cibo, il bagno colmo di tutte le attrezzature per renderci gradevoli a noi stessi e agli altri, ma soprattutto esorcizza i terrori che occhieggiano in fondo all’inconscio di ognuno: quello di trovarsi all’improvviso  privati delle cose e delle strutture che ci riparano dal minaccioso nulla. Almeno così crediamo.

(C)2012 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA