Francesca Diano – L’orfica

Laminetta orfica di Hipponion. Museo Archeologico Nazionale Vito Capialbi, Vibo Valentia

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L’ORFICA

Di Mnemosine è questo sepolcro.

Posando il corpo sulla roccia scabra

Ho sentito il mio peso contro il mondo –

Dove cede la rosa il sollievo dei petali

Lì in quel regno aereo voglio andare –

Levare la grevezza dalla terra

Perché si faccia nuvola e vapori d’ozono –

I miei occhi han veduto

I boschi nebulosi di ulivi e di viole

Cingere il golfo dalle acque purpuree –

Il cielo dai riflessi di giacinto

Si fondeva nel mare di smeraldo

Dove il solco spumoso delle navi

Indicava la via verso l’ignoto

Tra iniziati il percorso s’è compiuto

Che mi conduce libera alla vita

Luce della mia terra che m’abbaglia

È in me – non tenebra a erodere l’alone

Di questo stretto mio ultimo letto

Il tintore ha tinto di croco

La mia veste e il mio sposo m’ha cinto

Il dito d’una fascia d’oro puro

Che sfiora il dolce latte della pelle

Sul mio seno ha posato con il rito

Prescritto la laminetta aurea

Ch’è compagna e maestra nel cammino

Pura sono del mondo

Ora che lungo la via m’accingo

Al vero viaggio lasciando la vita

Non berrò alla fonte ch’è posta

Sotto il cipresso bianco

Mnemosine m’attende

A placare la sete di cui ardo

La memoria di quel che fui

Di quello che sarò m’è compagna

Perch’io sappia la via verso la luce.

Pura vengo da puri e sono figlia

Della Terra pesante e del Cielo Stellato.

Hipponion 29 marzo 2012

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Carlo Diano, Opere. A cura di Francesca Diano. Bompiani

Carlo Diano, Opere. A cura di Francesca Diano. Contributi di Massimo Cacciari e Silvano Tagliagambe. Bompiani 2022.

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Finalmente! Dopo moltissimi anni in cui ho cercato di far ripubblicare tutte le opere di mio padre, posso dire di aver tenuto fede a una promessa che avevo fatto a lui e a me stessa molto tempo fa. Un’edizione magnifica, curatissima, che raccoglie per la prima volta gli scritti teorici di Carlo Diano, con alcuni importanti inediti, per una visione pressoché completa della sua ricerca multiforme come filologo, grecista e innovativo interprete del mondo classico, ma anche come scrittore, saggista, teorico di estetica, poeta e, soprattutto, filosofo originale. È possibile seguire in ordine cronologico lo sviluppo del suo pensiero, dai primi scritti a opere di fama internazionale, come Forma ed eventoLinee per una fenomenologia dell’arte, gli importantissimi Scritti epicurei, gli Studi e saggi di filosofia antica, oltre ai rivoluzionari saggi sulla catarsi tragica, su Edipo, sull’Alcesti, su Platone, che nell’interpretazione di Diano rivelano aspetti prima inesplorati. Fulcro del suo pensiero filosofico ed estetico sono le categorie fenomenologiche di forma e di evento che, proprio per i loro tratti distintivi, si danno come strumento d’analisi del mondo greco, ma anche di ogni cultura e civiltà. Fondante è il suo discorso sul metodo, ricorrente in più saggi, che consiste nell’affrontare i problemi col rigore del filologo e l’ampiezza di una conoscenza universale, che annulla ogni barriera tra le diverse discipline. Su queste basi Diano fonda un sistema filosofico ed estetico originale in cui filologia, studi storici, filosofici, scientifici, sociali, storico-artistici e storico-religiosi si integrano a creare un nuovo procedimento di indagine, che gli permette di restituire il senso originale di autori e testi. La vasta cultura, la prodigiosa padronanza della filologia, l’ampiezza di visione, la mente eclettica e anticipatrice, le grandi doti di traduttore sono le solide basi di un sistema filosofico più che mai attuale, che lo pone fra i grandi Maestri del pensiero moderno e contemporaneo.

E’ stato per me emozionante – e commovente – curare l’opera teorica di mio padre; tre anni di lavoro ininterrotto che mi hanno permesso di addentrarmi più di quanto io avessi mai fatto nel suo pensiero.

Man mano che il lavoro procedeva, emergevano i ricordi dei momenti in cui mio padre si occupava di quegli argomenti, i suoi discorsi, i momenti di vita che vi erano legati. Non è stato solo un lavoro di curatela, ma un profondo viaggio nella memoria e nel mio rapporto con lui. Anche un percorso di crescita personale. Un rendere, almeno in parte, l’amore che da lui sempre mi è venuto.

Oltre 2000 pagine di testi in cui il pensiero geniale e anticipatore, sempre anticonformista di Diano, che il suo allievo Massimo Cacciari ha genialmente definito “il grande outsider della cultura italiana e non solo italiana”, si svolge con una coerenza ammirevole e una stringente logica ad esplorare gli aspetti meno noti ed indagati del pensiero e del mondo greco. Definire con un unico termine una personalità poliedrica e travolgente come quella di Carlo Diano, per chi non l’abbia conosciuto, non è cosa molto agevole, ove non lo si voglia chiudere all’interno di classificazioni limitanti che, anche in vita, gli andavano – e sentiva – strette. Non v’è dubbio che la sua fama era ed è legata alla sua attività di grecista e di raffinatissimo filologo, ché ha dedicato la vita allo studio del pensiero greco in tutte le sue sfumature e manifestazioni; ma poi è stato uno storico, un epistemologo non meno che un papirologo, un teorico di estetica, uno storico delle religioni, un grandissimo traduttore, uno studioso di teatro, un poeta, un pittore, uno scultore, un compositore di musica. E infine, e oggi vorrei dire soprattutto, un filosofo, poiché tutto quanto sopra s’è detto è confluito in quello che ormai è ampiamente riconosciuto anche a livello internazionale come un contributo originale al pensiero moderno. Frutto di una personalità multiforme, tutte queste aree d’interesse, che il lettore potrà rintracciare nelle sue opere, alle quali si aggiungeva la conoscenza dei più recenti studi psicologici, antropologici, etnologici, matematici e scientifici del suo tempo, come la sua vastissima biblioteca attestava – fu tra l’altro amico e interlocutore del grande matematico Renato Caccioppoli e si interessò fra i primi alle ricerche nel campo della cibernetica di Silvio Ceccato, della quale vide però subito le possibili insidie – Carlo Diano non le considerò mai quali sfere separate, ma sempre e solo come il fondamento necessario di una visione d’insieme,
di una conoscenza universale, inesauribile nutrimento di una ricerca instancabile che lo conducesse a tracciare una «storia unica dell’uomo… dell’anima», come scrisse in una lettera del 1954 al suo amico Károly Kerényi; a riprova che tale ricerca non fu mai limitata unicamente al mondo dei Greci, ma che questo è stato il fulcro, il cuore pulsante da cui essa è partita per poi superarne i confini e sempre ritornarvi, nella convinzione, come affermava spesso, che «i Greci hanno già detto tutto».
L’aspetto creativo, creativo anche in senso pratico come accennato, ma soprattutto esplorativo della sua natura, dunque, è stato parte integrante del suo impegno di intellettuale e di studioso ed è questo che ha fatto di lui una personalità eclettica e variegata. Quella che un tempo si
sarebbe definita una mente rinascimentale.
Se Diano, che Ettore Paratore definì «il gigante del moderno, del più aggiornato ripensamento del pensiero greco», è stato considerato per molto tempo essenzialmente e a giusta ragione un eccelso grecista e un filologo classico dunque, ciò non esaurisce quel che egli fu. Tale è stato, non v’è dubbio, ma con la necessaria chiosa che la filologia, di cui fu maestro indiscusso, era per lui soprattutto uno strumento d’indagine, non un arido punto d’arrivo, ma di feconda partenza. Era lo scandaglio che gli ha permesso di esplorare fondali nascosti, il radar che lo ha guidato dove non v’erano strade segnate e gli ha rivelato aspetti prima insondati della civiltà che amava, tanto da creare un metodo di ricerca del tutto nuovo e originalissimo, come si può evincere da moltissimi dei suoi scritti.

Eppure, nonostante queste difficoltà concrete, la sua sempre limpidissima parola non ha mai taciuto, il suo pensiero è rimasto vivo, come una vigorosa corrente carsica, come un’eco di fondo. Nel frattempo infatti, sono apparse traduzioni di Forma ed evento in numerose lingue, tesi di laurea sono state scritte, i suoi tuttora innovativi studi su Epicuro, sulla catarsi tragica, sulla tragedia, sugli aspetti meno esplorati del pensiero greco, e molto altro hanno nutrito
più giovani generazioni e affascinato studiosi di varie discipline – a riprova della sua mente eclettica – e nazionalità. Ma è indubbio che l’assenza di un’edizione organica delle sue opere abbia costituito una grave mancanza per la cultura italiana, privata di una parte sostanziale della sua storia.

Carlo Diano a 25 anni

Ma questa importante iniziativa non sarebbe stata possibile senza il concreto sostegno e l’amorevole determinazione di Massimo Cacciari – che fu anche suo allievo – e di Silvano Tagliagambe, ai quali entrambi debbo una riconoscenza che le parole non possono esprimere appieno. Sono stati loro i motori e promotori di questa impresa, che è resa ancor più corposa e preziosa dai loro illuminanti saggi. Grande è anche la mia gratitudine verso Alessandra Matti, che mai ha fatto mancare il suo preziosissimo sostegno, verso Giuseppe Girgenti per i suoi consigli e verso Vincenzo Cicero per l’accurata eleganza del suo lavoro.
Ora questa magnifica edizione andrà nel mondo e permetterà a molti che non conoscono ancora il suo pensiero, o che non lo conoscono a fondo, di attingere ad esso, di esserne ispirati, di analizzare, di esplorare le vie da lui aperte, ancora attualissime e feconde.

Francesca Diano

(C) 2022 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Dell’infinito bene. Un dialogo fra Epicuro e Leopardi.

Ho scritto questo dialogo in occasione del III Convegno Epicureo tenutosi a Senigallia nel luglio 2021 ed è stato messo in scena a Recanati dalla compagnia teatrale Nuovo Melograno. Il dialogo si ispira a quel capolavoro che è La poetica di Epicuro, il meraviglioso dialogo scritto da Carlo Diano.

FRANCESCA DIANO

Credit: UIG via Getty Images/PHAS

EPICURO. Oh, non si smette d’incontrare persone in queste lande. Non avevo finito di discorrere con grammatici e poeti, che ecco arrivarne un altro. È davvero una folla! Ora chi sarà questo che si guarda intorno smarrito? È forse uno dei miei? Non può essere. L’immortalità è di quei pochi che hanno detto o fatto qualcosa di nuovo nel mondo, come ho potuto scoprire io stesso. Ne parlavo proprio con quel grammatico.

LEOPARDI. Ma tu non sei forse Epicuro? Dunque quanto consigliavi per vincere la paura della morte col tuo Tetrafarmaco non si è provato vero. E analoga riflessione potrei fare su me stesso, poiché io anche lo credevo. E invece… come mai?

EPICURO. Sì, sono proprio io. La cosa non ti sorprenda. Ma, se sei qui e io t’intendo, anche tu devi essere di quei pochi che hanno detto o fatto qualcosa di nuovo. Tu pure, come me, sei pensiero. Puro pensiero. È così che comunichiamo. Per quanto mi riguarda, in vita tentai di insegnare agli uomini la via della felicità. Ma temo, con poche eccezioni, di non essere riuscito del tutto nel mio intento. Anzi, affatto. Gli uomini non amano essere felici. Tanto meno amano filosofare. Sembra non sappiano far altro che azzuffarsi, litigare, oppure vivere nel passato o guardare ciecamente al futuro. Preda di rancori, rimpianti e desideri, non vivono mai. Ma, per coloro che vogliano seguirla, la via l’ho indicata. Dunque, quando insegnavo che non si deve aver paura della morte perché essere e non essere non si danno insieme, insegnavo il vero, ciò che avviene per i più. E comunque, quando sopravvivi come puro pensiero, come ci accade, non c’è da aver paura.

LEOPARDI. Ah sì, davvero, l’infelicità è la sola cosa certa e costante della vita umana. Su questo ti do piena ragione. Gli uomini vi han trovato una sorta di medicina, che pure se più amara del male che dovrebbe curare, sembra loro irrinunciabile. Negano il presente alternando ricordanze e illusioni. Ma non esiste né passato, né presente, né futuro. Tutto è eterno e interminato. Quest’idea non mi fu estranea e n’ebbi paura di quella infinità. E tu di infinito te ne intendi. Tu fosti il primo a parlarne fra gli antichi.

Io, per me, fui estraneo al mio secolo, non mi unii alle esultanze dei miei contemporanei che ne festeggiavano le glorie. Le trovai invece fallaci. E infatti…

EPICURO. Dunque anche tu t’aspettavi che tutto si dissolvesse con la morte? E invece così non è, almeno per alcuni, come vedi.

14 giugno 1837: muore Giacomo Leopardi - SettimanaNews

LEOPARDI. Sì, come te pensavo che dopo la morte non ci fosse più nulla. Devo convenire, all’opposto, che è proprio come raccontarono le mummie di Federigo Ruysch in un’operetta ch’io scrissi. Solo che io quelle le intendevo per celia. Eppure… talvolta le idee più bizzarre si provano vere. Dunque, anche per noi gli atomi permangono in una qualche forma, seppure non capisco ancora in quale forma. Io t’intendo nel pensiero e percepisco la tua presenza. È davvero poi cosa che desta meraviglia questo mio comprendere intero il tuo pensiero, quasi stessimo dialogando, anche quello che – io vivo – m’era ancora sconosciuto. Diceva dunque il vero Eraclito: gli uomini attende dopo la morte quello che non si aspettano né immaginano.

EPICURO. Eraclito… quell’adoratore del fuoco. Ma devo ammettere ora che su qualcosa aveva ragione. L’hai detto, siamo puro pensiero. L’anima e il corpo si sono dissolti. Difatti, mentre tu mi hai riconosciuto grazie ai simulacri dei miei ritratti, io non so chi tu sia.

LEOPARDI. Me lo sono chiesto tutta la vita o Epicuro, senza veramente capirlo, se non forse alla fine. Ma se vuoi una definizione, posso dirti un poeta. La poesia fu la sola certezza. Si divorò la mia intera vita e io gliela offrii con gioia. Ed ora vedo che qualche segno di me ho lasciato nel mondo, se devo stare a quanto m’hai detto dell’immortalità.

EPICURO. Un altro!

LEOPARDI. Un altro? Ne hai visti tanti di poeti qui in giro?

EPICURO. Uno solo, a dir la verità; ma m’è bastato e avanzato, anche se ve ne sono molti a quanto pare. I poeti non li volevo nel mio Giardino. Sono degli esaltati, dei fanatici. Eppure tu non parli del tutto la lingua dei poeti.

LEOPARDI. Credo tu non ti sbagli. C’è chi ha visto nella mia poetica una sorta di filosofia. E invero, come tu dicevi, non mi sono mai stancato di filosofare, checché ne dicano molti che di filosofia non capiscono un bel nulla. Nell’età presente li chiamano critici. Persino alcuni filosofi lo negano. Proprio quelli che usano la filosofia come i cortigiani del Re Sole usavano i profumi più rari: per coprire i fetori. Ma io lo saprò ben più di loro, no? Ti posso anzi dire che senza la filosofia non sarei stato poeta e senza la poesia non sarei stato filosofo. Sono due vie apparentemente diverse, eppure talvolta s’incontrano. Di esempi fra gli antichi ne abbiamo. Eccoti la risposta.

EPICURO. E dimmi, la poesia t’è stata d’aiuto?

LEOPARDI. Lo è stata per certo, perché m’ha permesso di dare ordine e senso a quell’oceano tempestoso d’infelicità, entusiasmi, passioni, disperazione, tumulti, disillusioni, slanci e cadute e insomma a tutto quel coacervo di affetti che altrimenti m’avrebbe travolto e forse condotto alla stessa scelta di Saffo e di Bruto.

Ma, come vedi, la poesia non basta sola. Non basta saper versare con arte ciò che nell’anima ci preme nelle forme che la poesia chiede di volta in volta al poeta. Non basta il canto, ché sarebbe un vuoto e vano esercizio di stile.

EPICURO. È interessante quello che dici. Dunque tu non credi che passione e stile bastino a far la poesia?

LEOPARDI. No di certo. È necessario anche un pensiero coerente che ne sorregga la struttura con fondamenta e architravi robuste. Ed io sempre del pensiero ho nutrito la mia poesia e ho badato a costruire un edificio che stesse ben saldo. Quindi, ho fatto come tu suggerivi, ho filosofato, solamente l’ho fatto da poeta. Non divenni sentimentale se non quando, perduta la fantasia, divenni insensibile alla natura e, tutto dedito alla ragione e al vero, e insomma solamente filosofo.

EPICURO. In questo mi ricordi Lucrezio, cui riconosco grandezza e unicità di poeta. E i poeti, tu lo sai, non mi sono andati mai troppo a genio. Con loro non c’è da star sicuri, non sai mai quello che ti combinano.

LEOPARDI. Non ho osato mai nemmeno pensare di eguagliare l’immensa grandezza di Lucrezio. Non credetti di avere altrettanto genio, o sacra follia, né fu il mio pensiero così visionario né bruciante. Ma tentai io pure di dare un volto alla Natura e, quando la vidi in tutta la sua terribile potenza, ne fui atterrito e come annichilito,

EPICURO. La Natura è ciò che è. Non è né terribile né misericordiosa. È.

LEOPARDI. Certo. Così è se non la si considera nei riguardi degli uomini, poiché proprio in quel suo essere, senza alcun correlato, proprio in quel suo esistere per sé stessa è la nostra infelicità. Degli uomini, degli effetti che il suo essere ha sugli uomini, ella non si cura punto. Proprio come i tuoi dèi. Non ha l’amore di una madre per le sue creature. E in questo, Epicuro, mi ricordava esattamente la madre che ebbi in sorte; chiusa, aspra, insensibile al dolore dei suoi figli. Una lastra tombale.

EPICURO. Ma l’uomo non è un essere separato dalla Natura. Ne è parte egli stesso! Ciò che gli avviene è nel ciclo degli eventi. Se lo comprende può scegliere. Quando lo comprende, ogni timore e conflitto si scioglie, poiché tutto scorre secondo una naturale armonia. Si nasce, si vive, si muore, e quel che l’uomo può fare per giungere a ciò per cui è nato – la felicità – è proprio nascere, vivere e morire secondo quel fluire, incontrarsi e separarsi degli atomi che ne determinano le sorti, imparando a governare e limitare i desideri, annullare le paure, star quieto e vivere fra amici che gli siano simili. E filosofare.

LEOPARDI. Già, limitare i desideri… più facile a dirsi che a farsi. Non siamo noi costantemente pressati da un infinito desiderio di raggiungere il piacere? E se questo desiderio è infinito e la soddisfazione dei singoli desideri finita, come potremo noi mai raggiungerlo e colmarlo? E i timori, e le paure che costantemente ci dilaniano?

Hai detto bene tu che non esiste durata o estensione minore o maggiore nel piacere, e che al massimo esso varia. Vedi? Conosco bene la tua filosofia e intesi bene, al tuo stesso modo, il significato di piacere. Tu dicesti che è tutto intero e perfetto nell’istante; e che non si deve aver paura della morte perché essere e non essere non possono esistere insieme.

È una bella e grande filosofia la tua, volta, come ogni filosofia dovrebbe essere, all’utile. In questo, di merito ne hai. Ma poi tutto s’infrange contro la realtà di ciascuna vita e di ciascuna anima.

EPICURO. Ma è per questo, proprio per quanto tu dici, che io creai la mia scuola e il mio Giardino perché, come hai appena ammesso che essere e non essere non si danno insieme, così la sapienza e la paura non si danno insieme. Uomo felice è colui che lungo la via della verità incontra la sapienza. Poiché questa non ci è data in dote per nascita, ma dobbiamo cercarla incessantemente e praticarla, così che, quando avremo educato l’anima a liberarsi dai desideri, dalle paure, potremo finalmente iniziare a vivere; vale a dire, ad essere felici! È con la pratica che si raggiunge la felicità. L’uomo passivo, l’uomo che si lascia soffocare e paralizzare dalle paure, sommamente da quella della morte, non solo è infelice, ma è schiavo.

E non soltanto due sono le paure – della morte e degli dèi – in cui io ho voluto sintetizzarle tutte, ma molte ancora, che da queste due discendono e che spesso molti usano per dominare i propri simili. Ancor più qui soccorre la sapienza.

LEOPARDI. Chissà, se t’avessi conosciuto e fossi entrato nel tuo Giardino… forse la mia sorte sarebbe stata diversa. Anche se, devo ammetterlo, della morte e degli dèi non ebbi mai paura; la prima la invocai spesso, nell’esistenza dei secondi non credevo. Ebbi invece paura della vita. Ma forse non sarebbe stata diversa, dovevo solo seguire un’altra via. Quella che chiedeva il mio dàimon. Del resto, non furono molti quelli che ti seguirono, anche se nel lontano Oriente qualcuno venne e predicò una sapienza non troppo dissimile dalla tua ed ebbe fortuna assai maggiore. Mentre tu offrivi il tuo Tetrafarmaco, lui indicava le Quattro Vie per liberarsi dal dolore.

EPICURO. Eppure, gli uomini d’oggi sono infelici forse più di quanto l’uomo sia mai stato. Perché, così come tu ed io esistiamo ora come pensiero e abbiamo facoltà di cogliere e intendere il pensiero dell’altro, altrettanto possiamo, se lo vogliamo, cogliere e intendere il pensiero di coloro che furono e di coloro che in questo presente frangente del tempo, così come gli uomini lo credono e lo intendono, esistono e vivono nel mondo sublunare, come anche toccò a noi.

LEOPARDI. Davvero è cosa mirabile ed io stesso lo vedo. La paura percorre il mondo ed è figlia di quello che gli uomini ritengono erroneamente progresso.

EPICURO. Nel loro mondo la paura ha travolto ogni argine e si è abbattuta su di essi come la forza distruttiva di un uragano. La paura è nemica della ragione, della sapienza e della felicità, ma anche dell’amore e dell’amicizia fra gli uomini. Molti l’hanno dimenticato e si sono arresi alla loro peggior nemica. Intere nazioni si sono consegnate a questo cavaliere oscuro e vagano nelle tenebre, sordi al richiamo della ragione. Che tristezza…

LEOPARDI. E gli uomini preferirono le tenebre alla luce… già. Come tu dicesti che, dopo quella degli dèi, la più grande paura dell’uomo è la morte, perché è la negazione dell’esistenza. E gli uomini che, generazione dopo generazione, sono sempre morti, ora hanno più che mai paura di morire. Non perché non sappiano che la morte ti può cogliere inattesa in qualsiasi istante, ma perché hanno confezionato una società ingannevole, che ha loro fatto credere di poter essere eternamente giovani, eternamente sani, forti, e perciò eternamente felici. Poiché identificano la felicità con il puro esistere della carne. E per questa illusione miserrima si sono venduti l’anima ai trafficanti di corpi. Per il terrore che il corpo si ammali, decada e muoia son disposti a qualunque rinuncia, financo della libertà.

È una società ben triste e sono lieto di non appartenervi. Hanno fatto una fede della materia, più di quanto l’uomo abbia mai fatto. Agli dèi hanno sostituito la nuda vita, ma priva dell’amore di sé. È una fede più cieca di ogni altra, perché vi si finge che la materia di cui sono composti e nello stato in cui li compone, sia eterna. E questi sono i guasti di un supposto progresso, grottesco e ingannevole, già tanto esaltato dai miei contemporanei. Ma certo nemmeno loro si sarebbero immaginati dove avrebbe condotto. Io invece qualche sospetto lo avevo.

EPICURO. Infatti. Dimenticano che la materia è un aggregato di atomi, i quali si uniscono, si separano e si scontrano a loro dispetto in una danza infinita. E su questo non hanno controllo alcuno. Più ciechi dei dormienti di Eraclito!

LEOPARDI. Io ne scrissi, dell’infinito. M’avvenne tutto a un tratto di comprendere che lo spazio e il tempo sono soltanto idee che l’uomo ha in sé. Il tempo non è una cosa, è un accidente delle cose e, indipendentemente dall’esistenza delle cose, è nulla; è un accidente di questa esistenza, o piuttosto una nostra idea. Una parola… medesimamente dello spazio. Sono idee, nomi. E sai quando lo compresi? Contemplando l’orizzonte oltre una siepe che s’affaccia da un colle e quel tramezzo verde limitava lo sguardo e al di là non v’era che quello che mi parve un indefinito. Fu una rivelazione, se vuoi usare questo termine. Sì, la somma felicità per l’uomo è naufragare nel nulla. E fu una vertigine, in cui sperimentai la dissoluzione di tutto me stesso, della mia carne, del mio pensiero in un nulla infinito.

Perché la vita è il sentimento dell’esistenza e di quel sentimento avvertii l’annullamento. Forse mai fui più felice come lo fui in quell’istante.

EPICURO. Tu mi fai paura! Ora sì mi ricordi Lucrezio. Ma vedi? Mi dai ragione. In quell’istante fu tutta la felicità. Però è nella vita che dobbiamo ricercarla.

LEOPARDI. Già. Tu dici che la felicità è nel filosofare. E sia. Dunque nell’indagare, nel ricercare il vero. Io dico invece che nel vero è la somma infelicità. E gli uomini lo fuggono. La felicità è nell’ignorarlo, nell’immaginazione e nelle illusioni.

EPICURO. Dunque, a quanto dici, gli uomini che popolano oggi la terra dovrebbero essere sommamente felici, ciechi come sono al vero e immersi in uno stato trasognato, nutrito di illusioni, seppure assai poca immaginazione. Eppure, così non mi appaiono!

LEOPARDI. Non lo sono infatti, caro Epicuro. Prima di tutto perché in loro l’immaginazione è come rattrappita e rinsecchita, e poi perché, come dissi, hanno fatto fede della materia e l’hanno sostituita agli dèi, ma senza quel sentimento dell’infinito, senza l’immaginazione, sole fonti della felicità come all’uomo è possibile a tratti raggiungere. Credono di conoscere e di poter dominare, controllare la Natura. Che grande inganno! Come puoi manipolare e sottomettere qualcosa che è immensamente più grande e potente di te, e alla quale sei indifferente?

C’è però un poeta, che porta il mio stesso nome e vive sull’isola degli Iberni, il quale possiede sia l’uno che l’altra in somma misura. Per lui la poesia è fons et origo, e un’infinita ricerca dell’infinito. Un mistico innamorato dell’invisibile.

Senti cosa ha scritto di quello che lui chiama Verbum, la Parola:

Non ho nome, non volto, non forma,

e parole e colore prolungano l’inganno

che mi si possa dipingere: sono oltre

ogni senso di quel che ‘oltre’ significa.

Per conoscermi devi chiudere gli occhi

e lasciare la via dell’asserzione,

la via del pensare e immaginare:

sii soltanto pellegrino a te stesso,

vigile, che non sa dove andare,

ma che confida nella propria ignoranza

viaggiando verso l’interno senza posa. 1)

EPICURO. Un altro invasato? Su certe cose però ti do ragione, per quanto non concordi su quello che definisci il sentimento dell’infinito e il resto. Tu dici che l’anima umana desidera sempre essenzialmente e mira unicamente al piacere, vale a dire la felicità. E così è. Ma poi specifichi che questo desiderio non ha limiti, perché è congenito con l’esistenza e dunque non può avere fine in questo o quel piacere, che non può essere infinito. Quel che sostengo io invece, è che proprio a quei desideri e a quell’infinitezza si può e si deve porre un limite per essere felici. Si può. Che è quanto insegnai nel mio Giardino.

LEOPARDI. Eh, già. Su questo punto non ci troviamo. Infatti, a parer mio e per mia esperienza, quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera in realtà la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere e non un dato piacere. E perciò tutti i piaceri saranno misti di dispiacere poiché l’anima, nell’ottenerli, cerca avidamente quello che non può trovare; l’infinità di piacere, la soddisfazione di un desiderio illimitato. Mi segui?

EPICURO. E certo che ti seguo! Dove mai dovrei andare? Chi mai sognerebbe di meglio che parlare di filosofia con un poeta?

LEOPARDI. Oh, di meglio c’è; parlare di poesia con un filosofo! Non l’hai fatto con il Grammatico?

EPICURO. Verissimo! E pensa che all’inizio aveva fatto in modo che non me n’accorgessi! Certi grammatici sono peggio dei poeti!

LEOPARDI. Insomma, torno al mio ragionamento sul mischiarsi di piacere e dispiacere e sul cercare la soddisfazione di un desiderio illimitato. Quando questo s’applichi a uno dei desideri più gretti e ignobili, la sete di potere o di ricchezza – che fa lo stesso – tu vedi nel concreto come mai nessun raggiungimento lo soddisfi o lo plachi. Anzi, spinge l’uomo alla follia.

EPICURO. E infatti badai sempre a raccomandare di tenersi lontani dalla politica. Quanto alla ricchezza, non aver fame, non aver sete, non aver freddo fanno di te il più ricco e felice degli uomini, anzi, pari agli dèi. Eccoti mozzata di netto la testa all’infinitezza del desiderio.

LEOPARDI. Già, però, se veniamo all’inclinazione dell’uomo all’infinito – che io non rinnego – esiste in lui una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono…

EPICURO. Bella scempiaggine! Dove ne sarebbe l’utilità? A che mi serve il non-essere?

LEOPARDI. Aspetta Epicuro. Se si considera la tendenza innata dell’uomo al piacere, una delle principali occupazioni dell’immaginazione è quella di immaginarsi il piacere e può quindi figurarsi dei piaceri che non esistono e figurarseli infiniti in numero, in durata e in estensione.

EPICURO. Lo dici a me, che fui il primo ad affermare che fine della natura dell’uomo è il piacere? Ma non il simulacro del piacere! Che c’entra l’infinito? Il piacere è perfetto nell’istante, né può essere misto di dispiacere e, avesse pure a disposizione il tempo infinito, questo non aggiungerebbe un ette quanto a intensità e durata.

Quel che mi dici sull’immaginazione, capace di figurarsi piaceri che non esistono, e pure infiniti in numero, durata ed estensione, mi fa sovvenire quanto disse Gorgia sull’arte del poeta e della parola, che definì apate, inganno. E lo fece sulla base metafisica dell’essere, che è insieme non-essere, e del non-essere che è a sua volta essere. Ché questa tua immaginazione proprio un inganno mi appare. Materia da sofisti, o peggio da metafisici. I poeti sono degli esaltati e degli invasati, non cambio idea. Però, ascoltandoti, mi pare che in te ci sia più del filosofo, e la cosa è singolare, se si sta a giudicare dall’epoca in cui vivesti.

LEOPARDI. Ah, questo puoi ben dirlo! Ché io non mi trovai nella mia epoca!

EPICURO. In ogni modo, hai una ben strana idea di felicità.

LEOPARDI. Pensa, fra i tanti progetti che la brevità della mia vita m’impedì di portare a compimento, uno in particolare m’è dispiaciuto non aver realizzato. Avevo in animo di scrivere un trattato dal titolo L’arte di essere infelice. Quella di essere felice è cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata che da pochissimi e da nessuno con effetto. Tu sei un’eccezione ben rara naturalmente. Vedi, nella mia disperatissima ricerca della felicità, ebbi costantemente davanti il vero e fui dunque costantemente infelice. Sommamente per i mali del corpo e la cagionevolezza della mia complessione. Per essermi visto costretto in un luogo disgraziatissimo, che odiai e da cui riuscii finalmente a fuggire per mai più tornarvi, e perché la natura, non che farmi dono della bellezza e della prestanza, mi fece brutto e deforme.

Mai ebbi la grazia dell’amore appassionato di una donna, non conobbi le dolcezze di chi ama riamato e infine desiderai sempre la morte, che mi avrebbe liberato da tutte codeste sofferenze, ché certo quelle del corpo ebbero grave effetto su quelle dell’animo. Insomma, tanto più l’uomo desidera la felicità, tanto più è infelice. Mi sembrò sempre di avere un’ala spezzata e di non poter mai volare.

Eppure, io una forma di felicità la trovai, me ne rendo conto soprattutto ora più che allora; la mia poesia, quella fu la cura che sanò la mia ala e mi permise di volare verso spazi infiniti.

EPICURO. È davvero cosa triste quel che mi dici ed io, pur essendo ormai puro pensiero, non posso non avvertire quel che provavo di fronte ai dolori di un amico. Strano, non l’avrei immaginato. Però, come io insegnai, se la carne si trova nel dolore, non per questo il saggio non è felice.

LEOPARDI. So quel che scrivesti in quella tua lettera degli ultimi giorni, che è un capolavoro di virtù, eroismo e amore insieme, mentre, straziato dai dolori del corpo, avevi davanti la morte.

EPICURO. La carne non è l’anima, e il piacere e il dolore dell’una non è il piacere o il dolore dell’altra, perché affezioni e sensazioni rimangono sempre nella parte in cui si producono, perciò al dolore della carne oppone il piacere ch’essa trae in proprio dai ricordi dei beni goduti e che nessuna forza può fare che non siano stati.

LEOPARDI. Sì, per questo dicesti che il saggio è beato anche nel Toro di Falaride. In effetti io dissi qualcosa del genere; le chiamai le ricordanze.

EPICURO. Se la tua carne soffriva, non per questo doveva soffrire l’anima e se tu non avesti in sorte né bellezza delle forme, né l’amore condiviso, che del resto non dipende dall’aspetto del corpo, non credo che l’anima tua, bellissima e nobile, non abbia tratto a sé l’affetto di amici a te simili.

LEOPARDI. Oh sì, Epicuro, amici ne ebbi e di molto cari anche. Fin da ragazzo, quando rovinai la mia stessa salute con studi matti e disperatissimi, sia per amore appassionato del sapere, che per fuggire una realtà insopportabile, fin da ragazzo dico, ebbi intensi scambi epistolari con alcune anime grandi e generose. In seguito, ancora, trovai amici che mi stimarono e mi amarono e non si risparmiarono nell’aiutarmi. Infine, quasi all’ultimo tuffo, uno in particolare, insieme alla sorella, fu fonte di infinita dolcezza e sostegno e amore. A lui devo alcuni anni sereni e privi di eccessive cure materiali. Si prese in casa un uomo malato, di difficile carattere – perché non ero certo farina da far ostie, come certi dicono! – seppure ormai celebre. Per quel che vale la celebrità: un bel nulla.

Tuttavia, dopo la mia morte, scrisse del nostro sodalizio usando parole non sempre gentili e diede di me un ritratto talvolta impietoso. Ma non gliene faccio una colpa. Forse lui pure vide il vero. Del resto, i suoi meriti nei miei confronti furono molti e grandi e s’adoperò perché i miei scritti non andassero dispersi.

EPICURO. Questo ti rende onore. La sua amicizia in vita fu sincera, ma la natura umana è quel che è e, se pure in seguito fu a tratti crudele nel giudizio, forse è cosa da ascrivere al misto di passioni contraddittorie che la frequentazione di un’anima grande può suscitare in anime più deboli. E poiché non dubito che tu abbia dato a lui più di quanto egli abbia dato a te…

LEOPARDI. Non so se così fu, Epicuro. Mi offrì una casa, una famiglia, cure, accudimento…

EPICURO. Ma tu gli offristi l’amicizia e la fiducia di una mente che ha lasciato un segno e gli affidasti le sue opere! Ed è moltissimo. E forse l’avvertì come uno squilibrio, da cui si generò un risentimento che nocque più a lui che a te. Di casi simili ne ho visti e se ne vedranno. Non sempre l’anima umana è lineare. Ma ti fu amico in vita e ti soccorse ed ebbe a cuore le tue opere e questo è ciò che vale. Il resto sono accidenti.

LEOPARDI. Lo so bene. Perché in quella inestinguibile sete d’infinito io ebbi sempre a cuore il bene e la virtù, ed ora vedo con chiarezza quel che spesso pensai in vita ma forse non compresi appieno: che essi sono l’una e medesima cosa e l’abbiamo in noi ad ogni istante. Se la Natura ci ha fatti quali siamo e ci ha poi abbandonati a una vita che non è altro che un rincorrersi di desideri, cadute, attesa e sofferenza e tutti, tutti, siamo nella medesima condizione, o ci si volge alla tua filosofia o ci si dà al misticismo. Ma, in entrambi i casi, quel che conta è la solidarietà e la fratellanza fra gli uomini; quella che tu chiamasti philìa, amicizia, e io ne scrissi, all’ultimo, contemplando la luce dell’umile ginestra, che fiorisce intatta dove prima gloriose civiltà e superbe si ritennero eterne e invece scomparvero.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi

d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
 

EPICURO. Esattamente questo insegnai nel mio Giardino, creando quella società degli amici, di uomini pari per sentire e comunanza d’intenti, pronti a soccorrersi nel bisogno. Non lo chiamai bene, ma piacere, perché è nel piacere che il bene e la volontà si rivelano. Nell’amore per l’uomo, la philanthropia, quella autentica, che a premio ha unicamente sé stessa. Nella charis, il dono, la letizia dell’amore reciproco, suggellato dal patto dell’amicizia. Un amore che è anche unione d’anime, che insieme partecipano del piacere e del dolore e affrontano serene anche la morte.

LEOPARDI. Come tu dicesti, l’amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di destarci e dire l’uno all’altro: felice! Non altro è che amore.

EPICURO. Vedi? Seppure con parole diverse, diciamo la stessa cosa. Tu credevi di vedere il vero e invece lo rifuggivi, ma proprio quella tua fuga da quello che tu ritenevi il vero t’ha invece condotto alla verità. Perché una è la verità, ma molte sono le vie che vi conducono. Lo disse quel Grammatico in un suo scritto.

LEOPARDI. Ma guarda un po’, mai avrei immaginato di ritrovarmi qui e rivedere, ragionando con te, l’intero mio pensiero alla luce di quello che io compresi appieno alla fine della mia vita, ma che già era fin dagli inizi presente nella mia opera, come unico, vero, infinito bene che l’intero universo unisce e di trovare in te quella mia stessa idea d’infinito; quella che condusse Lucrezio alla follia, che i monaci irlandesi rappresentarono nei loro scriptoria in intrecci, volute, spirali senza inizio né fine, i colorati labirinti della mente, i medesimi che il poeta ibernico descrive nei suoi versi. Centri infiniti che s’allargano in infinite sfere e tutti si fondono in un’unica sfera, anch’essa infinita. Quale meraviglia!

Ma guarda Epicuro! Chi viene? Non mi è estraneo.

EPICURO. Ma è il Grammatico! Sta tornando. Ebbi con lui una lunga conversazione sulla poesia e sulle poetiche. E a noi si unì Posidonio. Ma, da quel che vedo, a differenza del nostro precedente incontro, lui pure ora è puro pensiero, ché allora mi vide come in sogno ed era tra gli uomini. Fu proprio lui ad accennarmi di te e della tua idea – la disse ossessione – d’infinito.

LEOPARDI. Dunque, se è qui, lui pure è fra coloro che dissero qualcosa di nuovo nel mondo! Sì, mi amò molto, fin dalla giovinezza e fino all’ora della morte. Ancora nelle sue ultime ore aveva a mente i miei versi.

EPICURO. E molto amò me e nelle sue opere rivelò del mio pensiero quel che nessuno ancora aveva compreso. Con coraggio affrontò una morte dolorosa, tanto simile alla mia. Ma non dubitò mai della sopravvivenza dell’anima. Fu a suo modo un mistico. Qui con voi mi sembra d’essere tornato nel mio Giardino.

EPICURO e LEOPARDI.

Eccoti Carlo, finalmente! Benvenuto fra gli amici!

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1) Il poeta citato è James Harpur e i versi sono tratti dal suo poemetto Kells.

(C)2021 by FRANCESCA DIANO RIPRODUZIONE RISERVATA

I dormenti di Carlo Diano

Questo testo, che alla luce dell’oggi, ha quasi una valenza profetica e che, come ha osservato Ernesto Ruocco, abbaglia come un frammento di Eraclito, comparve nel 1929 sulla rivista Bilychnis, Rivista mensile di studi religiosi, Anno XVIII, fasc. III, marzo 1929. La rivista, pubblicata fra il 1912 e il 1931, edita dalla Facoltà della Scuola Teologica Battista di Roma, prende il nome dalla lucerna a due fiamme del primo Cristianesimo, quale simbolo di un dialogo tra scienza e fede di stampo interreligioso e improntato alla libertà di pensiero e di coscienza. Sulla rivista, poi chiusa dal fascismo, scrissero nomi di grande rilievo, di credo e posizioni diverse, quali il grande arabista Giorgio Levi Della Vida (poi maestro di Noam Chomsky negli USA), Dante Lattes, lo slavista Ettore Lo Gatto, l’orientalista ed esploratore Giuseppe Tucci, il filosofo Giuseppe Rensi e molti altri liberi pensatori e grandi studiosi e intellettuali, dei quali Diano poi divenne amico.

Lo stile, quello di un dialogo diretto, in forma di domande pressanti, con lo stesso Eraclito, un colloquio personale con gli antichi che tornerà molti anni dopo ne La poetica di Epicuro.

Nemmeno io lo conoscevo ed è stata per me una scoperta sorprendente. Si era allora fra le due guerre, tempi bui si stavano affacciando all’orizzonte, ed è incredibile come il problema morale che questo testo profondo solleva anticipi di molto la celebre frase di Martin Luther King: “Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti.” Luther King, che nacque proprio nel 1929. E altrettanto significativa è questa sua visione che trova nel pensiero degli antichi le radici dell’insegnamento del Cristo, come avvenne anche per la sua rivoluzionaria lettura dell’Alcesti di Euripide. Perché, seppure non amasse la Chiesa come istituzione, né ciò a cui nei secoli era stato ridotto il messaggio di Cristo, Diano, che aveva anche la natura di un mistico, vedeva nella sua figura la summa dell’amore di Dio per l’uomo, culminato nel sacrificio per la sua salvezza. Il suo Cristo non è un cadavere esposto sulla croce, ma una figura eroica, possente, una forza attiva il cui grido finale (e inutile) che alla fine del testo risuona: <<Vegliate!>>, è un appello di risveglio a tutte le coscienze, che attraversa i tempi e le civiltà.

Mai come oggi, quasi 100 anni dopo che Diano scrisse questo testo, in quel clima già oppresso dal fascismo – che poi farà chiudere non a caso questa rivista – su cui si radunavano le nubi nere di un conflitto spaventoso, le sue parole, già allora profetiche, tornano a metterci in guardia. Contro la cecità, la paura e il sacrificio d’ogni bene e libertà in nome della “misera vita”.

Francesca Diano

Un giovane Carlo Diano, all’epoca di questo testo

I dormenti, operai e cooperatori di ciò che avviene nel mondo. In che senso lo dici, Eraclito? Gocce d’acqua in un fiume, divise e veloci, che premono e sono premute? Ma operai e cooperatori come? Se un bene è compiuto, se un male è sofferto, noi nel nostro sonno ne abbiamo merito e colpa?

Chi vuole, quegli è che opera; ma chi non sa di volere, come opererebbe? Viviamo nel sonno, agitati da oscure visioni, andiamo con gli occhi opachi, calpestando innumerevoli vite e il grido dell’altrui volere non giunge oltre la soglia della nostra anima assorta.

In una solitudine sconfinata non possiamo reggere sotto l’oppressione del cielo. Invano innalziamo muri che arrestino e contengano la nostra paura; invano cingiamo di fiorite siepi i fantasmi del nostro voler essere; dovunque penetra il vuoto; tra gli occhi e la mano s’apre come un abisso.

A chi tenderemo le braccia, chi udrà la nostra voce? Nel sogno ci rincorriamo e chi insegue non giunge e chi fugge non ha scampo. Precisi contorni ha nel sole la nostra ombra e nella notte il terrore ci assale. Non intendiamo la vita ma non vogliamo morire.

Dormenti. È la nostra colpa. Combattiamo colle ombre del sogno e diciamo di fare il bene e di vincere il male. Ma il bene e il male stanno nel centro della terra e bisogna sollevarla tutta col nostro dolore.

Cristo, Tu non hai dato pane agli affamati e non vendetta agli offesi, né per la misera vita hai detto: <<Lazzaro, sorgi!>>

Quella notte terribile, nell’orto di Getsemani, quando sul Tuo vigile cuore pesò l’universo, i Tuoi discepoli dormivano, cooperatori delle tenebre. <<Vegliate>>, gridasti invano. Ma perché il sonno si fuggisse dalle loro anime dovesti scendere al centro della terra.

CARLO DIANO

Copyright 2021 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Epicuro, Scritti Morali. nuova edizione a cura di Carlo Diano

Pubblico un breve estratto della mia Nota introduttiva alla nuova edizione BUR degli Scritti Morali di Epicuro a cura di Carlo Diano. L’edizione, in una bellissima veste editoriale, è anche corredata da una sostanziosa nota biografica e da una rinnovata bibliografia.

F. D.

E’ uscita finalmente per i tipi della BUR la nuova edizione degli Scritti morali, gli Ethica epicurei, a cura di Carlo Diano. Questa edizione si rivelerà più completa e più fedele al testo che mio padre volle alla fine della sua vita, poiché, come è chiaro dal titolo, essa vede alcune sostanziali modifiche rispetto a quella in passato pubblicata dalla BUR nel 1983 e più volte ristampata, e riproduce l’edizione critica curata da Carlo Diano per l’Editore Sansoni nel 1946, Epicuri Ethica, ivi poi ristampata nel 1974 in edizione anastatica con l’aggiunta di due importanti studi sui papiri ercolanesi delle Lettere di Epicuro, dal titolo Epicuri Ethica et Epistulae, studi che, nella precedente edizione BUR, limitata agli Ethica, non erano stati inclusi.Come nell’edizione del 1946, anche in quella del 1974 compaiono la sua edizione critica della Vita di Epicuro di Diogene Laerzio e la sua edizione del De finibus bonorum et malorum, Libro I di Cicerone, tuttavia, essendo questi testi il primo in greco e il secondo in latino e privi di traduzione, non sono stati qui inclusi.

Nell’edizione anastatica del 1974, con note e commenti in latino, che egli curò poco prima della sua scomparsa, Carlo Diano volle aggiungere alla precedente originale edizione del 1946 i testi: Lettere di Epicuro e dei suoi, nuovamente o per la prima volta edite da Carlo Diano, testo, note, traduzione e commento (Annotazioni), edito da Sansoni nel 1946. Si trattava di una nuova, all’epoca, importante edizione critica di testi epicurei dalle Pragmateiai di Filodemo. Inoltre Lettere di Epicuro agli amici di Lampsaco, a Pitocle e a Mitre, commento e traduzione, estratto degli Studi italiani di Filologia Classica N. S., vol. XXIII fasc. 1-2, 1948. Fu appunto questa la sua volontà per l’edizione del 1974. Ho ritenuto che, pur trattandosi di due lavori piuttosto tecnici, la loro importanza storica nell’ambito degli studi sui papiri ercolanesi e la novità dei risultati, tuttora preziosi per gli studiosi di Epicuro e, allo stesso tempo, la difficoltà nel reperirli altrimenti, costituiscano motivi assolutamente validi per non escluderli da questa nuova versione.

Dunque, nel rispetto del volere di mio padre, ho creduto giusto restituire nuovamente integra (a parte i testi di Diogene Laerzio e di Cicerone, come s’è detto) l’edizione da lui curata alla fine della sua vita, la cui significatività traspare dalla dedica a colui che egli sempre considerò amatissimo Maestro e padre.Infatti, mentre l’edizione Sansoni del 1946 degli Ethica reca la dedica: “Achilli Vogliano D.”, per l’edizione anastatica del 1974, cui Diano aggiunse appunto i due studi sopra citati, egli volle la seguente dedica generale: “Quae singula olim singulis dedicavi nunc omnia in unum complexus memoriae Ioannis Gentile sacra esse volo”, parole solenni e commoventi da cui traspaiono la grandissima devozione. il grande amore e la riconoscenza che egli nutrì sempre per Giovanni Gentile.Entrambe le dediche, in precedenza omesse, sono qui giustamente restituite.

Nell’Avvertenza (Praemonitum) premessa all’edizione del 1946, Diano onora il debito di riconoscenza e affetto che egli sentiva nei confronti di Achille Vogliano, per gli stimoli e i consigli e l’amicizia che ne ricevette. Ringrazia analogamente Robert Philippson e Giorgio Pasquali, il quale, come egli testimonia, lo assistette e lo formò nei suoi primi passi di filologo, ricordando l’affetto reciproco, le lunghe conversazioni e i fruttuosi scambi di idee. Il Praemonitum si conclude con un commosso pensiero per Giovanni Gentile, che lo incitò a lavorare all’edizione degli Ethica e “che da adolescente ascoltai come Maestro, successivamente amai come un padre, la cui memoria mai abbandona il mio animo”.

Quale introduzione, si è mantenuta la scelta iniziale di riprodurre La filosofia del piacere e la società degli amici,tratto dal volume Saggezza e poetiche degli antichi,Neri Pozza Editore, Vicenza 1968 e la versione integrale della Nota sulla vita, le opere e la dottrina di Epicuro, nella precedente edizione BUR tagliata in alcuni punti, raccolta in Studi e saggi di filosofia antica, Editrice Antenore, Padova 1973. La Nota è un rifacimento e ampliamento dell’articolo pubblicato in «Enciclopedia Cattolica», Vol. V, pp. 413 ss., 1950, rifacimento che Diano redasse nel 1968, allorché l’Enciclopedia Britannica gli commissionò le voci Epicurus ed Epicureanism.

Credo possa essere utile per il lettore conoscere l’origine dell’interesse che Diano dedicò, per buona parte della sua vita, agli studi su Epicuro, iniziati nei primi anni ’30 e che lo resero internazionalmente noto quale uno dei maggiori studiosi e interpreti del filosofo di Samo; ritengo dunque che nessuno, meglio di lui stesso, possa chiarirlo. Riporto perciò di seguito uno stralcio del Curriculum Studiorum ch’egli approntò nel 1948 in occasione del concorso a cattedra:

<<I miei studi epicurei nacquero per caso, dal commento ch’io feci al I del De Finibus e nacquero da ragioni puramente filologiche, come da base strettamente filologica e sempre in vista della restituzione e dell’intelligenza dei testi, partono tutte le ricerche che io ho condotto in questo campo, anche se in qualcuna di esse la filosofia vi ha gran parte. Ma, come non si può fare la filologia di un poeta senza poetare, chi fa la filologia di un filosofo deve filosofare, e non in termini generici e astratti, ma entro precisi limiti storici e di contenuto e di forma, che è come dire di lingua. Senza di che la dimostrazione, non nascendo dalla cosa, è generica, i risultati, privi di quella necessità che la filologia, non meno delle altre scienze, ha di mira, rimangono casuali o precari. Ora, fin dalle prime questioni affrontate, io mi resi conto che i metodi fino allora seguiti nell’interpretazione di quei testi, in parte guasti, ma in parte assai più grande non interpretati e spesso ritenuti guasti solo perché non capiti, erano affatto inadeguati. Si partiva da un greco generico, si procedeva per raccostamenti il più delle volte casuali e arbitrari, e quando c’era da entrare in merito al contenuto, ci si rifaceva a una filosofia generica: se anche ci si metteva sul terreno storico, le cose non miglioravano di molto, perché l’indagine non era approfondita, e, per la difficoltà di passare dalla logica sincretistica dei moderni a quella assai più precisa e determinata degli antichi (la quale per altro è lungi dall’essere chiarita), la problematica rimaneva vaga e insufficiente. Una raccolta dei risultati ottenuti per quella via si ha nell’Epicuro del Bailey. L’idea avuta in questi ultimi anni dal Bignone di spiegare Epicuro con l’Aristotele perduto e l’Aristotele perduto con Epicuro, se era sbagliata in anticipo, perché partiva dal presupposto che Epicuro non conoscesse le opere di scuola dello Stagirita, e i risultati delle mie ricerche credo che abbiano dimostrato ad abundantiam il contrario, considerata dal punto di vista del metodo, rappresentò, rispetto a tutto quello che s’era fatto prima, un progresso enorme, perché si metteva su un terreno storico preciso. Quando uscirono i primi nuovi saggi del Bignone, le mie ricerche erano già avviate e le regole che io mi ero proposte stabilite: ed erano queste: 1) rimanere nel greco d’Epicuro e interpretare ed emendare, ove ce n’era bisogno, i testi, fino a che fosse stato possibile, in base ai soli elementi formali e sostanziali di ciascuno di essi, e da questi partire per le ulteriori ricerche; 2) collocare il suo linguaggio nell’atmosfera storica in cui era sorto, e per conseguenza fare la storia specifica dei problemi a cui quel linguaggio rispondeva; 3) ritrovare la logica del sistema, che sola poteva dar ragione di quella della parola e della frase. Fu un gorgo nel quale, tratto di cosa in cosa, più in fondo, io girai molti anni. Ma i risultati furono copiosi, perché quelli da me pubblicati non sono che una parte.>>

In effetti, parte di quei risultati costituirono la base per altre opere su Epicuro, che Diano pubblicò in anni successivi.

Queste indicazioni sono estremamente preziose, poiché chiariscono quale fosse la peculiarità e l’originalità del metodo che Diano seguiva e che sempre fu alla base di tutte le sue ricerche in ogni campo, metodo in qualche modo “trasversale”, che non conosceva barriere tra discipline, e che, supportato da una cultura di inusitata vastità e versatilità, univa una rigorosissima analisi filologica, storica, filosofica, letteraria, a profonde conoscenze in campi quali storia delle religioni, arte, sociologia, etnologia, psicologia, scienze matematiche e naturali, pensiero indiano e cinese – come la sua immensa biblioteca, in cui era presente anche buona parte delle letterature del mondo e di tutte le epoche, attestava – e, in senso più ampio, tendeva a una totale ricostruzione e a un’immersione nella cultura che quei testi e quel pensiero aveva prodotti, liberandoli da ogni incrostazione o stratificazione che il tempo, o analisi precedenti vi avessero depositato. Non sarà azzardato dire ch’egli giungesse quasi a identificarsi con l’autore stesso nell’esatto contesto storico e culturale in cui era immerso, azzerando ogni barriera temporale.

Partendo di frequente da un unico termine o da un singolo problema, che si poneva di fronte agli occhi del filologo, (“I miei studi epicurei nacquero per caso, dal commento ch’io feci al I del De Finibus, e nacquero da ragioni puramente filologiche”), giungeva poi a ricostruire e abbracciare quell’intera cultura. Un metodo che, seguendo i tre stadi da lui stesso indicati, potrebbe definirsi di restauro, di interpretazione e di scoperta, (“sempre in vista della restituzione e dell’intelligenza dei testi”). Nella sostanza, un metodo che gli consentiva di porsi di fronte ai testi con gli occhi e lo spirito d’un contemporaneo, grazie al quale egli fu in grado di riportare a nuova luce, e in tutto il loro smalto originale, tutte le opere e gli autori dei quali si occupò, non solo antichi, spesso non appieno compresi o travisati. Un metodo che, nascendo sempre da un problema, gli permetteva poi di trovarne la soluzione. E fu proprio partendo da quanto questo metodo rigoroso gli permise di scoprire, che egli poi giunse a maturare un suo pensiero filosofico ed estetico originale, come i due fondamentali testi, Forma ed evento. Principii per una interpretazione del mondo greco, e Linee per una fenomenologia dell’arte fra gli altri e soprattutto testimoniano, ove le due categorie fenomenologiche della forma e dell’evento integrano e allo stesso tempo costituiscono la struttura metodologica della sua ricerca.

Ma lo studio e la frequentazione di Epicuro non si limitarono alla ricostruzione e all’interpretazione dei testi; attraverso quel lavoro, il pensiero filosofico di Epicuro rivela aspetti del tutto nuovi rispetto agli studi precedenti. Allo stesso tempo Epicuro divenne, per il “platonico” Diano, un amico con cui discorrere, come emerge in quello che può definirsi parte dialogo platonico, parte operetta morale di ispirazione leopardiana: la Poetica di Epicuro, dialogo fra Epicuro, il Grammatico (dietro cui si cela Diano stesso) e Posidonio.

Per quanto riguarda i testi epicurei, lungo e accuratissimo fu il suo lavoro di trascrizione e di integrazione dei Papiri ercolanesi, che ebbe modo di consultare sia nel corso di vari viaggi a Napoli, sia su microfilm.

Una parte non indifferente, alla luce di questo metodo, ebbe la sua attività di traduttore, che non si limitò solo ai classici, poiché si misurò anche con i moderni e i contemporanei, sia dal tedesco che dallo svedese. La traduzione fu parte integrante della sua ricerca, poiché poteva accadere che, muovendo dall’analisi di un unico termine o di un singolo problema di traduzione, egli fosse attirato nel gorgo – per usare la sua stessa espressione – di un’indagine filologica, storica, filosofica, epistemologica che lo portava poi a scoperte anche rivoluzionarie – come accadde per l’Alcesti di Euripide ad esempio –, che gettavano nuova luce su un autore o sul pensiero di un’epoca. La traduzione dei classici, che per i poeti e i Tragici sempre condusse splendidamente in versi – Diano fu anche poeta – fu per lui un altro modo di esplorare gli autori e i testi che amava, fino a rivelarne aspetti sino ad allora ignoti, con un lavoro incessante di scavo, tanto da non poter separare il filologo, il filosofo, lo storico, il papirologo, il fenomenologo, lo storico delle religioni, il poeta, dal traduttore. Accadeva che, quando traduceva Sofocle o Euripide, “cantasse” ad alta voce i versi, magari passeggiando nei boschi delle Apuane o intorno a Bressanone, per saggiarne la musicalità e il ritmo in italiano. Essa fu, in un certo senso, il necessario corollario. E, poiché, come scrisse: “non si può fare la filologia di un poeta senza poetare, chi fa la filologia di un filosofo deve filosofare”, Diano fu non solo un grande filologo, ma, come è oggi ormai riconosciuto anche internazionalmente, soprattutto un filosofo originale.

FRANCESCA DIANO

(C) 2021 by Francesca Diano. RIPRODUZIONE RISERVATA

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Louise Glück e la catarsi tragica. Cinque poesie tradotte da Francesca Diano.

Chi è Louise Glück, Premio Nobel Letteratura 2020 | Donne Magazine

Sono davvero felice che il Nobel sia andato a questa grandissima poetessa americana. Davvero grande, per la profondità della sua opera, per la limpidezza (non semplicità, quella è solo apparente) del linguaggio, un mare di cristallo sotto cui respira un’anima potente, per la sensibilità con cui affronta temi universali e difficili, per la grande familiarità che ha col mito classico, che in lei rivive e fruttifica. Ho letto pareri di vario tipo sulla sua poesia; chi la definisce dura, che non fa sconti, chi la definisce semplice seppur ricca di contenuti, chi definisce la sua lingua diretta, chi ancora antiquata e tradizionalista. Sicuramente qualcosa di questo è in parte vero – a parte la semplicità, che proprio non è nelle sue corde di anima tormentata e cristallina insieme, né nella sua lingua. E non certo l’essere antiquata e tradizionalista. Forse si dimentica che, per fare grande poesia, non c’è bisogno di usare paroloni obsoleti o arcaicizzanti, né di essere oscuri e incomprensibili, come tanti poeti italiani, anche ritenuti grandi suppongono, facendo della poesia un vuoto esercizio autoreferenziale e narcisista, parimenti non è limitandosi a descrivere in modo asettico “la cosa”, invece di pagarla col sangue, o di perdersi in vuoti sperimentalismi fini a se stessi, ma è necessario attingere alla fonte profonda del Sé, come lei fa, elaborare una propria mitologia interiore creatrice del mondo, capace di riscriverlo. E’ questa la differenza fra un grande poeta e un poeta mediocre. Anzi, io trovo che proprio quella sua classicità, quella sua misura aurea della forma, in così grande contrasto con temi estremamente drammatici e forti, sia la sua cifra innovativa.

Direi che, da questo punto di vista, Frammento arcaico sia assolutamente paradigmatico. Pur se il testo affonda le radici in uno dei più dolorosi nodi della sua personalità, quel difficile rapporto con se stessa e con la propria identità, un conflitto sfociato poi nell’anoressia nervosa, che le è costato molti anni di analisi, in particolare il verso – Non puoi odiare la materia e amare la forma – non è solo da intendersi come il rivelare il noto conflitto di chi è affetto da questa malattia, fra il rifiuto del corpo e la sublimazione ossessiva, perfezionista della propria immagine, ma diviene metafora del suo fare poetico. Lo scontro fra pulsioni interiori potenzialmente distruttive e l’aspirazione a dar loro una forma strutturata e unificatrice. Credo sia questo un possibile filtro di lettura per comprendere quella che apparentemente è una forma classica – analogamente alla ricerca di risposte nel nutriente serbatoio del mito – e la materia della sua poesia, che è tragica. Insomma, la tecnica è quella della catarsi tragica, come Carlo Diano insegna, che nasce come incontro fra tèchne alypias, tecnica per la liberazione del dolore, ideata da Antifonte Sofista, e la praemeditatio futurorum malorum dei Cirenaici. Insomma, una forma di meditatio mortis, e in effetti il tema della morte, fisica e simbolica, è uno dei suoi temi ricorrenti. Da questo punto di vista, la poesia della Gluck è una forma di catarsi. E, come tale, travalica la dimensione personale e si fa universale.

Grandissima e famosissima, eppure in Italia sono uscite solo due sue opere, curate da quel raffinato anglista che è Massimo Bacigalupo, ma presso due piccolissimi editori. A dimostrazione che, quando si propone un grande autore straniero alle case editrici italiane, magari premiatissimo e famoso nel resto del mondo, ma da noi sconosciuto, invece di ringraziarti e aprirgli le porte, ti snobbano, proprio con la scusa che a loro è ignoto. Salvo poi scoprire anni dopo che magari ha avuto il Nobel e avrebbero potuto averlo in catalogo per primi.

Io ne conoscevo dei testi, ma non mi sono mai misurata con la traduzione, così, in questa occasione, desidero recarle omaggio con quattro testi da me scelti e tradotti.

F. D.

*********

PAESAGGIO ABORIGENO

Stai pestando tuo padre, disse mia madre,

ed in effetti stavo esattamente al centro

di un tappeto erboso, così curato che avrebbe potuto

essere la tomba di mio padre, pur se non v’era lapide a segnarla.

Stai pestando tuo padre, ripeté,

più forte questa volta, il che mi parve strano,

poiché era morta; l’aveva ammesso anche il medico.

 Mi spostai leggermente di lato, fin dove

finiva mio padre e mia madre iniziava.

Il cimitero era silenzioso. Vento soffiava tra gli alberi;

sentivo un suono flebile di pianto a molte file di distanza,

e, più oltre, il guaito di un cane.

Infine i suoni tacquero. Mi venne in mente

che non ricordavo d’essere stata condotta lì,

in quello che ora pareva un cimitero, benché potesse essere

solo nella mia mente un cimitero; forse era un parco, o se non un parco,

un giardino, o una pergola, profumata, ora notavo, di rose –

douceur de vivre colmava l’aria, la dolcezza del vivere,

come si dice. A un certo punto,

 

mi resi conto d’essere sola.

Dov’erano le altre,

le cugine e mia sorella, Caitlin e Abigail?

 

La luce stava ormai scemando. Dov’era l’auto

che ci aspettava per portarci a casa?

 

Cercai allora qualche alternativa. Avvertii

crescere l’impazienza, direi approssimarsi l’ansia.

Infine, in lontananza, scorsi un trenino,

fermo, sembrava, dietro del fogliame, il controllore

poggiato a una portiera, fumava una sigaretta.

 

Non si scordi di me, gridai mentre correvo

superando molte tombe, molti padri e madri–

 

Non si scordi di me, gridai quando infine lo raggiunsi.

Signora, disse, indicando i binari,

certo si rende conto che questo è il capolinea, i binari non vanno oltre.

Le sue parole erano dure, eppure gli occhi erano gentili;

questo m’incoraggiò a insistere di più.

Ma ritornano indietro, dissi e gli feci notare

la loro robustezza, come ancora avessero in sé molti di quei ritorni.

 

Sa, disse, il nostro è un lavoro difficile: ci confrontiamo

con tanto dolore e delusione.

Mi guardò con crescente franchezza.

Un tempo ero come lei, aggiunse, innamorato dell’agitazione.

 

Allora gli parlai come si parla a un caro amico:

Che le è successo, dissi, poiché era libero di andarsene,

non desidera tornare a casa,

di rivedere la città?

 

È questa la mia casa, disse.

La città – la città è dove io scompaio.   

 

  

Aboriginal Landscape

You’re stepping on your father, my mother said,

and indeed I was standing exactly in the center

of a bed of grass, mown so neatly it could have been

my father’s grave, although there was no stone saying so.

You’re stepping on your father, she repeated,

louder this time, which began to be strange to me,

since she was dead herself; even the doctor had admitted it.

I moved slightly to the side, to where

my father ended and my mother began.

The cemetery was silent. Wind blew through the trees;

I could hear, very faintly, sounds of  weeping several rows away,

and beyond that, a dog wailing.

At length these sounds abated. It crossed my mind

I had no memory of   being driven here,

to what now seemed a cemetery, though it could have been

a cemetery in my mind only; perhaps it was a park, or if not a park,

a garden or bower, perfumed, I now realized, with the scent of roses 

douceur de vivre filling the air, the sweetness of  living,

as the saying goes. At some point,

it occurred to me I was alone.

Where had the others gone,

my cousins and sister, Caitlin and Abigail?

By now the light was fading. Where was the car

waiting to take us home?

I then began seeking for some alternative. I felt

an impatience growing in me, approaching, I would say, anxiety.

Finally, in the distance, I made out a small train,

stopped, it seemed, behind some foliage, the conductor

lingering against a doorframe, smoking a cigarette.

Do not forget me, I cried, running now

over many plots, many mothers and fathers 

Do not forget me, I cried, when at last I reached him.

Madam, he said, pointing to the tracks,

surely you realize this is the end, the tracks do not go further.

His words were harsh, and yet his eyes were kind;

this encouraged me to press my case harder.

But they go back, I said, and I remarked

their sturdiness, as though they had many such returns ahead of them.

You know, he said, our work is difficult: we confront

much sorrow and disappointment.

He gazed at me with increasing frankness.

I was like you once, he added, in love with turbulence.

Now I spoke as to an old friend:

What of  you, I said, since he was free to leave,

have you no wish to go home,

to see the city again?

This is my home, he said.

The city — the city is where I disappear.

Ognissanti

Ancora questo paesaggio si va componendo.

Le colline s’oscurano. I buoi

dormono nel loro giogo azzurro,

i campi sono stati

ripuliti, i fasci

uniformemente legati e accatastati sul bordo della strada

fra le potentille, mentre la luna dentata si leva:

Questa è la brullità

del raccolto o della pestilenza.

E la moglie che si sporge alla finestra

la mano tesa, come a pagare,

e i semi

distinti, d’oro, chiamano

Vieni qui

Vieni qui piccolino

E l’anima striscia fuori dall’albero.   

 

All Hallows

 

Even now this landscape is assembling.

The hills darken. The oxen

sleep in their blue yoke,

the fields having been

picked clean, the sheaves

bound evenly and piled at the roadside

among cinquefoil, as the toothed moon rises:

This is the barrenness

of harvest or pestilence.

And the wife leaning out the window

with her hand extended, as in payment,

and the seeds

distinct, gold, calling

Come here

Come here, little one

And the soul creeps out of the tree.

Frammento arcaico

 

Stavo cercando di amare la materia.

Attaccai un biglietto sullo specchio:

Non puoi odiare la materia e amare la forma.

 

Era una bella giornata, seppur fredda.

Questo, per me, fu un gesto bizzarramente emotivo.

 

……. la tua poesia:

tentai, ma non potei.

 

Attaccai un biglietto sul primo biglietto:

Grida, piangi, colpisciti, stracciati le vesti–   

 

Lista delle cose da amare:

terra, cibo, conchiglie, capelli umani.

 

……. diceva

eccesso di cattivo gusto. Allora

stracciai i biglietti.

AIAIAIAI

gridò lo specchio nudo.

 

Archaic Fragment

I was trying to love matter.

I taped a sign over the mirror:

You cannot hate matter and love form.

It was a beautiful day, though cold.

This was, for me, an extravagantly emotional gesture.

…….your poem:

tried, but could not.

I taped a sign over the first sign:

Cryweep, thrash yourselfrend your garments

List of things to love:

dirt, food, shells, human hair.

.   …… said

tasteless excess. Then I

rent the signs.

AIAIAIAI cried

the naked mirror.

Mito di devozione

 

Quando Ade decise che amava la fanciulla

creò per lei un duplicato della terra,

uguale in tutto, fin nei prati,

ma con l’aggiunta di un letto.

 

Tutto uguale, compresa la luce,

perché sarebbe stato duro per una fanciulla

passare tanto in fretta dalla luce splendente alla totale tenebra.

 

A gradi, pensò, avrebbe inserito la notte,

dapprima come ombre di foglie ondeggianti.

Poi la luna, le stelle. Poi né luna, né stelle.

Che Persefone vi si abitui pian piano.

Alla fine, pensò, lo troverà rassicurante.

Una replica della terra

solo che qui v’era amore.

Non vogliono tutti amore?

 

Attese molti anni,

costruendo un mondo, osservando

Persefone nel prato.

Persefone, che odorava, assaporava.

Se hai un appetito, pensò,

li hai tutti.

 

Forse che ognuno non vuol sentire nella notte

il corpo amato, bussola, stella polare,

ascoltare il quieto respiro che dice

sono vivo, che significa anche

che tu sei viva perché mi ascolti,

sei qui con me. E quando si gira l’uno

anche l’altra si gira–

 

Questo sentiva, il signore delle tenebre

guardando il mondo che aveva

creato per Persefone. Non gli venne mai in mente

che lì non vi sarebbe più stato un odorare,

e certamente non più un mangiare.

 

Senso di colpa? Terrore? Paura dell’amore?

Queste cose non poteva immaginarle;

non le immagina mai nessun amante.

 

Sogna, si chiede come chiamare questo luogo.

Dapprima pensa: Il Nuovo Inferno. Poi: Il Giardino.

Infine, decide di chiamarlo

Fanciullezza di Persefone.

 

Una morbida luce si leva sopra il prato,

dietro il letto. La prende fra le braccia.

Vuole dirle ti amo, nulla ti può ferire

 

ma pensa

che è una bugia, così alla fine dice

sei morta, nulla ti può ferire

che a lui sembra

un inizio più promettente, più vero. 

A Myth of Devotion

 

When Hades decided he loved this girl
he built for her a duplicate of earth,
everything the same, down to the meadow,
but with a bed added.

Everything the same, including sunlight,
because it would be hard on a young girl
to go so quickly from bright light to utter darkness

Gradually, he thought, he’d introduce the night,
first as the shadows of fluttering leaves.
Then moon, then stars. Then no moon, no stars.
Let Persephone get used to it slowly.
In the end, he thought, she’d find it comforting.

A replica of earth
except there was love here.
Doesn’t everyone want love?

He waited many years,
building a world, watching
Persephone in the meadow.
Persephone, a smeller, a taster.
If you have one appetite, he thought,
you have them all.

Doesn’t everyone want to feel in the night
the beloved body, compass, polestar,
to hear the quiet breathing that says
I am alive, that means also
you are alive, because you hear me,
you are here with me. And when one turns,
the other turns—

That’s what he felt, the lord of darkness,
looking at the world he had
constructed for Persephone. It never crossed his mind
that there’d be no more smelling here,
certainly no more eating.

Guilt? Terror? The fear of love?
These things he couldn’t imagine;
no lover ever imagines them.

He dreams, he wonders what to call this place.
First he thinks: The New Hell. Then: The Garden.
In the end, he decides to name it
Persephone’s Girlhood.

A soft light rising above the level meadow,
behind the bed. He takes her in his arms.
He wants to say I love you, nothing can hurt you

but he thinks
this is a lie, so he says in the end
you’re dead, nothing can hurt you
which seems to him
a more promising beginning, more true.

Da Averno, 2006.

Fine d’estate

Dopo che ogni cosa mi fu venuta in mente,

mi venne in mente il vuoto.

V’è un limite

al piacere che ho avuto nella forma –

in questo non sono come te,

non ho sollievo in un altro corpo,

non ho bisogno

di rifugi che mi siano esterni-

Mia povera ispirata

creazione, sei

non altro che distrazione, infine,

mera decurtazione; sei

come me troppo piccola alla fine

per soddisfarmi.

E poi così decisa-

esigi un pagamento

per scomparire,

tutto pagato in qualche luogo della terra,

qualche souvenir, come un tempo fosti

ricompensata per la fatica,

poiché lo scriba lo si paga

con l’argento, il pastore con l’orzo,

benché non sia la terra duratura, né

questi piccoli frammenti di materia-

Se tu aprissi gli occhi

mi vedresti, vedresti

la vacuità del cielo,

che si rispecchia sulla terra, i campi

vuoti di nuovo, senza vita, innevati,

poi luce bianca

non più camuffata da materia.

End of Summer

After all things occurred to me,

the void occurred to me.

There is a limit

to the pleasure I had in form –

I am not like you in this,

I have no release in another body,

I have no need

of shelter outside myself –

My poor inspired

creation, you are

distractions, finally,

mere curtailment; you are

too little like me in the end

to please me.

And so adamant –

you want to be paid off

for your disappearance,

all paid in some part of the earth,

some souvenir, as you were once

rewarded for labor,

the scribe being paid

in silver, the shepherd in barley

although it is not earth

that is lasting, not

these small chips of matter –

If you would open your eyes
you would see me, you would see

the emptiness of heaven

mirrored on earth, the fields

vacant again, lifeless, covered with snow –

then white light

no longer disguised as matter.

.

 Per la traduzione (C)2020 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

Alcesti di Rainer Maria Rilke

 

File:Affreschi romani - pompei - alcesti e admeto2.jpg

Museo Archeologico di Napoli. Alcesti e Admeto. Dalla Casa del Poeta Tragico.

 

La lettura poetica che Rilke dà dell’Alcesti di Euripide è sorprendentemente simile a quella che ne fece Carlo Diano. Quel dono della vita per amore, che è promessa e anticipazione di un’altra vita.

F. D.

Alcesti

A un tratto il messo era comparso, come
un nuovo giunto, immerso nel tumulto
della festa di nozze, fra la gente.
Ed essi, i bevitori, non sentirono
il dio dal chiuso andare, che portava
la sua divinità come un mantello
umido, e parve loro uno dei tanti
mentre passava. Ma improvvisamente
vide in mezzo ai discorsi uno degli ospiti
a capo della tavola lo sposo
come non piú giacente, ma rapito
in alto, rispecchiare dal profondo
un’ombra estranea che paurosamente
gli si volgeva… E subito fu chiaro,
fu calma, solo con un resto
a terra di torbido rumore, un gorgogliare
di balbettii cadenti, già corrotti,
di sorde risa trattenute. Allora
riconobbero il dio, l’agile dio,
che stava, pieno della sua missione,
implacabile, – e quasi si comprese.
Pure, quando fu detto, parve piú
d’ogni scienza, non cosa da comprendere.
Deve morire Admeto. Quando? Adesso.

Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani,
come per trattenere il dio fuggente.
Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni,
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte: questa.
Il dio negava. Gridò allora Admeto,
gridò vani richiami a lui, gridò,
come gridò sua madre al nascimento.
Ed ella venne a lui, la vecchia donna,
ed anche il padre venne, il vecchio padre,
e stettero invecchiati, incerti, presso
lui che gridava e a un tratto fissò in loro
lo sguardo, s’interruppe, inghiotti, disse:
«Padre,
importa molto a te di questo avanzo
di vita che ti vieta ormai l’amplesso?
Su, gettalo. E anche tu, tu, vecchia donna,
Matrona,
perché vivi tu ancora? Hai partorito».
E li teneva vittime all’altare
in una presa. A un tratto lasciò i vecchi,
li spinse via da sé, mentre chiamava
anelante, ispirato: Kreon, Kreon!
E solo questo, solo questo nome.
Ma sul suo viso quello che non disse
era impresso in attesa senza nome;

e ansante verso il giovane, il diletto
amico, oltre la tavola sconvolta
si protendeva: i vecchi, vedi, sono
consunti – misero riscatto – e poco
valgono, mentre tu nella pienezza…
Ma l’amico era come dileguato.
Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse piú di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene… (e subito sarà
tra le braccia che s’aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch’ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d’oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.
Nessun morente piú di me, che vengo
perché tutto, sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.

Come la brezza che si leva al largo,
il dio s’avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall’uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l’uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente…
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere piú che quel sorriso.

 

Nella bellissima traduzione di Giaime Pintor

“Diano e i suoi principi per intendere il mondo greco” di Silvano Tagliagambe

Pubblico questo straordinario saggio di Silvano Tagliagambe perché è forse la riflessione più profonda e originale che sia mai stata scritta sul pensiero di mio padre insieme al saggio di Massimo Cacciari per Boringhieri. Gli sono profondamente grata per l’amore e l’attenzione che da alcuni anni dimostra nei confronti del pensiero di Diano e per quello che ha fatto e sta facendo per la diffusione della sua opera.

F. D.

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Silvano Tagliagambe nasce nel 1945 a Legnano è un filosofo e un epistemologo, studia a Milano Filosofia alla Statale come allievo di Ludovico Geymonat con cui si laurea con la lode attraverso una tesi sull’interpretazione della meccanica quantistica di Hans Reichenbach. Si specializza in Fisica quantistica all’Università degli Studi di Lomonosov di Mosca sotto la direzione di Ja.P. Terleckij e poi presso l’Accademia delle Scienze dell’URSS, Istituti di Filosofia e di Fisica dal 1971 al 1974 dove si specializza in Filosofia della fisica con la supervisione di V.A. Fock e M.E. Terleckij. Sviluppa la sua attività scientifica e didattica attraverso un variegato percorso universitario che lo porta ad insegnare presso diversi atenei dal 1974 al 2008 e a collaborare con differenti centri di ricerca ed enti istituzionali come consulente scientifico.Lavora e vive a Cagliari. Il lavoro di ricerca di Tagliagambe si concentra inizialmente sul rapporto tra filosofia e fisica (soprattutto quantistica) nella cultura russa tra ‘800 e ‘900, in particolare sul concetto di realtà fisica (BohrHeisenbergBorn) e sui rapporti tra materialismo dialettico e sviluppi della fisica del ‘900. Dagli anni ’90 si concentra sui temi del rapporto tra realtà osservata e sistema osservante, le interazioni reciproche e il ruolo del linguaggio, della comunicazione intersoggettiva, della mediazione linguistica e della semiotica nel pensiero scientifico. Elabora il ruolo e il significato di interfaccia, il rapporto tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale, in particolare il ruolo progressivamente avuto dalle tecnologie di informazione e comunicazione. Esplora i contributi sul profondo significato del concetto di “margine”, sia esso su un essere vivente, un’interfaccia o il rapporto tra corpo e mente, nei sistemi sociali e nella comunicazione. Studia le forti interconnessioni tra artificiale e naturale, il profondo senso dell’interdisciplinarità, e il libro Il Sogno di Dostoevskij, attraverso una visitazione storica dal dibattito tra lo scrittore e lo scienziato Secënov, fino alle recenti scoperte della neurofisiologia, mette a fuoco il senso del rapporto tra le mente e il corpo e il significato e la funzione dell’inconscio. Ricostruisce e interpreta l’intenso scambio dialogico tra il premio Nobel della fisica Wolfgang Pauli e il fondatore della psicologia analitica Carl Gustav Jung, nel quale emerge il profondo rapporto tra filosofia, fisica e psicanalisi. L’analisi tra visibile e invisibile, il ruolo dell’arte e il senso epistemologico dello spazio intermedio e del confine vengono da lui sviluppati anche attraverso un’esegesi del pensiero di Florenskij. Le ricadute del suo pensiero sulle scienze sociali ed economiche trovano approfondimenti nelle opere dedicate all’analisi dei sistemi organizzativi socio-economici. L’attività presso la facoltà di Architettura lo porta a riflettere sulla’”epistemologia del progetto”, sulla relazione tra possibilità e realtà, sul rapporto tra l’ lo, lo spazio, il tempo, l’ambiente, tra urbs e civitas, sul concetto di paesaggio, sul ruolo delle città globali e sul nesso tra globale e locale. Gli sviluppi delle tecnologie digitali e poi della rete come fenomeno prima tecnologico poi culturale e sociale vengono elaborati e incorporati nel suo pensiero. La sua riflessione teorica è indirizzata anche ai temi dell’apprendimento e dell’organizzazione della conoscenza soprattutto alla luce delle reali esperienze della scuola, dei processi di modernizzazione e innovazione che la coinvolgono e delle nuove esigenze che essa deve affrontare.  Nel 2012 ha diretto il rifacimento del manuale di filosofia di Ludovico Geymonat e pubblicato da Garzanti Scuola con il titolo La realtà e il pensiero. La ricerca filosofica e scientifica in collaborazione con Edoardo Boncinelli.  Tra i suoi lavori più importanti figurano: Scienza, Filosofia, Politica in Unione Sovietica1924-1939 (Feltrinelli, 1978); La mediazione linguistica (Feltrinelli, 1980); L’epistemoloigia contemporanea(Editori Riuniti, 1991); L’impresa tra ipotesi, miti e realtà (in collaborazione con G.Usai, ISEDI, 1994); Espistemologia del confine (Il Saggiatore, 1997); La città possibile (in collaborazione con G.Maciocco, Dedalo, 1997); Epistemologia del Cyberspazio (Demos, 1997); L’albero flessibile. La cultura della progettualità(Masson, 1998)

Da alcuni anni Silvano Tagliagambe ha iniziato a interessarsi del pensiero di Carlo Diano. Quella che segue è una conferenza  da lui tenuta a Vibo Valentia nel 2012 in occasione del primo Certamen Classicum Carolo Diano Dicatum

 

 

Diano e i suoi principi per una interpretazione del mondo greco

di Silvano Tagliagambe

 

  1. Due modi di intendere il sillogismo

 

Quello che Diano ci propone con grande acume e profondità è un percorso filologico, un viaggio all’interno della letteratura e dell’arte del mondo greco che prende però avvio da un “problema tecnico di storia della filosofia greca, il problema del sillogismo degli Stoici nei suoi rapporti con quello di Aristotele”[1].

Già questo è un aspetto significativo, che dà conto di una ricerca variegata e articolata, che non segue linearmente e non rispetta, come se fossero sacri, i confini tra le discipline, ma parte dal presupposto che essi sussistano soprattutto per il piacere (e l’esigenza) di varcarli. Questa “lezione” che ci viene da un grande filologo vale intanto a farci capire quanto questa istanza sia più forte di qualsiasi implacabile “polizia di frontiera”, tesa a impedire la libera interazione e lo scambio dialogico tra i diversi campi del sapere.

Un problema filosofico, dunque, che ci pone subito di fronte alla necessità di liberarci da una visione ristretta della logica nell’ambito della filosofia greca che assuma, come sua espressione più autentica e come prodotto più significativo lasciatoci in eredità da quella grande tradizione culturale, il sillogismo di Aristotele, i cui termini enunciano concetti. Accanto a esso, infatti, c’è un altro modo di intendere il sillogismo, quello degli Stoici, appunto, i cui termini enunciano invece eventi, e che ha due forme, una ipotetica (“Se accade questo, accade quest’altro) e una disgiuntiva (“Domani si verificherà o non si verificherà questo specifico evento”). Una di queste due proposizioni deve essere vera: sin da ora, da sempre: o non esiste né il vero né il falso. Giacché il vero non è altro che il fatto, l’evento appunto, che accade o non accade. Tutto il resto, e il concetto in particolare, non ha realtà.

Dietro questa contrapposizione nel modo di intendere il sillogismo sta un problema di enorme portata teorica e ancora attualissimo, che Diano coglie con una lucidità e una capacità di sintesi stupefacenti: quello del tempo e del valore e del significato da attribuire alle tre dimensioni in cui si articola: passato, presente e futuro. In Forma ed evento la questione viene immediatamente posta nei termini seguenti: dall’approccio degli Stoici segue “la dottrina che solo il presente è reale e che in ogni giudizio il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso equivale a: Socrate sta esercitando la sua virtù. Ed è per questo ch’essi dicono che la virtù è un corpo: perché dove è mai la virtù se non in questo Socrate qui che beve la cicuta? Ed ecco le loro famose e universalmente fraintese categorie. Primo è il soggetto: il puro e semplice «questo», che si indica, come essi dicono, col dito, e non ha altra determinazione che d’essere hic et nunc. Poi viene la qualità, che tiene il luogo della forma, ma sempre come qualità storica: l’esempio che essi vi danno è: Socrate! Terzo è il pὡV ἔcein, il trovarsi in questa o quest’altra condizione particolare, e abbraccia tutto quello che per Aristotele ed Epicuro cade nella sfera dell’accidente. Quarta ed ultima categoria, in cui tutte le altre sono comprese, e nella quale sola esse diventano reali, la relazione, la categoria della realtà in atto, dove il qui coincide col tutto e l’ora col sempre, e che Crisippo paragonava alla volta. E dunque: questo Socrate qui, che sta discutendo con Callia: un evento! E questa è la realtà”[2].

A riprova della straordinaria densità di questo passo, in cui Diano riesce a condensare, in pochissimo spazio, molta conoscenza e molto pensiero, e che quindi costituisce una miniera preziosa di riferimenti e approfondimenti, per estrarne i molteplici significati dovremo analizzarlo a fondo, con pazienza e attenzione.

  1. La «vexata quaestio» del presente

 Il primo punto trattato nel passo al quale abbiamo appena fatto riferimento è lo spostamento del baricentro dell’attenzione, per quanto riguarda il tempo cronologico, sul presente, sull’«hic et nunc», assunto come unica realtà. Si tratta di una scelta non da poco, per un duplice motivo. In primo luogo per l’intrinseca labilità che sembra avere questa dimensione, testimoniata dalle immagini e dalle espressioni che usiamo quando parliamo del presente, dicendo, usualmente che esso “passa”, “scorre”, “fugge” o, addirittura, “vola”. In secondo luogo  per la difficoltà che il pensiero filosofico e scientifico in generale hanno di confrontarsi con l’esperienza fenomenologica immediata e con l’affermazione di «presenza» di una situazione, nonostante il fatto che essa sia di natura pubblica e appaia fondata su una condivisione di esperienza tra tutti i soggetti ‘presenti’ in comunicazione diretta.

Questa difficoltà è ben testimoniata dall’analisi della struttura nomologica della fisica, all’interno della quale la nozione di presente, se non intesa in senso pragmatico, è del tutto assente. Le leggi della fisica, infatti, non possono dipendere dal particolare istante di tempo in cui le consideriamo, né vale certo, come possibile confutazione di questo assunto, il riferimento alle condizioni iniziali, che, anche a voler prescindere dal fatto che, nell’ambito della cosmologia, non possono essere così chiaramente distinte dalle leggi di natura, dipendono solo dallo stato precedente del sistema fisico in esame, e non da uno specifico istante di tempo. L’omogeneità del tempo della fisica fa infatti sì che nessun istante possa essere privilegiato come unicamente esistente o distinto dagli altri.

Inoltre la fisica non si interessa dell’accadimento di un determinato evento, né guarda le cose dal punto di vista temporale associato a un insieme particolare di eventi, secondo una prospettiva, cioè, che renderebbe del tutto naturale affermare che, in quel particolare tempo, solo quegli eventi esistono. Nell’ambito di essa viene invece assunta un’esistenza di tipo più generico, intesa nel senso di esistere a un qualche (e non in un determinato) istante di tempo, corrispondente dunque a considerare le cose sub specie aeternitatis. In seguito a questa “variazione di significato” muta anche il concetto di realtà, che diventa l’insieme o la somma di tutti i punti di vista possibili, cioè di tutti gli eventi che esistono indipendentemente da quando accadono, nel senso che occupano una ben precisa regione dello spazio-tempo. Queste considerazioni valgono anche a proposito delle teorie della fisica relativistica: Infatti, come nota Pauri, “la mancanza di una nozione assoluta di simultaneità fa sì che, nell’universo post-einsteiniano, ogni partizione dello spazio-tempo in una regione globalmente futura e in una globalmente passata dipenda dalla velocità del sistema di riferimento, e in quanto tale, sia accidentale e non oggettiva. Senza far riferimento a eventi particolari, ogni partizione globale risulta dunque relativa a un osservatore inerziale, e proprio per questo motivo è opportuno assumere che ogni evento sia reale”[3].

E’ noto che la teoria della relatività ristretta, con il riferimento allo spaziotempo quadrimensionale di Minkowski, stabilisce l’inseparabilità di spazio e tempo, con conseguente impossibilità di porre un “ora” senza un “qui”. Entità fondamentale della teoria è il cono di luce, che rappresenta un elemento invariante della sua struttura matematica. Si tratta di due falde di un cono a quattro dimensioni, che per esigenze di visualizzazione viene rappresentato come due triangoli bidimensionali, che si incontrano in un vertice comune p, che indica il presente di un osservatore, e che si aprono l’uno nel passato e l’altro nel futuro di questo punto. La sua proprietà più importante è la seguente: ogni intorno di uno qualsiasi di questi punti p dello spazio-tempo di Minkowski viene diviso dal cono di luce in tre parti, che si chiamano futuro assoluto di p, passato assoluto di p, e regione di genere spazio rispetto a p. La differenza tra regione del genere tempo, costituita dalla somma del passato assoluto e del futuro assoluto di p, e quella di genere spazio, situata fuori delle due falde del cono, è che un punto qualsiasi di quest’ultima non sarà raggiungibile da un segnale luminoso e dunque (dato che nulla viaggia più velocemente della luce) da alcun segnale fisico, e si dirà perciò causalmente non connettibile con p. La prima è invece l’insieme dei punti causalmente connettibili con p: in particolare il passato assoluto di quest’ultimo è l’insieme delle sue possibili cause, ed è quindi prima di p, mentre il futuro assoluto di p è l’insieme dei suoi possibili effetti, ed è perciò dopo di esso. Abbiamo così una prospettiva che riduce le relazioni temporali a quelle causali.

Come osserva Dorato “la qualificazione ‘assoluto’ per il passato e il futuro di un qualsiasi punto non è frequentemente reperibile nella letteratura sulla relatività, ma è particolarmente appropriata per segnalare l’invarianza dei rapporti temporali tra p e un qualsiasi punto dentro le falde del cono. E’ importante ricordare che ‘assoluto’ in relatività ha vari sensi, e qui significa ‘indipendente da un sistema di riferimento’.  Data l’invarianza della velocità della luce (ovvero la sua indipendenza dal moto della sorgente) anche i rapporti temporali tra eventi che sono all’interno del cono di luce rimangono invariati per ogni osservatore, indipendentemente dal suo stato di moto e dunque dal sistema di riferimento inerziale che occupa[4].

In altre parole, se un evento r è prima di (o dopo) p per un osservatore, ed è quindi del genere tempo rispetto a p – ovvero è causalmente connettibile con p perché giace all’interno delle falde del cono centrato in p- allora tale giudizio temporale varrà in modo oggettivo per ogni osservatore inerziale dello spazio-tempo, indipendentemente dalla sua velocità[…] E’ della massima importanza tenere presente che questa invarianza non si riscontra invece per eventi q che siano separati da p da un intervallo di genere spazio, e che si trovino perciò fuori del cono di luce di vertice p. Infatti esistono sistemi di riferimento inerziali in cui p è prima di q, altri in cui p è dopo q, e un sistema in cui p e q sono simultanei. Questa non-invarianza dei rapporti temporali tra eventi separati da intervalli di genere spazio conduce direttamente alle soglie dell’innovazione concettuale più significativa della relatività speciale”[5]. Si tratta, com’è noto, del fatto che, diversamente dalla meccanica newtoniana, questa teoria nega la simultaneità assoluta di due eventi nello spazio globale per cui viene a mancare anche un sistema di riferimento intrinsecamente privilegiato.

Per spiegare le ragioni della difficoltà della descrizione fisica del mondo a confrontarsi con la dimensione dell’«hic et nunc» Pauri scandaglia le modalità attraverso le quali si è giunti, storicamente, a elaborare e a mettere a punto questa specifica descrizione. In particolare, egli punta l’attenzione su due aspetti: l’implicita metodologia della separazione del mondo in tre parti, e le altrettanto implicite approssimazioni fondanti, tra le quali rientra appunto quella del tempo fisico, che consentono l’idealizzazione degli oggetti fisici, sulla quale si innesta la loro matematizzazione e la conseguente costituzione di un modello che letteralmente rimpiazza gli oggetti reali. Per quanto riguarda il primo aspetto viene sottolineato che, in questa descrizione, “è sempre, almeno implicitamente, presupposta la separazione del mondo in tre parti: una prima parte che possiamo definire propriamente come l’oggetto (o il sistema) fisico, una seconda parte che è l’osservatore (che sovente assume ambiguamente le specie simultanee di apparato di misura e di soggetto pragmatico che applica le procedure sperimentali ed elabora le strutture teoriche) e una terza parte che costituisce il resto del mondo. La variabilità delle relazioni fra quest’ultimo e l’oggetto fisico identifica la componente irriducibilmente contingente della descrizione fisica e viene formalizzata nelle cosiddette ‘condizioni iniziali o “al contorno’ del sistema in oggetto. La tripartizione consente la formulazione delle possibili variazioni temporali dell’oggetto (leggi fisiche) in connessione con la scelta di differenti relazioni con il resto del mondo”[6].

Le approssimazioni fondanti, che costituiscono un ulteriore e imprescindibile requisito per la formulazione delle leggi, sono costituite da quelle che Pauri chiama le condizioni galileiane, e cioè: “i) ripetibilità temporale indefinita dell’intero insieme di relazioni fra l’oggetto e il resto del mondo; ii) irrilevanza delle relazioni spaziali fra una conveniente regione, definita dall’oggetto stesso e il suo ambiente locale, e il resto del mondo. Tutte queste condizioni, che stabiliscono la distinzione fra discipline puramente empiriche e scienze sperimentali, implicano in particolare l’omogeneità spaziale e -soprattutto- l’omogeneità temporale, insieme alla possibilità di ripetere a piacere la richiesta separazione del mondo”[7].

Queste approssimazioni, per poter essere formulate e attivate, presuppongono, a loro volta, una sorta d’idealizzazione primaria, più profonda e fondamentale di esse, quella che sta alla base della definizione del tempo fisico. L’omogeneità temporale e l’individuazione della ricorrenza di stati fisici identici esigono, infatti, che siano soddisfatte due specifiche condizioni. “Innanzitutto la costituzione di un’opportuna procedura di approssimazione; in secondo luogo, una condizione cosmologica sul ‘resto del mondo’ che garantisca l’esistenza di subtotalità autonome, fisicamente quasi- isolate, tali da consentire –nei limiti dell’approssimazione costituita- il riconoscimento di una stabilità di ricorrenza temporale. Tali richieste, che sono anche pre-condizioni per la realizzabilità – almeno locale e sempre nei limiti della approssimazione – delle condizioni galileiane, identificano per definizione un orologio fisico standard, cosicché non ha poi senso empirico chiedersi se successivi intervalli temporali contengono o meno la stessa ‘quantità di tempo’: il tempo fisico è relazionale per costituzione”[8].
La descrizione fisica del mondo si è dunque sviluppata, secondo Pauri, a partire da una teoria statica del tempo, per cui non solo non è sorprendente, ma è addirittura scontato che gli sviluppi di questa descrizione confermino la validità di questa idealizzazione primaria e fondante.

Sostenere che, pur tuttavia, la stessa teoria statica potrebbe essere confutata e falsificata dalla “realtà osservata”, qualora non si dimostrasse corretta rispetto ad essa, significa cadere in pieno nella trappola, sempre in agguato, della confusione tra “evento fisico” e “accadimento del mondo reale”, fra componenti irriducibilmente contingenti e leggi fisiche o “forme nomologiche di possibilità. Questa distinzione implica infatti che “un oggetto fisico non sia mai definito da una singola individuazione oggettuale. Esso corrisponde a una classe di equivalenza di determinazioni singole, individuata precisamente dalla astrazione delle relazioni con il resto del mondo che, nel caso specifico, sono considerate irrilevanti. Inoltre, la rete di relazioni attraverso cui l’oggetto fisico è definito costituisce un reticolo ideale in cui sono stati soppressi tutti i particolari fenomenici, in quanto fenomenici e particolari, cosicché il soggetto esperiente non vi appare più. Ogni classe (un oggetto fisico) costituisce un ‘modello’ che, letteralmente, rimpiazza la cosa fenomenica intenzionalmente esperita con la sua molteplicità di prospettive. Così, lo status della descrizione fisica implica che possiamo avere scienza di ‘tipi’ ma mai scienza di ‘particolari’ e, soprattutto, che la transienza temporale della soggettività è radicalmente rimossa dal quadro”[9].

Il tempo fisico è pertanto  il risultato di una riduzione dimensionale e di complessità che comporta l’esclusione da esso del presente e della transigenza, sacrificati in nome dell’esigenza, considerata primaria e irrinunciabile, della costituzione di un’opportuna procedura di approssimazione e di una condizione cosmologica sul ‘resto del mondo’ che garantiscano un ‘omogeneità temporale’, cioè l’esistenza di subtotalità autonome, fisicamente quasi-isolate, tali da consentire – nei limiti della approssimazione così costituita – il riconoscimento di una stabilità di ricorrenza temporale.

A conclusione dell’analisi di questo specifico aspetto possiamo riassumere ciò che è stato evidenziato a proposito della descrizione fisica del mondo dicendo che ciò che viene studiato nell’ambito di essa è il risultato di un’operazione logica, quella di partizione, in virtù della quale non abbiamo più a che fare con un singolo oggetto specifico, ma con una classe di enti costruita attraverso l’applicazione a un insieme non vuoto di una relazione di equivalenza che lo suddivide, appunto, in classi di equivalenza. Lo specifico modello, che è il risultato di quella descrizione, si costituisce dunque rinunciando al principio dell’individuazione degli enti, sacrificata in nome delle approssimazioni fondanti di cui abbiamo parlato, in particolare della ripetibilità temporale indefinita dell’intero insieme di relazioni fra l’oggetto e il resto del mondo e dell’irrilevanza delle relazioni spaziali fra una conveniente regione, definita dall’oggetto di studio e dal suo ambiente locale, e il resto del mondo. L’oggetto della conoscenza, in questo caso, è quindi costituito da classi perfettamente definite e prive d’ambiguità anche grazie al blocco del processo d’individuazione, che ci consente di “ritagliarle” all’interno del flusso d’accadimenti che caratterizza il mondo reale e di definirne i confini in modo netto.

  1. L’Evento

 Quello che, riprendendo l’analisi di Pauri, abbiamo detto a proposito della distinzione tra  “oggetto fisico” e “accadimento del mondo reale”, fra componenti irriducibilmente contingenti e leggi fisiche o “forme nomologiche di possibilità” ci consente di affrontare nel modo migliore la distinzione tra “evento” e “forma” teorizzata e proposta da Diano. L’evento è sempre puntuale e individualizzato, costituisce un vissuto, non un pensato, proprio quel vissuto riferito al soggetto esperiente e all’accadimento specifico di qualcosa qui e ora, cioè in un presente determinato e irriducibile ad altri istanti del tempo, che la descrizione fisica del mondo espunge dal proprio orizzonte teorico. Come scrive Diano in una lettera a Pietro de Francisci, pubblicata nel fascicolo III del luglio-settembre 1953 del ‘Giornale critico della filosofia italiana’, e ripubblicata in appendice a Forma ed evento, “evento è preso dal latino, e traduce, come spesso fa il latino, il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit: o ti gίgnetai έḱάstw, come scrive Filemone, ricalcando Aristotele. La differenza è capitale. Che piova è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me. E però, se ogni evento si presenta alla coscienza come un accadimento, non ogni accadimento è un evento. […] Di evento, dunque, non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto, e dall’ambito stesso di questo soggetto. […] Come id quod cuique èvenit l’evento è sempre hic et nunc. Non v’è evento se non nel preciso luogo dove io sono e nell’istante in cui l’avverto. […] Da quello che precede è chiaro che non sono l’hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che temporalizza il nunc e localizza l’hic. E l’hic è in conseguenza del nunc perché è come interruzione della linea indifferenziata e non avvertita della durata – e cioè dell’esistenza come esistenza vissuta – che l’evento emerge e s’impone, ed è per essa e in essa questa interruzione che l’hic è avvertito e si svela”[10].

L’evento che capita a qualcuno, dunque, opera in modo da rompere l’omogeneità dello spazio, ritagliandolo e differenziandolo, e da congelare e condensare il tempo in un singolo istante; dall’altro lato, però, esso dipende dall’intero universo ed è connesso indissolubilmente alla totalità dello spazio e del tempo, perché gli eventi sono nel tempo e si legano l’uno all’altro e fanno catena, formano un tutto e ciascuno di essi ha un senso e un fine solo nella connessione con gli altri. “Ogni evento, perdendo la sua accidentalità, si inserisce nella ferrea catena provvidenziale del destino, di una necessità logicamente intesa, riscontrabile ovunque e senza eccezioni, Cade così la linea di demarcazione tra l’hic et nunc e l’ubique et semper. La tyche è solo un evento isolato di cui s’ignora la causa. Ma questa indubbiamente esiste e pertanto l’evento deve avere per forza un significato”[11],

L’evenit proviene da una periferia spazio-temporale, da una totalità cosmica alla quale, pur staccandosi da essa, rimane legato, “la prima definizione che noi abbiamo di questa periferia è l’ἄπειρον periέcon che Anassimandro e i teologi greci identificavano col «divino», e da cui facevano «governare il tutto». E l’intera grecità ne mantiene il concetto”[12]. “Eternità e trascendenza in senso proprio sono di quell’assoluto «comprendente» che è il periechon e di quell’assoluto polo che è l’Uno, «là ‘ve s’appunta – come dice Dante – «ogni ubi ed ogni quando», e che pertanto sono sempre in relazione con l’hic et nunc di quel cuique, che «io stesso sono»”[13].

Attorno ad ogni singolo evento si apre quindi l’infinità del periechon, il «senza limiti», un principio divino, immortale e indistruttibile, quella dynamis, come sinonimo di enèrgeia che assume nell’età ellenistica un senso che è specifico del «sacro». “La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatogli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare a essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è  la diversa chiusura che in esse vien data allo spazio e al tempo dell’evento, e la storia dell’umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure d’eventi”[14].

  1. Nome e verbo

 La più semplice forma di chiusura è il nome. Ed è per questo che nel passo da cui siamo partiti particolare attenzione è dedicata al rapporto tra nome e verbo, partendo, come si è visto, dall’asserzione che per gli Stoici “il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso, equivale a Socrate sta esercitando la sua virtù”.

Nei Quaderni preparatori per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte  si trova un breve passo che ci fornisce la chiave per interpretare nel modo corretto  questa affermazione: “Nome e verbo. Difficoltà in cui si trovano i linguisti nel definirli – Con la mia teoria si spiega tutto – Il verbo è sempre τό συμπίπτον = τό συμβεβεκός  – eventum – Il nome è per eccellenza la forma, la struttura – ciò che non significa senz’altro la sostanza – o la significa in senso lato – Bisogna ritornare alla logica dei sofisti fino ad Aristotele – La logica sofistica non distingue la sostanza dall’accidente – il nome dal verbo – Ogni percezione ha una sua struttura temporale – il nome e il verbo si sono confusi: l’acqua scorre è un unico fatto – separate le due dimensioni e avrete il nome e il verbo- Ma è una separazione precaria perché il loro rapporto è dinamico”.

Per liberarsi dallo stupore e dall’horror generati dal trovarsi di fronte all’infinità, al gorgo in cui tutto è possibile, al fatto di sentire, dietro la cosa come evento, l’azione di una potenza inafferrabile, l’uomo cerca di superarne l’infinità, dando a essa un nome e specificandola. La struttura nome/verbo, soggetto/predicato sposta il baricentro e l’attenzione della frase dall’azione e dall’evento, con la catena di disgiunzioni e di “se” di una necessità ipotetica, a cui l’evento stesso è inestricabilmente connesso e rimanda, al nome. In questo modo si attenua e si smorza la presenza sulla scena dell’èvenit, che è sempre hic et nunc e sempre al centro di un periechon infinito, e che pertanto non può che essere vissuto, e al suo posto subentra qualcosa di circoscritto. Il senso di questo passaggio è ben reso da un altro passo dei Quaderni preparatori per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte:

“Vi sono due vie nella costituzione del nome?

forma struttura extratemporale

entro (?) – temporale senza che sia di necessità spaziale = il mana –

Il nome come soggetto del verbo (evento) è sempre singolare particolare. (aoristo o se volete presente indefinito)”.

Vi sono qui due riferimenti che vanno ben compresi: il primo è all’aoristo, il secondo al “mana”. Il passato indefinito (a privativo o negativo e oristoV, definito, determinato) indica, come dice il nome stesso, un’azione temporalmente indeterminata, e quindi l’azione in sé e per sé, senza indicazioni precise di tempo e di aspetto. Il suo legame con l’evento è così caratterizzato da Diano: “Perché l’epifania, che è da epi- fainesqai, appartiene alla sfera dell’evento. Lo dice la preposizione che entra nella composizione del verbo e gli dà valore d’aoristo. Essa è sempre hic et nunc, e però l’alicui che il phàinesthai presuppone, non potendo, in rapporto all’epi, avere esistenza se non in quell’hic e in quel nunc, è sempre un cuique. Perciò è specifica del «sacro». Nell’età ellenistica, epifanhV, come sinonimo di swthr o «salvatore», è epiteto di numi e di re venerati come numi, «Può parere strano» – scrive il Van der Leeuw – «che ciò che si ‘rivela’ non si mostri». E P. Tillich, che egli cita a rincalzo: «Solo ciò che per sua natura è nascosto e inaccessibile ad ogni conoscenza, è solo questo che vien comunicato dalla rivelazione. Rivelandosi esso non cessa di essere nascosto, giacché questa è la sua essenza, e, quando si rivela, rivela anche che è nascosto». Che è linguaggio che può essere adoperato solo nell’ambito della forma, ad epifania avvenuta, quando si è fuori dell’evento. In ipso eventu non c’è nulla di nascosto, giacché il rivelarsi, e cioè l’epiphàinesthai, non è che una metafora per evenire, e questo è tale solo in quanto non ha forma e non appare, e quanto più appare ed ha di forma, tanto meno ha di èvenit e tanto meno si «rivela»“[15].

La struttura nome/verbo, soggetto/predicato comincia a far emergere un’alternativa alla polarità tra l’«è» e il «non è», tra l’hic et nunc e l’ubique et semper, vissuta in atto nell’evento e tipica di ciò che è sempre hic et nunc e sempre per un cuique, e non si rivela se non come «nascosta», alternativa che comincia a profilarsi nella ripetizione. Il nome ha infatti una duplice funzione. In primo luogo, come si è detto, specifica la potenza che si rivela nell’evento, ne supera l’infinità e la limita, rendendo così possibile all’uomo di liberarsi dal terrore paralizzante che gli incute un potere incondizionato e senza confini e di dare una direzione alla propria azione. “L’esempio più cospicuo di chiusura fatta a base di nomi ci è dato dagli Indigitamenta romani. Non c’è atto o momento della vita e della natura, non c’è accadimento, che per i Romani non sia evento e non riveli una potenza, a cui viene dato un nome che è il nome stesso della cosa”[16].

In secondo luogo il nome permette di riprodurre l’evento e di farlo presente (ed è per questo, sottolinea Diano, che alcuni nomi sono tabù). La ripetizione trasforma un «vissuto» in un «rappresentato»: alla fine di questo processo di trasposizione da un livello (il vissuto) all’altro (il rappresentato ) la ripetizione cede il passo alla specularità che l’arresta. Ed ecco, appunto, il nome, che prelude e apre a questa specularità «invasiva», che cancella ogni forma di polarità, in quanto insita in un «è» che è sempre «è» e, come esclude l’hic et nunc, così esclude il cuique. In questo caso il soggetto non è che lo specchio dell’oggetto, esso stesso l’oggetto nell’atto in cui si vede, e l’uno essendo fuori del tempo, lo è anche l’altro. Qui siamo di fronte a qualcosa che è interamente «palese» e lo è sempre, ed essendo tale, non si «rivela», non è epifanica. “Il che”, scrive Diano, “è dimostrato dalla stessa parola che la designa, e che un lessicografo citato dalla Suda considera come il preciso opposto di epiphàneia: a – lhqeia, che vale «il non nascosto», e sia per la forma negativa, sia per il valore stesso del verbo che essa nega, e che è di stato e non d’azione, esclude ogni aoristicità (lhqw non ha aoristo: quell’aoristicità appunto che è propria dell’evento (cfr. tuch-etucen) ed è nell’essenza dell’epiphàneia: perciò è sinonimo di to on. E però, se dall’ambito dell’epiphàneia viene condannata come «sogno» ed «illusione», essa a sua volta la respinge come «cecità» e «follia» (Socrate e i poeti, e il razionalismo di tutti i tempi e la religione); in una guerra che non ha tregua, ed oggi è in una delle sue fasi più acute”[17].

Il nome, come detto, apre e prelude a quella forma di specularità antitetica alla polarità e mutuamente esclusiva rispetto ad essa, ma ancora non la esprime e non  la possiede, in quanto in esso la specularità non è ancora di due identici, trattandosi di un «rappresentato» che non toglie il «vissuto». “I due èvenit non sono solo rappresentati, sono innanzi tutto parlati, e, come parlati, hanno alone e accento diverso: sono appunto l’uno hic et nunc, e l’altro ubique et semper, e però mantengono intera la polarità che li genera. La medesima polarità è nel nome. Di qui la sua natura di simbolo e la labilità che lo riapre alla ripetizione e all’evento”[18].

Proprio perché conserva ancora la polarità dell’evento il nome è una modalità di chiusura che riapre di continuo all’evento: esso è caratterizzato proprio da questo moto che non ha sosta, dal piano del rappresentato, a quello del vissuto, e poi di nuovo torna al primo, e da questo al secondo. La ripetizione non fa che riprodurre questo moto e ne è la conseguenza. E anche il verbo partecipa a questo processo: il simbolo è infatti “una forma che, nata dalla specularità in cui la ripetizione del verbo «chiude» la polarità dell’evento, non è che un mezzo per permetterne la ripetizione, ed è «reale» solo nel momento in cui si «riapre» a quella polarità e, cessando d’esser forma, rifà presente il «divino»”[19]

Interessante, da questo punto di vista, è anche il secondo dei due riferimenti che abbiamo evidenziato, quello dedicato al «mana», che negli inediti compare nei passi che seguono:

“Evento

per me hic et nunc

la necessità il fatto – la ragione cinica

il caso – l’intelligenza e l’audacia

la τύχη  dea    –  il mana

la τύχη necessità  – la potenza unica

                               il ciclo – le forme

                               simboli”

“La simmetria è in ogni rito, in ogni formula magica, in ogni movimento di danza – canto. La preghiera è simmetrica – nella sua forma più semplice è una ripetizione-

Spazio chiuso-

            Obbedisce al principio del circolo-

            L’uomo ha orrore dello spazio aperto

            è  l’evento senza causa-

evento – horror – mana

e il circolo è chiuso-

            Il principio d’identità – la causa formale e finale d’Aristotele

            forma prius e fine post si scambiano

L’identità il principio della forma-

La simmetria è la concezione più astratta della forma-

            La simmetria totale è il circolo-

            Disponendo simmetricamente i leoni si chiude nel circolo della razionalità l’irrazionalità delle potenze-

            La simmetria (il circolo) è magica-

            Lo sforzo dell’uomo è di un continuo

                        aggiustamento del reale

           l’esperienza è asimmetrica-

L’uomo la chiude nella simmetria-

La simmetria è la prima manifestazione del lògos

Col nous passiamo a un piano superiore, perché il nous discopre l’essenza – l’essenza che il logos ignora-

            essenza = autarkeia = libertà

l’essere nella sua assolutezza

è il sospiro dell’uomo e l’oggetto ultimo dell’arte-“.

La Tyche, a seconda delle interpretazioni dell’evento e delle visioni della vita, è caso, dea e destino. Il suo nesso indissolubile con l’evento è messo in rilievo dall’aoristicità dela parola «tyche», la quale designa il fatto nel suo momentaneo accadere, e il verbo che le corrisponde è sempre all’aoristo. Come dea essa è il «mana», cioè una potenza che si manifesta nel suo operare, che non contempla, ma fa. Questa potenza è per eccellenza to poioun, «colui che fa». “E, se come corpo è nello spazio, per il suo fare è nel tempo, ma l’essere coincidendo col fare, spazio e tempo fanno uno: perché la realtà è evento, e quindi storia, la storia delle sue epifanie”[20].

Contingente e particolare l’evento: contingente e particolare anche la rappresentazione della potenza quale è appunto la rappresentazione del mana. E come l’evento è vuoto se non si riferisce a qualcuno, se non è l’evento di qualcuno, così anche la potenza, staccata dal principio che la determina, che è l’evento, l’azione in sé e per sé, il fare, è vuota e rimane vuota.

 

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  1. La forma

 Proprio per le caratteristiche indicate la struttura nome/verbo fa da tramite e da ponte al passaggio dall’evento alla forma. In sé il nome non è ancora forma, ma qualcosa di intermedio tra quest’ultima e l’evento, e dunque «forma eventica» che, come si è visto, condivide con la forma la chiusura, ma non cancella la polarità originaria dell’evento ma si alimenta di essa attraverso la ripetizione. Con il nome arriviamo dunque alle soglie della «forma». “Dico alle soglie perché tutte queste chiusure, considerate in se stesse e fuori della relazione con l’evento, sono forme e non sono possibili senza l’azione del principio che è proprio della «forma», ma non sono la «forma». Forma è ciò che i Greci da Omero a Plotino chiamarono eidos, ed eidos è la «cosa veduta», e assolutamente veduta. Ciò che la caretterizza è l’essere «per sé» (kaqauto). Solo essa è per sé, e quello che è lo è in sé stessa e per se stessa ed esclude la relazione. Come tale esaurisce la sua essenza nelal contemplabilità: tutto quello che essa è, è contemplabile, e ciò che in essa non è contemplabile, non è. Delle forme invece che l’uomo dà all’evento, nessuna è «per sé», esse sono sempre per l’altro (katallo ti) e «in vista dell’altro» (eneka tinoV allou). E non s’intendono che nella relazione. Come forme sono anch’esse contemplabili, ma la contemplabilità non esaurisce la loro essenza, è solo un mezzo per attingere ciò che in esse non appare, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e non eide, forme eventiche e non le «forme»”[21].

A differenza della forme eventiche, “la forma è assolutamente e per eccellenza speculare e assolutamente identica”[22].

Sempre speculare con se stessa e quindi irrelativa all’altro la comparsa della forma segna un autentico «rovesciamento di prospettiva»: da una concezione nell’ambito della quale la relazione viene considerata la modalità primitiva ed equipollente del reale a un pensiero “oggettivante”, accentrato sulle idee di sostanza e di proprietà come qualcosa di intrinseco a essa. Nei Quaderni preparatori per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte Diano si sofferma sulle seguenti definizioni di forma:

Köhler:

“forma significa un tutto delimitato” “ogni volta che un processo si distribuisce conformemente alla costellazione di condizioni data in tutto il suo campo e si ordina da sé, si tratta di un caso che appartiene al regno della psicologia della forma” –

Westheimer:

“Le forme sono strutture integrali (ganze) il cui comportamento non è determinato dal comportamento degli elementi singoli che le compongono, ma dalla natura intrinseca dell’insieme”.

“Un insieme è una somma di parti o pezzi unicamente qualora esso possa venir costruito con tali parti o pezzi, e precisamente di uno accanto all’altro, senza che in seguito alla configurazione una delle parti si modifichi”.

Koffka:

 “L’organizzazione è il processo che conduce alla forma. Questa determinazione non basterebbe per definire la forma se non le si incorporasse il modo dell’organizzazione: e precisamente quello che è espresso dalla legge della pregnanza.

            Questa organizzazione è l’opposto diametrale di distribuzione casuale”.

Matthaei:

“Nel nesso strutturale di una forma l’intero e le sue parti si determinano reciprocamente e le parti non sono collegate indipendentemente dal tutto ma impongono all’insieme l’impronta della loro articolazione (glicherung)”.

Petermann:

“forma è una struttura integrale subtotale in seno alla totalità del nostro campo percettivo”.

Così come appare per la prima volta nel mondo greco, di cui è un prodotto esclusivo, il senso della realtà come forma è caratterizzato da una rottura con il tempo e una apertura allo spazio, alla visibilità non solo fisica, ma anche mentale, alla figura immobile e percepita dagli occhi e all’eidos-idea immaginata o pensata. “Per trovare la forma che sia fine a se stessa, bisogna risalire ad Aristotele, e prima di lui a Platone. Ma Platone la stacca dalla terra, e poiché non sa decidersi a toglier senso all’evento, la vanifica nel numero e nella teologia dei Misteri. Aristotele dunque: e che cos’è la forma per Aristotele? […] è l«la cosa veduta». Nel fatto il conoscere è un vedere, dal grado più basso rappresentato dal senso, e il senso per eccellenza è la vista, al più alto costituito dall’intelletto. L’intelletto, il nous, è un occhio, l’occhio dell’anima, come l’aveva chiamato Platone, e vede l’universale, laddove gli occhi del corpo sono limitati al particolare. E come questi hanno bisogno della luce, così anche l’intelletto, e gli è data da un altro intelletto ch’è in esso e che opera alla maniera del sole. Gli occhi vedono i corpi, li vedono come figure, e ne trasmettono l’immagine alla fantasia, una facoltà che sta di mezzo tra il senso e l’intelletto: in questa immagine l’intelletto vede l’universale: ciò che per gli occhi era figura, qui diventa forma, eidoV in senso pieno: Ora qui è il punto. Che differenza passa tra la figura e la forma? Quella che passa tra il particolare e l’universale, risponde Aristotele. Ma che significa universale, quando la forma è altrettanto visibile quanto la figura? Perché si corre il rischio di slittare nell’astratto e di concepire la forma come specie. È un rischio al quale Aristotele non s’è sottratto. Ma non è lì la sua esperienza vera. Egli si era formato alla scuola di Platone, e come Platone era greco, e il Greco, in ciò che lo distingue, è questo: il senso della realtà come forma: un grande occhio aperto sul mondo e che ne proietta le immagini nell’eterno”[23].

Apparsa dunque per la prima volta in Grecia, questa idea della forma successivamente si perde, e poi riappare nel Rinascimento  in Toscana, e, come la prima volta permette il sorgere della scienza, la seconda ne rende possibile la ripresa. “Oggi essa sarebbe interamente perduta, se non fosse per quella astrazione che ne è conservata dalle scienze, di cui come principio d’identità costituisce la base”[24]. Ed è un vero e proprio atto di creatività, un’ipotesi audace, dato che “è un’illusione il credere che la sostanza di Aristotele sia ricavata dall’esperienza. L’esperienza non dà che accidenti, e cioè eventi, e lo stesso Aristotele insegna che l’induzione non arriverebbe mai all’universale, se questo non fosse già nell’intelletto, La forma non si deduce e non di induce: è o non è, E perciò ha valore di categoria, e l’altra è l’evento, e tra loro sono irriducibili: tutti i tentativi fatti nella storia del pensiero per ricondurli a un unico principio, sono andati falliti, a partire da Platone, che riconfermando l’antinomia dell’Alètheia e della Doxa rivelata da Parmenide, ne denunciò alla fine l’impossibilità”[25].

Già in Aristotele, dunque, ci sono in modo chiaro le prime tracce del cosiddetto “problema di Hume”, che consiste nel cercare di capire come si passa da una molteplicità di osservazioni a una teoria che permette di prevedere il comportamento della natura. È corretto e scientificamente affidabile, si chiede in proposito Hume, il procedimento induttivo, che permette di passare da tanti casi particolari a un enunciato generale? L’esempio tipico di Hume era questo: come possiamo essere certi che domani sorgerà il Sole sulla base del fatto che ogni giorno l’esperienza passata ci ha insegnato che il Sole è sorto? C’è una ragione per cui il futuro debba necessariamente somigliare al passato? La risposta da lui fornita era, com’è noto, scettica: l’induzione non è uno strumento affidabile per la ricerca della verità, in quanto è basata su un indebita trasformazione di una successione temporale (post hoc) in un legame causale (propter hoc). Tuttavia l’uomo è portato a “credere” nell’induzione (a credenze del tipo “domani sorgerà il Sole”) perché guidato dall’abitudine. Ciò che ho visto molte volte accadere mi porta alla credenza che lo rivedrò ancora accadere.

La specularità pura, diceva già Platone, “è nell’intelletto, ed è «sapienza», o sophia. […] è una rivelazione de’attimo, una rivelazione concessa solo a chi ha «natura» atta a riceverla (cfr. Plat., Epist., VII, 343 e)”[26].

Le due categorie di forma ed evento riflettono anche due atteggiamenti opposti nei confronti del tempo: la parola latina forma traduce, come si è visto, dal greco due termini: «μορϕη» forma visibile, e «ειδος» forma astratta. “La forma è la configurazione visibile del contenuto” con questa affermazione del pittore Ben Shahn, Arnheim inizia il capitolo “Forma” della sua opera Arte e percezione visiva[27] (in cui la compresenza dei significati generati dalle due parole greche è inequivocabile. Arnheim scrive che “quando si percepisce la configurazione la si prende, consapevolmente o no, come rappresentazione di qualche cosa, e quindi come forma di un contenuto”, associando quindi alla definizione di forma il concetto di con-figurazione la quale però “non si percepisce mai come forma di una sola cosa particolare, ma sempre di un genere di cose”. È proprio su questa dualità di significati che ruotano tutte le “storie” della forma.

L’evento, al contrario, è saldamente radicato nel tempo: proprio per questo, rispetto alle forme, privilegia il movimento che le struttura, che è all’origine di esse e ne è la genesi, secondo il procedimento ben esplicitato da Klee, che nel suo scritto La confessione creatrice[28] osserva che un punto si fa movimento e linea: ma questo richiede del tempo. Altrettanto allorché una linea, movendosi, diventa superficie, e lo stesso per il movimento da superfici a spazi. Nell’opera di questo artista, non a caso, a farsi soggetto sono il processo di formazione della forma e la temporalità dell’opera, il cui carattere è determinato dal movimento.

Se dunque la forma ferma il tempo e crea spazio, l’evento è l’espressione del processo dinamico che struttura le forme, dello spazio temporalizzato teorizzato nelle sette invarianti di Bruno Zevi, “…la vita è sempre investita da eventi; si tratta di graduarne il dinamismo, ma in nessun caso lo si può ridurre a zero…”[29].

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  1. «Incarnazioni» e rappresentazioni della forma e dell’evento: Achille (e Agilulfo) e Ulisse.

 L’esemplificazione più semplice e immediata dell’antitesi tra forma ed evento ci è offerta, secondo Diano, dai due poemi di Omero: l’eroe dell’Iliade è un eroe della forma e perciò della cristallizzazione, della forza, l’eroe dell’Odissea è un eroe dell’evento e perciò dell’intelligenza: perché la forma non è mediabile, ma l’evento è tutto nella mediazione. Achille ed Ulisse sono gli eroi eponimi della forma e dell’evento, le due anime della Grecia e tutta la storia della Grecia è la storia di queste due anime.

“L’eroe dell’Iliade è un eroe della forma e, come tale, della forza. Perché tra forma e forza non possono esservi altri rapporti che di forza. La forma è un assoluto che esclude la mediazione. Rapporti di forza, ma questa forza non è la forza bruta, che ha il principio ed il fine fuori di sé, come tutte le forze che sono nella natura, e rientra nell’evento, è la forza dell’azione che ha il suo fine in se stessa, la forza che è propriod ella forma. Che, nei suoi effetti ò materiale quanto l’altra, ed è Bia, nel principio da cui promana, è KratoV ed è maiestas. Kratos e Bia sono in Esiodo paredri di Zeus e nel Prometeo di Eschilo i suoi ministri”[30].

C’è un altro eroe della forma, molto più tardo, che però esprime e sintetizza splendidamente i principi teorici e la prospettiva di Diano: si tratta di Agilulfo, il protagonista del romanzo breve di Calvino Il cavaliere inesistente.

Agilulfo, è un cavaliere modello, ma inesistente che riesce ad essere presente in guerra contro gli infedeli, soltanto con la forza di volontà. Egli “abita” una candida armatura che lo distingue da tutti gli altri, quasi a voler rilevare la sua purezza e perfezione, sia nei movimenti sia nelle azioni. Calvino lo descrive così: “…un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto […] la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non una gola, ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco”[31].

Come dice lo stesso Calvino nell’introduzione alla raccolta I nostri antenati, in cui Il Cavaliere inesistente occupa il primo posto, seguito da Il visconte dimezzato e Il barone rampante, “Agilulfo prese i lineamenti psicologici d’un tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti della nostra società”. È il tipo della “inesistenza munita di volontà e coscienza”[32]. È il simbolo di una civiltà governata da regole formali, che cancella la persona in un labirinto burocratico kafkiano. Una civiltà soffocata da oscuri meccanismi di cui l’uomo non riesce a capire il significato, costretta a vivere dietro lo schermo di comportamenti prestabiliti e di norme applicate in modo meccanico.

Al suo sire, Carlomagno, che gli chiede come mai non alzi la celata e non mostri il suo viso risponde: “Perché io non esisto, sire”. E di fronte all’imbarazzo del re, che gli chiede come faccia, allora, a prestar servizio, spiega. “Con la forza della volontà e la fede nella nostra santa causa”[33].

Come si comporta questo personaggio inesistente all’interno del contesto in cui è inserito come tale? Come un tutto unico, una forma cristallina e indivisibile, appunto, che è impossibile scomporre in pezzi e smembrare: che non può assopirsi, perché se lo facesse anche per un solo istante si ritroverebbe smarrito, anzi non si ritroverebbe per nulla; che ha sempre bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, in quanto solo così può riuscire a mantenere una sicura coscienza di sé. Se infatti il mondo intorno sfuma nell’incerto, nell’ambiguo, nella mancanza di luce e di perfezione, anch’egli si sente affogare in questa morbida penombra, non riesce più a far affiorare dal vuoto un pensiero distinto, uno scatto di decisione, un puntiglio, si sente venir meno e sta male: Per questo, per non sprofondare nel nulla, egli è costretto ad applicarsi di continuo a occupazioni esatte, perché solo questo rituale gli consente di vincere il malessere, d’assorbire la scontentezza, l’inquietudine e il marasma, e di riprendere la lucidità e la compostezza abituali.

Se l’eroe dell’Iliade è un eroe della forma e però della forza, l’eroe dell’Odissea è un eroe dell’evento e, come tale, dell’intelligenza ”perché la forma è immedicabile, ma l’evento è tutto nella mediazione. Ed anche qui bisogna distinguere, perché, come la forza della forma è nel suo principio kratos e non bia, così questa intelligenza è mhtiV e non nooV, un’intelligenza che calcola, non contempla, e non è inattiva, ma fa: non ha altro fine che fare. È l’intelligenza che più tardi sarà detta sofia e fronhsiV, xunesiV e gnwmh, che Aristotele definirà, in opposizione all’intelletto e alla scienza, come facoltà del calcolo e del raziocinio, e chiamerà to logistikon, riprendendo, senza saperlo, nel nome l’idea a cui l’etimologia di metis rimanda, e che è quella di misurare. E come il raziocinio, quale comune principio dell’attività pratica e poietica, si specifica nella «prudenza» o fronhsiV e nell’«arte» o tecnh – che non è l’arte quale l’intendiamo noi, che dai Greci è detta «musica» e rientra nella forma, ma la tecnica, – e la prudenza, a sua volta, cade sotto il medesimo genere della hanourgia o furberia, altrettanto è della metis, ed Ulisse che ne è l’eroe, è insieme prudente, furbo, ed artefice. E innanzi tutto, quanto alla prudenza, egli è Dii mhtin atalantoV, «pari a Zeus nella metis», ma in più – quel che Zeus non è mai – è polumhtiV, «dalla metis molteplice», e, in quanto tale, per una parte è poikilomhthV, !d’una metis che muta sempre di colore», e, per l’altra, polumhcanoV, «ricco d’espedienti», e cioè di tecnh. Quando si presenta ad Alcinoo, la prima cosa ch’egli menziona, sono i suoi inganni: per uno dei suoi inganni, e non per la sua aretè è ptoliporqoV, «eversore di città». Quanto alle arti, non c’è arma o arnese ch’egli non maneggi, e sa fare di tutto, dalla zattera sulla quale parte dall’isola di Calipso, al letto in cui dorme”[34].

In Ulisse, l’eroe dell’apparire, dell’astuzia, dell’intelligenza, dei compromessi e delle finzioni, dei travestimenti e dello sfruttamento di ogni risorsa della tecnica, la prevalenza dell’evento rispetto alla forma fraziona l’esperienza, ne pone in rilievo la discontinuità, la riduce a una serie di frammenti tra loro disgiunti, a partire dai quali si innescano sequenze continue provvisorie e di breve durata, come ben chiarisce Diano: “Spazio e tempo, luce e ombra, nell’unità dialettica del continui; colore, l’illusoria visibilità del continuo, nell’atmosfera liquida e inquieta di cui si avvolge l’evento, e nella quale ogni apparizione è possibile, ogni miracolo è reale: metamorfosi e magia. E’ l’atmosfera in cui Ulisse si muove, l’atmosfera in cui vivono i mostri ch’egli combatte, le dee delle magiche seduzioni delle quali si difende, i Feaci traghettatori non sai se d’uomini o di anime, l’atmosfera che egli crea al suo arrivo nella sua isola e intorno alla sua casa profanata. E però assume tutte le forme, come il Proteo del suo mare, a cui è dischiuso il segreto di tutti gli eventi, e, come l’Atena che lo guida, è sempre travestito, e sopporta sotto le spoglie di un mendicante le risa e le percosse dei Proci”[35].

E’ proprio sfruttando abilmente questa atmosfera e ricorrendo a questo travestimento che Ulisse riesce a mettere in atto un processo di “interruzione della continuità fisica del suo io”, grazie al quale può presentarsi agli occhi dei Proci sotto una descrizione alternativa, quella di un inoffensivo mendicante, che alterando le proprietà fondamentali in cui consiste la sua identità agli occhi del suo prossimo ed esibendone altre, apparentemente del tutto differenti, disattiva il sistema di attese che verrebbero associate alla sua identificazione.  Così i Proci, che di fronte ad Ulisse avrebbero assunto un ben diverso atteggiamento, quanto meno più guardingo e prudente, vengono sorpresi e “spiazzati” da una mossa che trasgredisce le loro previsioni e il loro sistema di credenze e attese circa le modalità dell’eventuale ritorno del padrone di casa.

Questa strategia, ovviamente, risulta efficace se si basa su una corretta  attribuzione agli avversari delle reazioni di fronte sia alla reale identità dell’agente (Ulisse), sia alla descrizione alternativa sotto la quale egli sceglie di porsi (mendicante), dal momento che il suo “meccanismo” consiste proprio nello scarto tra le due serie di comportamenti e nel vantaggio che viene tratto dalla situazione di disorientamento che esso crea. Solo se tale scarto è dell’ampiezza e della profondità prevista l’inganno riesce, come è in effetti riuscito nel caso specifico. E si parla, appunto, di inganno riuscito, come in questa circostanza, quando le credenze e le aspettative indotte e fissate negli interlocutori attraverso il presentarsi sotto la descrizione alternativa prescelta sono significativamente diverse da quelle che si riscontrerebbero in caso di  riconoscimento della continuità fisica dell’io.

Se dunque nella forma l’essere e l’esser visto coincidono, ed essa è tutta alla superficie, su un unico piano, la frontalità e la «veduta unica» della plastica arcaica e classica, per cui Achille lo si vede sempre di fronte, «quadrato», come le statue del Canone di Policleto, Ulisse, proprio perché è sempre altro da quel che appare, lo si vede sempre “di sbieco, poluplopoV, «tutto scorci e spire», come il polipo della brocchetta minoica di Gurnià e della similitudine di Teognide: poluplopoVpolutropoV, mobile e presente per tutti i trecentossesantagradi del cerchio, nelle quattro dimensioni che riappariranno con Lisippo nell’età ellenistica, quando la forma cederà all’evento, e lo spazio, di nuovo fatto esterno, si fonderà ancora col tempo, e venerà d’ombre la luce”[36].

  1. Il rito come forma eventica

 Nei Quaderni preparatori per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte si trova un’interessante riflessione sul mito e sul suo rapporto, rispettivamente, con l’evento e il rito:

“Il mito è la visualizzazione dell’evento. Ogni evento è έργον di un θεός (θεων) ed è δραμα – dando figura ai singoli momenti si ha il μύθος-

            Per il suo valore originario di δραμα, ogni μύθος ha la sua vera vita nei δρώμηνα, nella ripetizione rituale-

Δρώμηνα che non sono separabili dalla figura – così come la figura non è separabile dal δρώμενον-

            Conoscere un mito significa partecipare a un rito

            e la partecipazione è esistenziale

            eventica-

Quando il mito si separa dal rito – la figura dell’agire – e si pone a sé, diventa ο μυθολόγημα (μύθος + λόγος)  interpretabile dal λόγος

o puro simbolo teologico

o favola poetica

che non significa più altro che se stessa-

La favola è più vicina all’esistenzialità che non il μυθολόγημα –

            La poesia è insieme mito e rito, ma è un rito che si compie nella pura sfera del possibile

            una ripetizione interiore -“.

Il mito è la più complessa delle forme date all’evento. Come nel caso del nome anche qui sono fondamentali due aspetti: la ripetizione e il rapporto tra visibile e l’invisibile al quale esso si riferisce e che richiama. Proprio per questi tratti distintivi il mito è la figura dell’evento che fa da archetipo al rito, nel quale si rinnova e si ripropone di continuo un evento prototipo, collocato alle «origini», in un tempo che è fuori del tempo e lo abbraccia intero. Questa ripetizione secondo un ordine sequenziale preciso e immodificabile di quanto sarebbe accaduto in illo tempore lo rende visibile, riunendo così il «rappresentato» e il «vissuto», come accade nel nome. Proprio perché anch’esso è una forma di chiusura che mantiene però la polarità costitutiva dell’evento e all’interno di esso si esperisce l’unità nella polarità il rito è, al pari del nome, «forma eventica».

Per approfondire il senso della relazione tra visibile invisibile che si registra nel rito è interessante e istruttivo riferirsi al modo in cui quest’ultima problematica è trattata nel pensiero che l’ha posta al centro della propria riflessione, quello dell’epoca vedica. Trattando del significato e  della funzione del sacrificio all’interno di questa tradizione culturale, fiorita più di tremila anni or sono (con notevoli oscillazioni nelle date fra uno studioso e l’altro) nel nord del subcontinente indiano, Roberto Calasso, che ne ha fatto oggetto di uno studio profondo e accurato, sottolinea che esso  era “un rito in cui si praticava la distruzione di qualcosa in rapporto con una controparte invisibile. Se manca uno di questi tre elementi non si dà sacrificio. E, se tutti e tre sono presenti, i significati della cerimonia possono essere fra i più vari – e anche contrastanti. Ma tutti avranno in comune almeno un carattere: il distacco, la cessione, l’abbandono di qualcosa a una controparte invisibile”[37].

Questo atto viene compiuto in un luogo “alto, piano, compatto. […] Come se si volesse definire una superficie neutra, una tela di fondo su cui disegnare i gesti con perfetta nettezza. È l’origine della scena come luogo predisposto ad accogliere tutti i possibili significati”[38]. A confermare e ribadire questo riferimento alla totalità come presupposto e condizione sine qua non per compiere questo atto vi è l’esplicita affermazione che «soltanto quando si prova gioia si sacrifica. Ma bisogna conoscere la gioia» che è «pienezza. Non vi è gioia in ciò che è limitato».

Dunque, riepilogando:

  1. il sacrificio presuppone una condizione di pienezza;
  2. il sacrificio comporta sempre distruzione, cessione e distacco. Esso “è in primo luogo una cesura, nel senso originario della parola, che deriva da «caedo», verbo tecnico per l’uccisione sacrificale”[39];
  3. alla base del sacrificio e del significato che gli viene attribuito vi è “la convinzione, non dimostrabile ma sottintesa in ogni atto, che il visibile agisca sull’invisibile e, soprattutto, che l’invisibile agisca sul visibile. Che il regno della mente e il regno di ciò che è palpabile comunichino continuamente”;[40]
  4. il sacrificio è dunque “un viaggio – collegato a una distruzione. Viaggio da un luogo visibile a un luogo invisibile, con ritorno. Il punto di partenza può essere ovunque. Anche il punto di arrivo, purché abitato dal divino. Ciò che viene distrutto è l’energia che muove il viaggio: un essere animato o inanimato. Ma sempre considerato un essere vivente – animale o pianta o anche un liquido che viene versato o una sostanza commestibile o un oggetto (un anello o una pietra preziosa o magari qualcosa di non prezioso, se non per il sacrificante)”[41];
  5. il mondo “si fonda sul sacrificio, che si compie quando il sovrappiù di energie disponibili viene bruciato”[42];
  6. lo spazio rituale “va precisamente delimitato, perché i suoi confini sono quelli di un mondo intermedio, che si può definire come il mondo dell’azione efficace. Dove si scontrano una pretesa di dominio e di controllo su tutto, da una parte; e dall’altra un angoscioso, acutissimo senso di precarietà”[43].

 Una volta precisati in questi termini lo sfondo e i contorni concettuali di ciò che chiamiamo «sacrificio» resta da capire che cosa siano la «pienezza» originaria che esso presuppone e la parte eccedente che viene ceduta all’invisibile.

Una chiave interpretativa suggestiva è il modo in cui vengono impostati, all’interno del pensiero vedico, i tortuosi, delicati, ambigui rapporti tra ātman, il Sé, e ahman, l’Io. “Dal Rgveda alla Bhagavad Gitā si elabora un pensiero che non riconosce mai un soggetto singolo, ma presuppone al contrario un soggetto duale. Così è perché duale è la costituzione della mente: fatta di uno sguardo che percepisce (mangia) il mondo e di uno sguardo che contempla lo sguardo rivolto al mondo. La prima enunciazione di questo pensiero si ha con i due uccelli dell’inno 1, 164 del Rgveda: «Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l’altro, senza mangiare, guarda». Non c’è rivelazione che vada oltre questa, nella sua elementarità. E il Rgveda la presenta con limpidezza nel suo linguaggio enigmatico. La costituzione duale della mente implica che in ciascuno di noi abitino e vivano perennemente i due uccelli: il Sé, ātman, e l’Io, ahman. Amici, simili, disposti sull’albero alla stessa altezza, potrebbero sembrare l’uno la replica dell’altro”[44].

In realtà però le cose stanno molto diversamente e la loro relazione è ben più complessa: “Tutto risale all’inizio, quando c’era soltanto il Sé, sotto forma di «persona», puruṣa: «Guardandosi intorno, non vide altro che Sé: e come prima cosa disse: “Io sono”. Così nacque il nome “Io”. È la scena primitiva della coscienza. Che rivela innanzitutto la priorità di un pronome riflessivo – ātman, Sé. Pensarsi precede il pensare. E quel pensarsi ha forma di persona, puruṣa: possiede una fisionomia, un profilo. Che si designa subito con un altro pronome: Io, ahman. In quel momento appare una nuova entità, che ha nome Io e si sovrappone punto per punto al Sé da cui è nata. Da allora – e fino a quando scintillerà la conoscenza, il sapere, veda – l’io sarà indistinguibile dal Sé. Sembrano gemelli identici. Hanno lo stesso profilo, lo stesso senso di onnipotenza e di centralità. Dopo tutto, nel momento in cui l’Io apparve, non c’era ancora altro al mondo. Così il primo a cadere nell’inganno dell’Io fu il Sé. Dopo che le creature furono create, in conseguenza delle sue molteplici metamorfosi erotiche, il Sé guardò il mondo e si rese conto di averlo creato. E disse: «Veramente Io (aham) sono la creazione», già dimenticando che quell’Io era solo la prima delle sue creature”[45].

In questo racconto c’è un’infinita saggezza, che rintraccia ed esplicita nel modo più semplice ed efficace i germi di un conflitto senza tempo: perché se è vero che il Sé, ātman, è pienezza e illimitatezza, è anche vero che “tutti gli attributi di espansione illimitata che appartengono alla «pienezza» appartengono anche all’Io. Che è centro di ogni mondo, sovrano autoeletto, territorio illimitabile. E, soprattutto, è la più insidiosa limitazione del Sé. L’Io si sovrappone al Sé così perfettamente che può nasconderlo. Da fatto, è ciò che avvenne durante il corso della filosofia occidentale. Che non si preoccupò mai di dare un nome al Sé, ma scelse sempre come osservatorio l’Io, anche se così lo chiamò solo in epoca tarda, con Kant. Prima, era l’indubitabile soggetto, la prima persona del Cogito di Descartes. Per Sanatkumāra, invece, l’Io è l’ostacolo più temibile, quello che può precludere per sempre l’accesso al Sé. Se l’indagine non proseguisse, infatti, potrebbe supporre di essere giunta al suo compimento con l’Io. Ma come fare il passo ultimo? Qui, ancora una volta, si mostra la sottigliezza del Sanatkumāra. Non si tratta di respingere, rifiutare l’Io. Sarebbe vano – e contrario a ogni costituzione psichica. Si tratta di seguirne le movenze e poi di aggiungerne alcune, che l’Io non potrebbe attribuirsi. Soltanto se appare una nuova entità, che è il Sé, ātman, si potrà parlare di «Colui che ama il Sé», «che ha la sua felicità nel Sé». Questo nuovo essere non sarà più l’Io, nella sua illusoria sovranità, perché la sovranità è stata trasferita al Sé, con il quale il singolo gioca e copula. Il punto d’arrivo è un soggetto duale, irriducibile, squilibrato (il Sé è infinito, il singolo è un qualsiasi essere di questo mondo), intermittente (la percezione del soggetto duale non è un dato da cui partire, ma una conquista, la più dura e la più efficace conquista). Per questo si cerca l’insegnamento del maestro, per questo Sanatkumāra offrì a Nārada di dirgli «ciò che va oltre questo»”[46].

Inserito in questo sfondo, così ricco e articolato, si capisce perché e in che senso si parli del Sé come unio oppositorum, che dà luogo alla più diretta esperienza del divino psicologicamente concepibile. La fittizia sovranità dell’egoità [ahamkāra, Il termine con cui d’ora in poi sarà chiamato ciò che la psicologia occidentale «Io»] “è l’ostacolo più forte per la percezione, semplicemente perché è ciò che più somiglia al vero termine ultimo, l’ātman, il Sé, di cui altri maestri avevano accennato a Nārada, come se fosse la via d’uscita dal dolore. E infatti il maestro descrive l’ātman, inizialmente, negli stessi termini usati per l’Io, situandolo in tutte le direzioni dello spazio. Ma, come già una volta era successo con vāc, «parola», rispetto ai nomi, anche per l’ātman si può dire qualcosa di più. E sarà la frase risolutiva: «Colui che vede così, che pensa così, che sa così, che ama l’ātman, che gioca con l’ātman, che copula con l’ātman, che ha la sua felicità nell’ātman, quegli è sovrano, quegli può tutto ciò che desidera in tutti i mondi». Ora è venuto il momento in cui la catena si può ripercorrere all’indietro. Dalla vita, potenza per potenza, fino ai nomi, perché «dall’ātman discende tutto questo»”[47].

Questa pregnante riferimento all’unio oppositorum è di estremo interesse anche per la problematica sviluppata da Diano, riguardante la relazione tra forma ed evento. Anche in questo caso, infatti, si ha una situazione analoga. Per un verso, infatti, “eventicità, e forma, non si lasciano conciliare. Perché la forma non degradi a simbolo, è necessario che il centro resista e la vibrazione si fermi al limite”[48]. E questa antinomia, continua Diano, “è invincibile, perché è l’antinomia della forma e dell’evento, e, come non se n’esce con la dialettica, non se n’esce neanche contaminando l’una con l’altro. Per uscirne bisogna separare le due sfere, e lasciando la causalità storica all’evento e a quanto ne partecipa, non chiedere alla scienza altra causalità che non sia logica, eliminando l’ambigua e fallace sfera della doxa e con essa la problematica che ne deriva”[49]. “L’urto tra forma ed evento”, insiste Diano nei Quaderni preparatori, “è tragico perché sono due potenze di pari grandezza; l’uno non può eliminare l’altro”. Questa irriducibile tensione antinomica si manifesta anche nelle espressioni teoriche alle quali queste due categorie hanno dato luogo: “da un lato il sillogismo categorico della forma che ignora gli eventi, dall’altro il sillogismo ipotetico dell’evento che ignora le forme”[50]. Per l’altro verso, però, le forme “non possono essere separate dagli eventi, perché il rapporto che è tra esse e gli eventi non è di un post rispetto a un prius: v’è la stessa dinamicità e reciprocità di quello che è tra l’hic et nunc e l’infinità del periechon, e che esso riflette”[51]. E nei Quaderni si sottolinea che la vita sussiste “nella tensione fra forma ed evento. La forma senza evento è forma vuota. Dall’altra parte l’evento senza forma è il caso”.

Questa duplice evidenza di una inconciliabilità e di una mutua esclusione di opposti che, pur tuttavia, non possono essere separati e devono essere mantenuti compresenti, pur in questa irriducibile tensione dialettica, chiama in causa il symbàllesthai, al quale Diano si riferisce esplicitamente a proposito della relazione altrettanto antinomica, e altrettanto inscindibile, tra la figura e l’èvenit, nella quale “sta tutto il valore del simbolo”[52].

Come sottolinea Trevi il simbolo ha proprio come suo tratto distintivo peculiare “il carattere della sinteticità o, per meglio dire, della ‘composizione’, ove a questo termine si dia il significato di ‘porre insieme’, ‘mantenere uniti’ (componere). Ciò che, nel simbolo, viene tenuto assieme sono gli opposti che il pensiero razionale e dirimente mantiene legittimamente separati e, nella mutua esclusione, disgiunge e distanzia. Questo carattere di tale tipo di simbolo, messo particolarmente in luce dai romantici, rende il simbolo stesso inaccessibile al raziocinio e lo configura come il prodotto di un’intuizione che attraversa e lacera il tessuto logico dell’ordine normale e razionale del pensiero. In questo senso il simbolo esprime tensione e antinomicità creatrice, ma anche unione e collegamento”[53]

Questo tratto distintivo del simbolo è esprimibile come la scomponibilità dell’intero e la componibilità degli elementi polari in un’unità non sintetica. In questo senso è vivo il simbolo che ha la capacità di “comporre” e mettere insieme, o di mantenere in tensione creativa, quegli “opposti” che la coscienza, nel suo stesso fare differenziante, continuamente produce. Questo mettere assieme due opposti polari non produce mai un terzo elemento che ne rappresenta la sintesi, poiché in questa particolare composizione simbolica le due metà vengono a contatto sul loro confine, e quindi rimangono distinte”. Qui la linea di confine non è pertanto qualcosa di assolutamente invalicabile, ma una somma di filtri attraverso i quali bisogna passare per penetrare all’interno di essa, e che provvedono all’adattamento al sistema che viene così circoscritto e delimitato di tutto ciò che proviene dal di fuori. Il confine è pertanto il luogo del contatto specifico fra interno ed esterno, un meccanismo cuscinetto a due facce, una rivolta verso l’organizzazione intrinseca del sistema, l’altra verso l’ambiente, che proprio perché si presenta così può mettere in comunicazione reciproca ambiti che tuttavia restano separati nella loro specifica determinazione. Esso è quindi sia elemento di separazione (linea di demarcazione), sia tratto d’unione di sfere diverse[54].

Proprio in questa peculiarità sta il carattere trascendente del simbolo, che fa riferimento al significato latino di oltrepassamento, superamento e varco, e sta pertanto a indicare il fatto che il simbolo vivo verrebbe a esercitarsi non oltre i segni, ma proprio dentro e attraverso essi. Per essere ‘vivo’, il simbolo necessita – fortemente e pregnantemente — di un contesto di tipo antinomico, ossia di un contesto in cui due segni, malgrado siano diametralmente opposti, continuino ineludibilmente a sussistere”. Ed è proprio questo che accade nella relazione tra forma ed evento così come Diano la istituisce.

  1. Il tema del sacrificio in Diano

 Se ci siamo riferiti al tema del rito e alla questione del rapporto tra rito e sacrificio è anche per un altro motivo, oltre a quelli già evidenziati. Come scrive Francesca Diano presentando una poesia, dedicata a Giulietta, che il padre Carlo aveva pubblicato nel 1933 in una raccolta intitolata L’acqua del tempo (Società Anonima Editrice Dante Alighieri): “La versione che Carlo Diano dà della favola di Romeo e Giulietta è, da tutti questi punti di vista, molto nuova.
Ciò che gli interessa è l’amore che li lega dopo la morte. Quello che accade tra i due amanti in un mondo dei morti che è però l’Ade e non l’aldilà cristiano.
Non c’è nulla del mondo cristiano in questo luogo dove le anime vagano, in attesa di varcare il Lete,  già quasi dimentiche della vita appena abbandonata, sospese tra un mondo e un altro.
Giulietta cerca Romeo che, lontano e come immerso in uno stupore trasognato, pare non ricordare. A differenza di Giulietta. L’immobilità di Romeo, già preda di quella dimenticanza che gli Orfici vincevano, secondo le istruzioni date al defunto, non bevendo ‘alla fonte presso i cipressi’, ma a quella di Mnemosine, è la condizione che i defunti vivono nell’Ade. E quale potenza vince la morte? L’amore. È l’amore di Giulietta che lo riscuote, che lo riporta alla vita.
Che gli si abbatte addosso come un’onda. Come una scossa che inneschi nuovamente le funzioni vitali.  E non come frutto dell’istante. Ma per sempre”[55].

Il tema dell’amore come dono e sacrificio di sé è al centro del Senso dell’Alcesti, prefazione all’edizione della tragedia di Euripide, pubblicata da Neri Pozza nel gennaio del 1968. Qui Diano riprende il tema del rapporto tra forma ed evento e lo collega al problema della morte, sottolineando le due soluzioni estreme e opposte che l’uomo ha dato a esso: quella greca e quella buddista. “Secondo la soluzione greca, l’uomo vince la morte nell’attimo in cui s’identifica con l’essere estraspaziale ed extratemporale delle «forme», il che vale tanto per Achille e Socrate, quanto per Aristotele ed Epicuro, che vedono in questa identificazione, raggiunta attraverso la pura attività teoretica, l’unico modo dato all’uomo «mortale» di «rendersi simile agli dei immortali». Per il buddismo, l’identificazione è col Nulla, l’anatman, o «non-io» del nirvana. Qualche cosa di simile è stato ai nostri giorni proposto all’uomo dall’esistenzialismo di Heidegger”[56]. Questo dualismo di soluzioni contrapposte è superato dal Cristianesimo: “È Cristo la soluzione che sola toglie il dualismo dell’Alètheia e della Doxa, e, vincendo il nulla della morte, rende possibile l’amore, e con l’amore la società umana, e il sacrificio e il bene”[57].

L’originalità e la grandezza dell’Alcesti sta nella prefigurazione e anticipazione, all’interno della cultura greca, di questa soluzione: “Alcesti ha temuto di vivere, e Admeto non può sopravvivere. Allora non c’è che una soluzione, ed è che Alcesti risorga, e cioè che la morte non sia l’ultima linea delle cose, ma che nell’aldilà le anime si possano ritrovare e ricompongano il nodo che le ha strette nella vita. L’amore vuole la risurrezione”[58].

Quando Carlo Diano scrisse i versi dedicati a Giulietta, osserva Francesca Diano, “quel saggio sul significato dell’Alcesti, che avrebbe rivoluzionato il senso della favola narrata da Euripide, era ancora lontano. Eppure non posso non vedere già qui tutto quello che nell’Alcesti si sarebbe ai suoi occhi rivelato. Occhi di iniziato.
L’amore oltre la morte, l’amore come salvezza. L’amore come dono di vita e sacrificio di sé. Ma, come Diano spiega, il sacrificio di Alcesti che le assicura l’appellativo generalmente destinato agli eroi morti in battaglia, di àriste, rientra nelle regole di una società cavalleresca e aristocratica, quale descritta da Euripide, per quanto inusitato sia il conferirlo a una donna. La morte gloriosa ed eroica garantisce in questo modo l’onore della memoria.
Ma nell’Alcesti Diano vede ben altro. Vede un annuncio dell’amore del Cristo. Che dà la propria vita non solo per tutta l’umanità, ma per ciascun individuo, perché la salvezza è sempre e solo individuale. È la storia di un’anima.
Alcesti non si sacrifica per Admeto, ma dà la sua vita in cambio di quella di Admeto. Per un gesto d’amore che non obbedisce a nessuna regola sociale o cavalleresca. Ma per puro e semplice amore. L’Alcesti di Euripide si conclude in apparenza in modo simile a quello della fiaba di Orfeo ed Euridice. Eracle, per ricompensare Admeto, che lo ha accolto come ospite nella sua casa e per delicatezza e rispetto gli ha tenuto celato il lutto, scende nell’Ade  e gli riporta Alcesti. O meglio, una donna velata, come velata era Euridice.
È Alcesti? Questo suggerirebbe il testo euripideo. Il corpo tornato in vita di Alcesti, come quello di Euridice, non ha ancora compiuto il passaggio tra il mondo dei morti e quello dei vivi, finché la convinzione che sia così non è totale. Orfeo non la possiede e perde Euridice, Admeto esita, poi cede alla speranza. Dunque, serve un ulteriore atto d’amore: il credere fermamente che l’amore compia il miracolo di riportare in vita l’amata.
La particolarissima e rivoluzionaria lettura che Diano dà dell’Alcesti, è già presente in Giulietta. È Giulietta che, incapace di vivere senza Romeo, lo cerca nell’Ade e lo riporta alla vita. Lo travolge con l’onda di un amore immortale. Molti anni prima che venisse scritto Il senso dell’Alcesti[59].

Questo tema è di un’importanza cruciale nella prospettiva di Carlo Diano. Lo scrive esplicitamente egli stesso nei Quaderni preparatori: “La religione greca oscilla tra questi due estremi, e solo il cristianesimo trova la soluzione: Dio Padre, forma, Cristo evento, uniti insieme dall’amore: lo Spirito”. Per comprendere questa affermazione occorre riferirsi alla questione del sacrificio come kenosis. Kenosi – in greco kenosis, svuotamento – è termine teologico che indica la privazione della propria divinità che Cristo compie incarnandosi. Il concetto è stato proposto nella Lettera ai Filippesi, là dove Paolo dice di Gesù Cristo che “possedendo la natura divina, non pensò di valersi della sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini” (PAOLO, Lettera ai Filippesi, 2, 7.)

Questa autoalienazione non si esaurisce però nel vuoto, nel nulla, ma è la via verso l’innalzamento e il potenziamento tramite cui Gesù diventa Kyrios, ovvero Signore del mondo. Il sacrificio di Gesù è la morte della morte e la liberazione a una nuova vita. In ciò sta il senso della superiorità della religione e del sacrificio cristiani, di cui parla Diano.

Il sacrificio di Gesù e la sua sofferenza rivelano come, nella religione cristiana, il tema dell’onnipotenza di Dio sia strettamente e inscindibilmente congiunto con l’idea di Dio in quanto amore. Gesù, il Dio che si è fatto uomo, non subisce passivamente la sofferenza, ma si lascia coinvolgere intenzionalmente in essa, la sceglie come espressione della sua libera volontà, perché solo soffrendo e morendo Dio, come amore, si fa vicino a coloro che sono oppressi, torturati, martirizzati. Dio è al loro fianco e soffre con loro. Questo non significa però che dobbiamo glorificare o divinizzare la sofferenza. Dio non divinizza la sofferenza, ma la redime, mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la trasforma in speranza. La croce è infatti la via verso la risurrezione e la trasfigurazione. Il dolore e la morte non hanno l’ultima parola. Attraverso la cristologia pasquale dell’innalzamento e della trasfigurazione la religione cristiana ci consegna il messaggio così ben espresso nella Scrittura, “nella speranza noi siamo stati salvati” (Rom 8, 20.24; 1 Pt 1,3).

Cristo è, contemporaneamente evento e forma, evento-originario ed evento-mediazione. La forma (Gestalt) che caratterizza la sua esistenza ha il suo centro nel mistero pasquale, mistero di morte e di risurrezione. Essa trapassa, per così dire, nella forma eucaristica del pane spezzato e del sangue versato. In essa Gesù dà realmente il suo corpo e il suo sangue per noi. In tal modo l’evento originario della verità-dono di Cristo accade per noi nella forma dell’evento-mediazione costituito dal sacramento. È questa la soluzione che la religione cristiana dà all’antitesi tra forma ed evento. Ed è una soluzione basata sul sacrificio di Gesù, cioè su un rito che, come suggerisce anche la filologia (ad esempio in latino il verbo mactare significa anche “arricchire, amplificare”, stabilisce nuovi legami, rompendo i confini e i limiti di strutture e forme che sembrano conchiuse, cioè avvia un processo rigenerativo. La vittima o l’oblazione cessa di esistere, viene distrutta o consumata perché appartiene a una “forma anteriore”, che deve essere sacrificata e morire per dare spazio a una nuova e più vasta forma di coscienza. In un’opera di grande importanza per l’approfondimento del tema del sacrificio e la comprensione del suo significato psicologico, Il simbolo della trasformazione della messa, Jung sottolinea che il sacrificio non è una vera perdita, bensì un guadagno, poiché il poter sacrificare se stesso dimostra il possesso di sé, dimostra che possiamo decidere e disporre di noi e individua la superiorità del sacrificio cristiano rispetto a tutte le concezioni alternative nel fatto di avere per la prima volta riconosciuto che bisogna sacrificare non solo i desideri inferiori, ma l’intera personalità. Ed è interessante rilevare che a conclusione di questa sua analisi anch’egli indica come cruciale e ineludibile il tema della unio oppositorum, la cui importanza, come si è visto, è al centro della riflessione di Diano:

“A qualunque dono è più o meno congiunta una rivendicazione personale. Lo si voglia o no, si tratta sempre di un do ut des; il dono comporta un’intenzione personale, dato che il solo dare non è affatto, in sé, un sacrificio. Tale diventa soltanto quando sacrifichiamo l’intenzione del do ut des collegata al dono, cioè quando vi rinunciamo. […]  Dal fatto naturale di identificarmi con ciò che è «mio» risulta il dovere etico di sacrificare me o quella parte di me che è identica al dono. […] Perciò ogni donazione a fondo perduto è, sotto tutti gli aspetti, un «sacrificio di sé». […] Ma questa perdita intenzionale, considerata da un altro lato, non è una vera perdita, bensì un guadagno, poiché il poter sacrificare sé stesso dimostra il possesso di sé. Ciò presuppone un atto di conoscenza di sé. […] Con il sacrificio dimostriamo di  […] disporre di noi stessi, cioè del nostro Io. In questo modo, l’Io diventa oggetto dell’azione morale perché allora io decido, per così dire, contro il mio «Io» e annullo la mia rivendicazione. […] Dal punto di vista psicologico esso vuole significare che l’Io è una grandezza relativa che può sempre essere sottoposta a qualsiasi istanza sopraordinata. […] Queste istanze non sono eo ipso da equiparare a una coscienza morale collettiva come Freud voleva che fosse il suo Super-io, bensì piuttosto a condizioni psichiche a priori nell’uomo e non empiricamente acquisite. Alle spalle dell’uomo non sta né l’opinione pubblica né il codice morale comune, ma l’individualità di cui è ancora inconscio. […] Esiste perciò la possibilità di rendere l’«io» oggetto, è cioè possibile che nel corso dello sviluppo compaia gradatamente una personalità più ampia che prende l’Io alle sue dipendenze. […] Essa, in pieno contrasto con il Super-io freudiano, è individuale; è anzi l’individualità in senso più alto. […] Il termine «Sé» mi è sembrato un termine adatto per questo sostrato inconscio, di cui l’Io è l’effettuale esponente nella coscienza. […] Non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso. […] Finché rimane inconscio, il Sé corrisponde al Super-io freudiano ed è fonte di costanti conflitti morali. Ma se è ritirato dalle proiezioni, cioè non coincide più con le opinioni altrui, allora sappiamo di essere noi a dire di sì o di no. Allora il Sé opera come unio oppositorum, dando luogo alla più diretta esperienza del divino psicologicamente concepibile”[60].

Il sacrificio assume così la funzione di cardine del progetto psichico che presiede alla trasformazione dell’individuo, di stimolo e impulso  all’ampliamento del campo della coscienza in direzione dell’altrove, del pensare e percepire altrimenti, che a sua volta presuppone la distruzione dell’equilibrio precedente, la rinuncia, parziale o totale, a una parte di sé o a tutto se stesso, che è la conditio sine qua non del processo rigenerativo. In relazione a questo specifico aspetto acquista importanza determinante un concetto introdotto da Pavel Florenskij. Si tratta  dell’idea dell’uomo nuovo, colui nelle cui vene circola lo stesso “sangue” dell’amore divino,  caratterizzato da uno stato che Florenskij indica con la parola russa celomudrie, il cui significato usuale è quello di “purezza-castità” ma che, alla luce della sua composizione etimologica (celo-mudrie) richiama il concetto di interezza, totalità (cel’nost’, celostnost’) e saggezza (mudrost’). Esso, dunque, “si richiama alla integrità, alla salute, all’incolumità, all’unità, e in genere allo stato normale della vita interiore, all’indivisione e alla forza della persona, alla freschezza delle energie spirituali, all’armonia spirituale dell’uomo interiore. La celo-mudrie è quasi la stessa cosa dell’integrità del pensiero, l’integrità della ragione, l’integrità dell’intelletto, la salute della ragione e dell’intelletto. Proprio questo è il significato del termine presso i santi Padri e gli antichi filosofi. La celo-mudrie è semplicità, cioè unità organica e, se si vuole, integrità della persona”[61]. Trovarsi in questo stato significa pertanto riuscire a percepire l’integrità e l’armonia del proprio esistere. Il suo “moto vitale” – il suo volere e pensare, la fantasia e le idee, il suo decidere e agire – nasce dal “centro di raccolta di tutto il suo essere”. Lo stato della celomudrie, dunque, è caratterizzato dal dono della ‘nuova visione’, che è espressione di una trasfigurazione sostanziale dell’uomo cui è stato concesso di partecipare, per quanto possibile a una creatura, alla ‘vita eterna’.

La risposta alla domanda chiave, attorno alla quale, secondo la testimonianza dello stesso Florenskij, ruota l’intero impianto della sua filosofia e teologia, e cioè “Come è possibile la ragione”, suona, a questo punto, così: “La ragione non è possibile in se stessa, ma attraverso l’oggetto del suo pensare e solo quando abbia per oggetto di pensiero un oggetto nel quale combacino le due leggi reciprocamente contraddittorie della sua attività, e cioè le leggi dell’identità e della ragion sufficiente. In altre parole, è possibile soltanto in un pensiero nel quale ambedue i fondamenti del raziocinio, cioè i principi della finitezza e dell’infinitezza, diventino in effetti uno solo”[62].

Ancora una volta, quindi, il tema della compresenza degli opposti e dell’esigenza di mantenerli in uno stato di tensione che non ne cancelli l’alterità radicale e la contrapposizione ma consenta, tuttavia, di trovare un equilibrio dinamico che consenta loro di coesistere, sprigionando una forza propulsiva attivata proprio dall’attrito tra di essi. Ed è questo, appunto, il segreto della straordinaria efficacia del simbolo.

  1. L’arte come mondo intermedio fra la forma e l’evento

 Il tema del sacrificio e del simbolo come compresenza e tensione di opposti convergono e interagiscono nella sfera dell’arte, regno e dominio di quella che Diano chiama la «terza verità»[63]. Questa denominazione è dovuta proprio a quel suo specifico tratto distintivo che fa in modo che in essa “l’alètheia e l’epiphàneia ci siano, e siano quel che sono, ma non lo siano per intero, e insieme compongano la verità dell’arte”. Per giungere a questo risultato “è necessario che la prima penetri anche nella sfera dell’esistenza, e precisamente di quella che l’essenza ha dall’evento, e l’esistenza essendo polare, questa accolga la specularità di quella e quella la polarità di questa. Ed è quel che avviene. Perché, se la forma nella sua specularità è statica, l’evento per la sua polarità è dinamico, e, statico e dinamico dando dinamico, la forma non può mantenersi in rapporto con l’evento se non facendosi essa stessa dinamica e comunicando a esso una parte della sua staticità. […] L’esserci, di contro, nel momento istesso in cui l’ha tolta all’essere «per sé» e l’ha fatta «sua», e da «cosa» l’ha trasformata in «immagine», un’«immagine» che, per codesto esser «sua», perde anche quel tanto d’obbiettività che è propria di un’immagine, e si fa simile a «sogno», quel sogno appunto a cui, ancora a partire da Platone (Soph., 266 c), questa immagine è stata tante volte paragonata, in quel momento istesso, dunque, l’esserci, obbedendo alla polarità della sua natura, tende ad annullarla anche come immagine e come sogno, per trascenderla nel «simbolo» e, «aprendola», aver libera la via, esso che è hic et nunc ed è l’esserci del cuique, all’ubique et semper del periechon e all’estità dell’Uno, dai quali non può venir mai interamente separato”[64].

Dunque per poter convergere e interagire in quel «mondo intermedio»  che è l’arte, terreno di pertinenza della «terza verità», forma ed evento, alètheia ed epiphàneia devono sacrificare, ciascuno, una parte di sé, non entrare per intero in questa terra di mezzo ed affidarsi alla capacità «combinatoria» del simbolo, “L’arte dunque non è forma, ma forma ed evento in uno, e l’una essendo contemplabile e l’altro potendo essere solo vissuto, è insieme contemplata e vissuta. […] L’opera d’arte è insieme nel tempo e non è nel tempo, è nello spazio e non è nello spazio, e, in quanto è nel tempo e nello spazio, è insieme nell’hic et nunc e nell’ubique et semper[65].

È interessante a questo proposito rammentare che accanto alla tradizionale concezione lineare della storia, incardinata sull’idea di tempo come XrόnoV, nome del dio simbolo della misurazione meccanica del tempo, che  induce a percepire lo scorrere del tempo in una sola direzione, dal passato al futuro, per cui i ritmi della vita e dell’esperienza tendono a essere scanditi secondo il principio dell’alternanza tra un «prima» e un «poi», la cultura classica ci ha lasciato altre «forme del tempo». C’è, innanzi tutto, l’idea di tempo come KairόV, come esigenza e capacità di cogliere al volo le opportunità che si presentano sulla scena e che sfumano rapidamente, se non le si sa afferrare. Si tratta dunque di un concetto di tempo che presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si possano verificare l’innovazione e la trasformazione. I termini implicati nella relazione devono a tal scopo risultare non troppo vicini, affinché il pensiero e l’azione non siano travolti dal corso degli eventi, dall’effettualità che giunge a maturazione e si compie, ma neppure troppo lontani, per evitare che essi finiscano col perdere il contatto con il «potenziale della situazione», per non uscire dal campo delle possibilità che si offrono e rischiare così di non essere pronti ad afferrarle al volo. Posidippo definisce KairόV «pandamator», ossia colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca. Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua di Lisippo, che traduceva in termini iconografici efficaci l’idea del momento debito che deve essere colto non appena ci si presenti di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nell’iconografia lisippea, si traduce nel KairόV privo dell’appiglio della chioma. Nell’Etica Nicomachea (1096a 27) KairόV è la declinazione del bene del tempo proprio perché «l’agire deve allora riferirsi al KairόV, al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione» (p. 88).

Parlare di «tempo opportuno e debito» significa, riferirsi allo sforzo e all’obiettivo di trarre vantaggio dalle circostanze, dalle occasioni: questa espressione sta cioè a indicare la pazienza di aspettare che la situazione evolva per cogliere al volo gli sviluppi favorevoli, la capacità di trovare tutte le opportunità che possono presentarsi nelle circostanze così come si sviluppano allo scopo di trarne vantaggio. Si tratta dunque di un concetto di tempo che presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si possa verificare la trasformazione. Il termine «KairόV» esprime quindi una nozione di tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di compiutezza e di pienezza. 
Esso indica il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto – soprattutto in campo etico – dalla misura.

Ma c’è una possibile derivazione etimologica alternativa di questa idea di tempo che ne fa emergere, con maggiore efficacia, i tratti distintivi. Si tratta dell’idea di tempo come kaîroV, un termine dell’arte della tessitura. Tessere, tempo e fato erano idee spesso collegate. Un’apertura nella trama del fato può significare un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più compatto o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre il varco è aperto.

E c’è infine, sempre nel mondo antico, nella filosofia greca in particolare, un esplicito riferimento all’’«intelligenza temporale», basata su una concezione del tempo che non è fatta soltanto della capacità di scandire il divenire e di cogliere le occasioni, ma anche di un senso della permanenza e della continuità che risiede in un duplice ordine: quella esperienziale di ogni singolo individuo e quella che oggi definiamo filogenetica specie specifica, che è alla base del sentire, al contempo, la peculiarità e l’intimità individuali e l’universalità. Questa concezione del tempo è incardinata sulla consapevolezza che la memoria personale è fortemente agganciata alla «memoria collettiva», che è alla base della cultura, la ripropone, la conferma e la modella di continuo. Il nesso e l’interazione tra questa dimensione della memoria collettiva e l’esperienza complessiva di ogni singola persona, nel «qui» e «ora» in cui vive, sono contraddistinti e segnati dal tempo della permanenza, dall’ Aiwn, che garantisce la continuità tra le diverse generazioni, quella che Arthur Lovejoy chiama «la grande catena dell’essere». I contenuti archiviati nella mente individuale – eventi, fatti, concetti, capacità – sono proprio per questo qualcosa di più della rappresentazione di una singola e peculiare personalità: essi, come scrive l’antropologo Pascal Boyer, sono anche “il punto cruciale della trasmissione della cultura”. Il tempo come Aiwn è il soggetto attivo di questa trasmissione, la base sulla quale essa poggia e che rende ciascuno di noi la «cinghia di trasmissione» dell’eredità del passato e la sede dei progetti della storia del futuro.

 Ma accanto a questo Aiwn eterno, immutabile, fuori del tempo  ce n’è però un altro che s’invera nel mondo e ne permette la “durata”, la nascita, la crescita e poi la fine di ogni processo di manifestazione. Sul piano temporale ciò non può essere espresso se non come passato, presente e futuro, mentre sul piano simbolico diventa un Aiwn che si fa fanciullo, poi adulto e infine vecchio. Sono propriamente queste le raffigurazioni più conosciute del dio Aiwn, rappresentato come fanciullo non solo nei rituali, ma perfino nella prima concezione ellenica (Eraclito, poi Euripide).

Il simbolo di Aiwn che si esprime attraverso le tre età fondamentali che scandiscono i momenti di un ciclo cosmico si ritrova, significativamente, nel mosaico di Antiochia della Casa di Aion, databile alla metà del III secolo d.C. Questo mosaico si distingue per una sua particolarità; raffigura, infatti, una scena di simposio o comunque tricliniare dove sono presenti quattro figure di sesso maschile giacenti su delle klinai. la figura di sinistra, un uomo maturo ma non vecchio, con barba e baffi e capo recinto da una corona di foglie, che tiene nella mano destra la ruota dello Zodiaco riposa su un’altra kline di cui è evidente solo la testata. Egli volge lo sguardo alla sua sinistra, in direzione di tre personaggi frontalmente distesi su una kline.  Accanto alla figura di sinistra che giace sul letto di cui si vede solo la testata compare la scritta AION mentre accanto alle tre figure del letto frontale si leggono rispettivamente altre tre scritte, MELLON (futuro), ENESTOS (presente) e infine PAROCHEMENOS (passato). Inoltre tra la testata del letto di sinistra e la trapeza compare un’altra iscrizione che dovrebbe riferirsi alle tre figure maschili osservate frontalmente, CHRONOI (tempi). L’aspetto più curioso della raffigurazione musiva che naturalmente ne rende ancora più interessante l’interpretazione consiste nella comunanza simultanea di Aion e dei Chronoi; questa “simultaneità” non può non richiamare alla memoria – anche per questioni cronologiche – il titolo del trattato III 7 delle Enneadi, Sull’eternità e il tempo dove Plotino attribuisce all’Anima la temporalità della durata, essendo tale ipostasi più a contatto con il mondo sensibile, e al Nous l’eternità a-temporale: significativamente Plotino scrive (en., III 7 7-8) che per indagare il tempo si deve discendere (katabateon) dall’eternità. All’altezza cronologica di Plotino e verosimilmente anche del mosaico antiocheno il significato di aion si era ampiamente stabilizzato: infatti con quel termine si indicava, da un lato, l’eternità in opposizione agli aspetti durativi della temporalità, dall’altro, come forse è il caso del mosaico in questione, l’eternità che si declina nella durata del tempo, passato presente e futuro.

La presenza di queste forme miste e ibride autorizza e può accreditare un’ipotesi di un certo interesse, e cioè che esse costituiscano il riferimento necessario per inquadrare concettualmente quelle forme particolari di esperienza che, pur collocandosi in un tempo determinato e in una fase specifica del divenire, riescono a superare le barriere dell’immediato e del presente e a collocarsi in quella dimensione atemporale che è determinata proprio dalla porsi al di fuori dello scorrere incessante degli istanti, per sperimentare una sorta di sospensione del ritmo del tempo. È proprio questo che conferisce alle emozioni di questo genere quell’impronta di eternità in virtù della quale esse aprono una breccia nel tempo e durano, riuscendo a passare da una generazione all’altra.

Facciamo ovviamente riferimento a quel tipo di percezione che costituisce l’occasione, lo stimolo e una sorta di sperimentazione per elevarsi alla dimensione dell’arte, che è qualcosa di assimilabile a una «cesura nel tempo», un’esperienza di «attenzione assorta e intransitiva», la quale è una sorta di «fuori dal tempo nel tempo», un soffio d’eternità nell’esperienza vissuta.

Questo tipo di percezione presuppone la  capacità di isolare un singolo istante (quello in cui si verifica un’esperienza significativa) e di «condensare» in esso passato, presente e futuro, sottraendolo al ritmo del tempo e introducendo così all’interno di quest’ultimo una rottura la quale, come scrive Giorgio Agamben, “sembra introdurre in quest’eterno flusso una lacerazione e un arresto”[66].

Come si è visto, proprio a proposito dell’arte, Carlo Diano concentra significativamente il suo interesse proprio su queste firme miste e ibride tra CronoV e Aiwn, tra l’hic et nunc et l’ubique et semper ed esplora e approfondisce tutte le possibili gamme intermedie tra questi estremi: “Infiniti i gradi in cui la sintesi dell’arte può realizzarsi, infinite le possibilità di struttura e di dimensione del tempo e dello spazio, e quindi di figurazione dell’essere e dell’esserci, dal primo in cui il continuo cessa di essere tale ed è passibile di figura, al primo in cui il discreto, quell’atomo che è il puro essere, comincia ad aprirsi al non-essere e alla mobilità e divisibilità e inflette la figura: dalla massima temporalità dello spazio propria del minimo d’essere e di specularità e di forma nel massimo d’esserci e di polarità e d’evento, alla massima spazialità del tempo propria del minimo d’evento e di polarità e d’esserci nel massimo di forma, di specularità e d’essere. Di qui la molteplicità storica e praticamente infinita delle poetiche e la loro essenziale unità”[67]. E anch’egli si occupa del nesso tra il fare sempre puntuale e discontinuo, tipico dell’arte,e la continuità del senso:”Ma, per tornare ora al senso e all’arte, solo il fare del senso e dell’arte unisce la specularità della tecnica e la polarità della pratica, Ma è fare e non agire, o agire in quanto è fare, perché il fine è l’esistenza d’un’essenza, e il Bene vi è non per sé, ma partecipato, ed è il Bello. E qui tutto quello che s’è detto della verità, vale per il fare. E innanzi tutto che esso è nell’attimo, e ogni attimo si perde e va riconquistato. Ed è perciò che il poeta, quando ha scritto un verso, non sa se e quando scriverà l’altro, e il fare essendo sempre puntuale e discontinuo, la sua continuità, quando c’è, è sempre nel su e giù polare di quello stato di «furore» e d’«ebbrezza» e d’ek-stasis, che in ogni tempo è stato riconosciuto al fare dell’arte, e che caratterizza, per chiunque non ha la disgrazia di essere anàistetos e quindi anche àmousos, la continuità del «senso»[68].

  1. Pensiero astratto ed «epistemologia del simbolo»

Le considerazioni appena fatte sull’arte e sul simbolo esigono il chiarimento di un ultimo aspetto, che riguarda il nesso tra il «pensiero simbolico» e il «pensiero astratto». A proposito di quest’ultimo Diano ripropone una domanda di Kierkegaard e la risposta che egli si dava e fa alcune considerazioni in proposito, riferendosi alle proposizioni 5.632 e 5.633 del Tractatus di Wittgenstein: ”«Che cos’è il pensiero astratto?» si domandava Kierkegaard. E rispondeva: «È il pensiero il cui il pensante non c’è». E così Gentile scriveva che «gli occhi non ce li possiamo vedere che allo specchio». Né altrimenti parla Wittgenstein: «il soggetto non appartiene al ‘mondo’, ma è un limite del ‘mondo’. Dov’è mai che nel mondo un soggetto metafisico si lascia osservare? Tu dici che è come con l’occhio e il campo visivo. Ma l’occhio non lo vedi. E nulla nel campo visivo ti permette di concludere che esso è visto da un occhio». È nell’evento invece che il soggetto, ridotto alla pura e irrappresentabile puntualità del cuique, si avverte come separato: il «sentimento dello stato di creatura» di cui parla R. Otto e la «derelizione» degli esistenzialisti. Perché contro l’hic et nunc del cuique c’è la trascendenza dell’ubique et semper del periechon, il Mysterium tremendum e insieme fascinans, da cui l’uomo si sente respinto e insieme attirato”[69].

Wittgenstein nelle proposizioni citate da Diano ci dice che dall’interno del campo visivo non rileviamo alcun aspetto che ci permetta di dedurre l’esistenza di un occhio; non vi sono considerazioni che, a partire dal campo visivo, ci portino a supporre la necessità di un soggetto, quale condizione a priori di ciò che vediamo, e di come lo vediamo. Come aveva notato Locke, l’occhio non può vedere se stesso e, come aveva scritto Vico, esso ha bisogno di uno specchio. L’assenza dell’occhio dal campo visivo riflette l’assenza del soggetto dal pensiero astratto e l’assenza del corpo dai processi e dalle costrutti mentali. Abbiamo qui quella che possiamo senza imbarazzo alcuno considerare una versione «laica» e «profana» del sacrificio: per passare dall’evento alla forma e dal «vissuto» all’astratto il soggetto della conoscenza rinuncia al proprio ruolo, sacrifica la propria presenza e, in cambio, ottiene una dilatazione e un arricchimento del proprio campo visivo. Si ha così quel tipo di approccio illustrato con la massima chiarezza da Popper con la sua teoria dei «tre mondi», e cioè:

  1. il mondo degli oggetti fisici o degli stati fisici;
  2. Il mondo degli stati di coscienza o degli stati mentali;
  3. Il mondo dei contenuti oggettivi di pensiero, specialmente dei pensieri scientifici e poetici e delle opere d’arte.

Una volta operata questa separazione di livelli, Popper così presenta il nucleo della sua posizione epistemologica: “La mia tesi centrale è che qualsiasi analisi intellettualmente significativa dell’attività del comprendere deve soprattutto, se non interamente, procedere con l’analisi del nostro uso delle unità strutturali e strumenti del terzo mondo”. Ciò significa proporre un radicale spostamento di prospettiva, in virtù del quale per quanto riguarda i problemi gnoseologici, non ci si dovrebbe occupare e preoccupare tanto delle credenze oggettive e degli stati mentali, quanto piuttosto delle situazioni problematiche  e dei sistemi teorici,  cioè della conoscenza in senso oggettivo  e non nel senso  soggettivo  dell’ “«io so».

Abbiamo, pertanto, a che fare con una «conoscenza senza un soggetto conoscente», che si occupa di «libri in sé», di «teorie in sé», di «problemi in sé» ecc. non riferiti a nessun uomo specifico, ma considerati come qualcosa di astratto da assumere e interpretare, semplicemente, nella loro possibilità  o potenzialità  di essere letti, interpretati, capiti, e che devono, di conseguenza, venire studiati in maniera oggettiva, indipendentemente dalla questione se queste potenzialità vengano o meno mai realizzate da qualche organismo vivente. In questo modo può sorgere un intero nuovo universo di possibilità o potenzialità: un mondo che è in larga misura autonomo.

Per quanto riguarda poi la relazione tra questo mondo autonomo di teorie e di prodotti conoscitivi e culturali in generale e i soggetti umani e i loro stati mentali sussiste, anche in questo caso, un importantissimo effetto di feedback: una epistemologia oggettivista che studia il terzo mondo può infatti gettare una luce immensa sul secondo mondo, quello della coscienza soggettiva, specialmente sui processi di pensiero degli scienziati, mentre non è vera l’affermazione reciproca.

La conoscenza diventa così uno spazio a se stante, chiuso rispetto a qualsiasi possibile incidenza dei processi mentali e (a maggior ragione) degli stati corporei, del mondo delle credenze, delle attese e speranze, delle emozioni e degli obiettivi di qualsivoglia soggetto. Essa assume in tal modo quella valenza di totale autosufficienza, di insieme di forme in sé e per sé di cui parla Diano: e questo modo di vederla e considerarla, in virtù di tutti i benefici e le acquisizione che se ne ricavano, persiste, nonostante il fatto che oggi si intenda ad attribuire un ruolo sempre più insostituibile, per quanto riguarda la genesi e lo sviluppo della conoscenza medesima, al trasferimento analogico e alle metafore, che hanno sempre a che fare non solo con la mente, ma anche e soprattutto con i sensi e con il corpo. Noi infatti, come mostrano gli studi sull’origine e la natura delle metafore di Lakoff e Johnson[70] e di Clark[71],  quando parliamo, ad esempio, del tempo usiamo parole e immagini come “passa”, “scorre”, “fugge” o, addiruttura, “vola”, originariamente desunte dal carattere primitivo e fondante di certe esperienze cognitive riguardanti il corpo umano, il movimento e il suo orientamento nello spazio.  Proprio queste esperienze sono alla base della struttura metaforica del linguaggio e dell’intervento dell’immaginazione nella formazione dei concetti e nel significato delle parole. Frutto di un trasferimento analogico dall’esperienza spaziale a quella temporale sembrano essere le metafore in cui il tempo è rappresentato in moto relativo rispetto al tempo concepito come in quiete, in cui è probabilmente riflessa l’esperienza fondamentale del movimento del nostro corpo nello spazio e dell’andare consapevolmente verso un obiettivo posto nel campo visivo. Non solo, ma anche nei prodotti più astratti e «formali» del mondo 3 è facilmente rintracciabile questa matrice originaria. Ancora Gorge Lakoff, in collaborazione con Rafael Núñez[72] questa volta, sottolinea che anche la matematica ha a che fare con i processi più concreti dell’uomo. Le sue acquisizioni, infatti, sono fondate nel nostro corpo, non sono arbitrarie e non sono pure convenzioni sociali, sono profondamente emanate dal nostro corpo: I numeri, l’aritmetica, le figure, la geometria, ma anche cose più elementari, come il continuo e il discreto. La mente è profondamente incorporata, fa parte del nostro corpo. La metafora e il trasferimento analogico, nelle scienze, e in particolare in matematica, sono strumenti che ci permettono di gettare una luce, a partire da qualcosa di noto, su qualcosa che altrimenti rimarrebbe oscuro. C’è un forte e ineliminabile intreccio tra la base corporea di fondo, che continua a rimanere, e il linguaggio che, a sua volta, ha una base corporea molto forte. Nel momento in cui parlo si attivano sincronizzazioni temporali, il mio dito che si muove e la mia lingua che pronuncia certe parole, dell’ordine del centesimo di secondo. C’è una sincronizzazione interna, c’è un sincronismo tra agire e parlare, che non può essere casuale ed è profondamente radicato nei meccanismi temporali che governano il corpo. Si scende appunto all’ordine del centesimo di secondo. Si tratta di qualcosa che è profondamente radicato nel nostro essere corporeo. La struttura cognitiva dei concetti matematici è dunque profondamente e inestricabilmente al linguaggio, al corpo, alla gestualità.
Proprio perché l’occhio, il soggetto e il suo corpo, pur assenti dal nostro campo visivo e dalla prospettiva del pensiero astratto, fanno comunque sentire tutto il peso della loro presenza e della loro incidenza sui processi percettivi e cognitivi, ciascuno di noi si vede costretto a rendere in qualche modo presente a se stesso il proprio occhio e il proprio corpo come se fossero degli assenti. La nostra facoltà di saper sostituire l’assente prende avvio proprio da qui ed è probabilmente motivata da questa esigenza. Come scrive Iacono “siamo esseri simbolici, e dunque mancanti, perché una sostituzione possiede sempre una differenza e una mancanza rispetto a ciò che sostituisce”[73].
Ecco perché, anche qui, si avverte la presenza condizionante del sacrificio, che lascia una traccia ben precisa nell’astrazione, come capacità di “togliere” per arrivare al nucleo essenziale dei problemi, ma anche nell’analogia e nei trasferimenti da una cosa all’altra, da un concetto altro che essa ci consente di operare (ad esempio dallo «scudo di Ares» alla «coppa di Dioniso», per riprendere il classico esempio di Aristotele) che non sarebbero realizzabili se lo scudo e la coppa continuassero a essere visti nella pienezza dei loro tratti distintivi e non sacrificassero qualcosa della loro forma all’esigenza di essere posti in collegamento reciproco e di pervenire a una sorta di «fusione» dei loro orizzonti percettivi. Illuminante, da questo punto di vista, è ciò che scrive Max Black “Proviamo, ad esempio, a pensare alla metafora come a un filtro. Si consideri l’affermazione: ‘L’uomo è un lupo’. Qui, possiamo dire, vi sono due  soggetti: il soggetto principale, l’uomo (o gli uomini) e un soggetto secondario, il lupo (o i lupi). Ora la frase metaforica in questione non sarebbe in grado di trasmettere il suo significato intenzionale a un lettore piuttosto ignorante in materia di lupi. Ciò che si richiede non è tanto che il lettore conosca il significato standard di ‘lupo’ fornito da un dizionario, o che sappia usare la parola in senso letterale, quanto piuttosto che sia a conoscenza di quello che chiamerò un sistema di luoghi comuni associati […] L’effetto, dunque, di chiamare un uomo ‘lupo’ è di evocare il sistema ‘lupo’ di luoghi comuni correlati. Se l’uomo è un lupo, egli è feroce, affamato, impegnato in una continua lotta, e così via. Ciascuna di queste asserzioni implicite deve essere ora condotta ad adattarsi al soggetto principale (l’uomo) sia nei sensi normali che in quelli inconsueti […] Ogni tratto umano di cui si può senza inopportune distorsioni parlare in ‘linguaggio lupesco’ sarà messo in rilievo, e ogni tratto che non ha queste caratteristiche sarà respinto sullo sfondo. La metafora-lupo sopprime particolari, ne sottolinea altri: in breve, organizza  la nostra visione dell’uomo”[74].

Ciò ci autorizza ad affermare che “la metafora crea una similarità, piuttosto che esprimere una qualche similarità precedentamente esistente”[75]. Il soggetto principale viene infatti “visto attraverso” l’espressione metaforica o, per meglio dire, proiettato sul campo dei soggetti secondari. Un sistema di implicazioni (o di ‘luoghi comuni’) impiegato all’interno di un certo campo viene usato come strumento per selezionare, evidenziare, costruire relazioni, in una parola per strutturare, organizzare anche percettivamente, un campo differente. Questa operazione, che ha dunque una vera e propria natura percettiva,  oltre che conoscitiva,  in quanto attraverso il soggetto secondario conduce  a mettere in luce e a vedere  caratteristiche e proprietà fino a quel momento del tutto inedite del soggetto principale, può riuscire soltanto a due condizioni: 1) che entrambi i termini o soggetti siano presenti contemporaneamente nell’operazione medesima e interagiscano tra di loro; 2) che le implicazioni che vengono trasferite da un soggetto all’altro rimangano, almeno in una certa misura, implicite, e quindi nascoste, sottratte allo sguardo.  Se infatti la metafora “l’uomo è un lupo” venisse sostituita da una parafrasi letterale, che espliciti  le relazioni rilevanti tra i due soggetti, essa perderebbe gran parte della sua efficacia, cioè del suo valore di “illuminazione”. L’insieme di proposizioni letterali così ottenuto finirebbe inevitabilmente col dire troppo e col mettere in evidenza cose diverse dalla metafora, con il risultato di vanificare il contenuto conoscitivo di essa. Va infine tenuto presente che, attraverso la sovrapposizione creata, la produzione della relazione metaforica modifica anche il sistema di implicazioni associato al soggetto secondario, e non solo quello legato al soggetto principale. Se infatti chiamare ‘lupo’ un uomo è metterlo in una luce particolare, non va dimenticato che la metafora fa sembrare anche il lupo più umano di quanto non sarebbe altrimenti.

Possiamo allora dire, a questo punto, che la metafora si presenta proprio come manifestazione, nella percezione visiva e nel linguaggio, di quella capacità dell’invisibile (di ciò che è sottratto allo sguardo ed è tenuto nascosto) di agire sul visibile, sui tratti direttamente presenti nel nostro campo visivo ed esplicitati nel linguaggio, capacità che, come si è detto, è proprio uno dei presupposti necessari perché si possa parlare di sacrificio.

Per ribadire ulteriormente e rafforzare questa idea, si pensi ai casi, sempre più frequenti, nella pratica scientifica attuale, in cui ci si trova di fronte a un’interazione che mette in relazione concetti e metodi appartenenti a campi differenti della conoscenza e della ricerca. Questo collegamento, che è essenziale nella descrizione di molti problemi, non lascia inalterati i due ambiti implicati. Come risultato di esso questi ultimi vengono in parte a sovrapporsi, dando luogo alla costituzione di nuovi oggetti della conoscenza che mostrano caratteristiche sia dell’uno che dell’altro, e quindi hanno una natura duplice e ambigua che rende del tutto legittimo il chiamarli ‘ibridi’. L’ibridazione svolge un ruolo  cruciale nella scoperta scientifica, nell’emergere della capacità di costruire analogie inedite, in virtù delle quali  oggetti pur dissimili concordano però rispetto a certe relazioni tra le rispettive parti.

Se i due domini coinvolti sono  molto eterogenei, ci si deve aspettare che gli ibridi risultanti conservino una sorta di eterogeneità sommersa, e per questo essi spesso presentano una certa ambiguità ed instabilità. Per esempio, come sottolinea Grosholz, le curve di Descartes sono degli “ibridi algebrico-geometrico-numerici, una multivalenza che sarà la chiave per la loro indagine e il loro uso in fisica nella seconda metà del diciassettesimo secolo”[76]. Ma ha ragione Cellucci a rilevare che questa loro ambiguità e instabilità non significa affatto che gli ibridi “siano difettosi e intrattabili: infatti,  essi sono tenuti insieme dalle relazioni esistenti fra i campi corrispondenti.  Ed è proprio la loro ambiguità ed instabilità ad assicurare agli ibridi quella multivalenza che ne assicura la fecondità e suggestività”[77].

Qui, pertanto non sono le “rappresentazioni” più o meno dettagliate e i corrispondenti processi di visualizzazione a guidare le interpretazioni. Si può anzi dire che esse fungano da ostacolo al pieno e libero dispiegarsi del processo di ricerca destinato a mettere capo a esse. Allora, in questi casi, più che “visualizzare”, agendo all’interno del campo della sola percezione, comunque definita e intesa, si tratta di collocarsi nell’interfaccia tra pensiero e sensazione, nel confine che separa e, a un tempo, collega i rispettivi campi di pertinenza. Recuperando la funzione originaria dei simboli che, come si è visto,  è quella di  costruire linee, strutture e forme che rendono  possibile il riconoscimento. In qualunque modo, non soltanto attraverso la rappresentazione e la visualizzazione, come ci ricorda genialmente Calvino in una delle tappe delle sue Cosmicomiche,  quella intitolata Un segno nello spazio. Dove si racconta che Qfwfq, resosi conto che il Sole impiega circa 200 milioni d’anni a compiere una rivoluzione completa della Galassia e stufo di girare in questa vastità del tutto omogenea e indifferenziata, un bel giorno decide di fare un segno in un punto dello spazio, per poterlo ritrovare al momento del passaggio di lì al giro successivo. Che cosa fosse o dovesse essere un segno, non lo aveva ben chiaro “Avevo l’intenzione di fare un segno, questo sì, ossia avevo l’intenzione di considerare segno una qualsiasi cosa che mi venisse fatto di fare, quindi avendo io, in quel punto dello spazio e non in un altro, fatto qualcosa intendendo di fare un segno, risultò che ci avevo fatto un segno davvero.

Insomma, per essere il primo segno che si faceva nell’universo, o almeno nel circuito della Via Lattea, devo dire che venne molto bene. Visibile?  Si, bravo, e chi ce li aveva gli occhi per vedere, a quei tempi là? Niente era mai stato visto da niente, nemmeno si poneva la questione. Che fosse riconoscibile senza rischio di sbagliare, questo sì: per via che tutti gli altri punti dello spazio erano uguali e indistinguibili, e invece questo aveva il segno”[78].

Compito primario dei simboli e dei segni è dunque quello di “tracciare delle differenze” per rendere riconoscibile ciò che viene così evidenziato. E di consentire di andare continuamente al di là dei riconoscimenti già effettuati e “passati in giudicato”, per così dire, delle forme e dei contenuti già assimilati dalla mente. Il confine come linea di demarcazione, come terminus, cioè come significato-limite raggiunto, in una determinata tappa, da una specifica cultura, come custode del confine della coltura/cultura, che dà alla realtà articolazione e struttura e fissa le sue forme fondamentali, non è che il punto di arresto provvisorio di una irrefrenabile “capacità transitiva”, cioè di una tendenza ad oltrepassare di continuo i limiti del mondo visibile, per costruire nuove modalità di raccordo tra quest’ultimo e il dominio dell’ (ancora) invisibile, liberando verso ulteriori creazioni.

Da questo punto di vista la creatività si presenta come una sorta di continua “rastremazione indiretta” dall’alto (senso della possibilità) verso il basso (senso della realtà) con la progressiva introduzione di vincoli che “sfrondano” le opportunità inizialmente disponibili, con conseguente ripensamento del tipo di nesso che occorre istituire tra ragione e immaginazione, tra linguaggio verbale e linguaggio iconico, tra pensiero disciplinato e rigoroso e fantasia. Come ci dice, magistralmente, questo illuminante passo di Munari: “Semplificare è più difficile. Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. […] Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più della scultura che vuole fare. […] Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode, il teorema di Pitagora ha una data di nascita, ma per la sua essenzialità è fuori dal tempo. […] La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte”[79].
Il senso e la ragione di questo rovesciamento di prospettiva da un processo bottom-up, come tradizionalmente viene concepito il percorso della ricerca scientifica che si sviluppa attraverso il procedimento induttivo, a un andamento top-down che prende avvio dall’abduzione, che ne costituisce lo snodo principale, sono ben chiariti da Peirce. Con la sua teoria dell’inferenza, intesa come l’insieme dei tipi di ragionamento scientifico e dei generi di giustificazioni che se ne possono offrire, egli concentra la sua attenzione sui tre processi in cui si articola questo ragionamento:

  • la deduzione è il ragionamento che, se correttamente usato, non può condurre da premesse vere ad una conclusione falsa; data la verità delle premesse de­ve necessariamente seguire la verità della conclusione. La ne­cessità del ragionamento deduttivo dipende dal fatto che esso non è esposto alla possibile confutazione empirica. Il ragio­namento deduttivo, quello logico e quello matematico, vale in ogni possibile universo;
  • l’ induzione, dal canto suo, è quel tipo di ragio­namento dove “si conclude che fatti simili a quelli osservati sono veri in casi non esaminati”; così, per esempio, dal fatto che i cigni finora osservati sono risultati bianchi concludo che an­che gli altri cigni saranno bianchi;
  • accanto a questi due tradizionali strumenti per pensare  nella filosofia della scienza di Peirce c’è l’abduzione (o retroduzione o ragionamento ipotetico). Le differenze esistenti tra l’induzione e l’abduzione sono sostanzialmente due: in primo luogo nell’induzione si conclude che fatti simili a quelli osservati sono veri in casi non esaminati, mentre nel ragionamento ipoteti­co o abduzione si giunge alla conclusione che esiste un fatto completamente diverso da qualsiasi altro osservato; in secon­do luogo si vede che, mentre l’induzione classifica, l’abduzione spiega.

Lo schema del ragionamento per abduzione è il seguente:

  1. Si osserva C, un fatto sorprendente.
  2. Ma se A fosse vero, allora C sarebbe naturale.
  3. C’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero.

Ciò che in simile schema si sostiene è che una certa congettu­ra (o ipotesi), cioè che A sia vero, vale la pena di essere presa in considerazione. L’abduzione è pertanto il frutto del momento inventivo, creativo dello scienziato, dell’attimo fortunato dell’immaginazione scientifica che formula ipotesi esplica­tive generalizzate, le quali, se confermate, diventano leggi scien­tifiche (pur sempre correggibili e sostituibili) e, se falsificate, vengono scartate. Ed è proprio l’abduzione a far progredire la scienza, che avanza da una parte sulla direttrice dell’inglobamento progressivo di fatti nuovi e insospettati che spingono per questo a escogitare nuove ipotesi capaci di spiegarli, e dall’altra su quella  di una unificazione assiomatica delle leggi, at­tuata da quelle che si dicono le grandi idee semplici.

Lo aveva già genialmente intuito Henri Poincaré, il quale più di un secolo fa, con un’originalità e una capacità di anticipazione che ancora oggi non cessano di stupire, osservava, a proposito del comportamento dello scienziato, che egli deve, quando si trova di fronte ai dati e alle osservazioni che costituiscono il suo materiale di lavoro, “non tanto constatare le somiglianze e le differenze, quanto piuttosto individuare le affinità nascoste sotto le apparenti discrepanze. Le regole particolari sembrano a prima vista discordi, ma, a guardar meglio, ci si accorge in genere che sono simili; benché presentino differenze materiali, si rassomigliano per la forma e per l’ordine delle parti. Considerandole sotto questa angolazione, le vedremo ampliarsi, tendere a diventare onnicomprensive. Ed è questo che dà valore a certi fatti che vengono a completare un insieme, mostrando come esso sia l’immagine fedele di altri insiemi già noti. Non voglio insistere oltre; saranno sufficienti queste poche parole per mostrare che l’uomo di scienza non sceglie a caso i fatti che deve osservare […]. Egli cerca piuttosto di concentrare molta esperienza e molto pensiero in un esiguo volume, ed è per questo motivo che un piccolo libro di fisica contiene così tante esperienze passate e un numero mille volte maggiore di esperienze possibili delle quali già si conosce il risultato”[80].
L’uomo di scienza, dunque, non procede accatastando e accumulando fatti e dati, non agisce per sommatoria, bensì per intersezione e per incastro, riscontrando, sotto le diversità che si manifestano, ponti sottili e analogie non rilevabili da un occhio non esercitato ed esperto. Egli riesce, in tal modo, a stabilire collegamenti e a operare trasferimenti e sovrapposizioni che gli consentono di ridurre considerevolmente il volume delle esperienze, sia effettivamente realizzate, sia semplicemente possibili, di cui può disporre.
Pur prendendo atto della priorità e della specifica funzio­ne svolta dal processo d’inferenza ipotetica, dobbiamo comunque renderci conto, secondo Pierce, che l’abduzione è intimamente connessa con la deduzione e l’induzione. Lo è nel senso che, dovendo giudicare della ammis­sibilità della ipotesi, occorrerà che ogni vera ipotesi plausibile sia tale che da essa si possano dedurre delle conseguenze le quali, a loro vol­ta, possano essere collaudate induttivamente, vale a dire speri­mentalmente. E a giudizio di Peirce, una tale dipendenza non ha ca­rattere unilaterale, in quanto egli considera l’induzione soprattutto co­me un metodo per collaudare le conclusioni; e queste conclu­sioni, a suo parere, sono sempre suggerite, per la prima volta, dall’inferenza ipotetica. Con l’induzione si generalizzano e si collaudano le conseguenze che si possono dedurre da una data ipotesi; così la reciproca dipendenza di queste due forme di in­ferenza, e la loro dipendenza comune dalla deduzione, risulta­no ugualmente chiare. In altre parole, il mondo e l’infinità dei fatti che lo compongono noi li investiamo, per compren­derli, prevederli e manipolarli, con ipotesi o congetture di carat­tere generale, dalle quali possiamo dedurre proposizioni singo­lari che, se verificate, confermano quelle ipotesi, che così passano al rango di leggi, comunque sempre rivedibili.

Ciò ci consente di ribadire che secondo Peirce c’è una sorta di istinto abduttivo che ci porta a lanciare congetture esplicative e a selezionare l’ ipotesi migliore. E’ questo istinto che guida Sherlock Holmes nella sua ricerca del colpevole e uno scienziato come Keplero nella ricerca della traiettoria dei pianeti e che ci sono in effetti due fasi del procedimento abduttivo: la prima, appunto, creativa (che consiste nel formulare ipotesi audaci), la seconda selettiva, che consiste nel selezionare l’ ipotesi migliore, eliminando una dopo l’altra quelle meno valide. Mentre la selezione può essere effettuata in modo razionale, e quindi codificata come una logica vera e propria, per quanto riguarda l’abduzione creativa il processo di elaborazione appare differente e assai più complesso.

  1. Conclusione: sotto il segno dell’amore

Nella rivoluzionaria lettura che ne propone Carlo Diano l’Alcesti è una “meditazione della morte” vista da un angolo visuale particolare, quello dell’amore. “La risposta, per le conclusioni stesse indicate dal dramma, è quella data dal Cristianesimo con la «follia» della Croce. Euripide non può che adombrarla in forma di favola nella resurrezione di Alcesti, favola a cui non si può credere se non per un’altra «follia», quella della «speranza» e del sogno”[81].
Sacrificio, dunque, quello di Alcesti, fatto in nome e sotto il segno della dedizione totale e dell’amore e che, come sbocco, non può che avere, invece della rinuncia alla vita, la ricompensa della risurrezione e la dilatazione delle prospettive che ne scaturisce. Perché il sacrificio non è un «do ut des», un dono che in qualche modo lega e condiziona, con l’aspettativa della restituzione e dello scambio, e che quindi avviene, trattandosi di un «mercanteggiare» esplicito o implicito, sotto il segno di Mercurio, il dio delle transazioni e dei commerci, ma è una volontaria e incondizionata donazione di sé che avviene, appunto, sotto il segno di Eros, dell’amore.
Carol S. Pearson[82] propone, da questo punto di vista, un esempio illuminante che troviamo in Amadeus, il film di Miloš Forman sulla vita di Mozart tratto dall’omonima opera teatrale di Peter Shaffer. In quest’opera il protagonista, il maestro Antonio Salieri, fa voto di obbedienza e di castità a Dio, nutrendo la speranza di ottenere in cambio il dono di diventare un compositore di prestigio. Riesce a raggiungere questo suo obiettivo diventando compositore di corte, ed è appagato, fino al momento in cui la sua vita non s’incrocia con quella di Mozart, che è il suo esatto opposto: disobbediente e trasgressivo, ma geniale e creativo, al punto che quando compone sembra ispirato direttamente da Dio. Questo a Salieri sembra un affronto troppo grande e intollerabile. Il fatto che Dio abbia scelto, per farne strumento e interprete della sua musica, l’abietto Mozart invece di una persona virtuosa come lui, che per ottenere la benevolenza e la grazia divina ha rinunciato alle gioie terrene, lo induce a dichiarare guerra non solo a Mozart, ma anche allo stesso Dio.
In questo caso, manifestamente, si dà per ricevere, per ottenere un compenso, un dono, e non già in nome di una rinuncia irrevocabile, dove “dare significa perdere”.
Pavel Florenskij, il grande teologo, filosofo (e ingegnere, logico, matematico e critico d’arte) russo che abbiamo già avuto modo di citare qui ci ha lasciato una pagina illuminante in proposito: Solo “l’amore reciproco è condizione dell’unità di pensiero (omo-noia), dell’unità di mente di coloro che si amano l’un l’altro, in contrapposizione al rapporto reciproco esteriore che non va più in là della ‘somiglianza di pensiero’ (omoio-noia) su cui si basano la vita mondana, la scienza, la vita sociale, lo Stato, e via dicendo”[83]. In che cosa si esprime, concretamente, questo tipo di amore profondamente spirituale? “Nel superare i confini dell’aseità, nell’uscire da se stessi, e per questo è necessaria la comunione spirituale reciproca. […] La natura metafisica dell’amore sta nel superamento translogico dell’autoidentità Io=Io e nell’uscita da sé. Questo avviene confluendo nell’altro, quando si riversa nell’altro la forza divina che spezza i ceppi dell’aseità umana finita. […] Così l’impersonale non Io diventa persona, un altro Io, cioè Tu”[84].

Si tratta ora di stabilire in quali condizioni maturi l’eroismo di questo superamento dell’aseità. “Questa rivelazione”, risponde Florenskij, “si compie nell’amore personale e sincero di due persone, nell’amicizia, quando a chi ama è concesso in forma previa, senza sforzo ascetico, di distruggere l’autoidentità, di abolire i confini dell’io, di uscire da se stesso e di trovare il proprio Io nell’Io dell’altro. L’amicizia, come nascita misteriosa del Tu, è l’ambiente nel quale incomincia la rivelazione della Verità”[85].

Dunque questo amore esige il superamento dell’autoidentità e della specularità, tipiche del mondo delle forme, e la capacità di saldarsi al vissuto dell’evento traendone però quel «soffio d’eternità», quella proiezione nel «tempo grande» della durata, nell’Aiwn eterno, immutabile, fuori del tempo, che è tipico della forma. Se pertanto è vero, come Diano sottolinea più volte e ribadisce insistentemente, che, in quanto categorie, forma ed evento sono distinte e inconciliabili, “nella realtà vissuta il loro rapporto è instabile e fluido e ad ogni istante reversibile: la medesima divinità che un istante appare come forma, nell’istante successivo è sentita come evento e si confonde col periechon. Noi non viviamo solo nell’esistenza, come credono gli esistenzialisti, né solo nell’essenza, come volevano che si facesse Platone ed Aristotele, ma in un’esistenza che continuamente si chiude nell’essenza e in una essenza che ad ogni istante si dirompe nell’esistenza. È per questo che bisogna rifarsi sempre alla storia vissuta”[86]. Ed è per questo, mi permetto di aggiungere io, che quello in cui noi viviamo realmente è una sorta di «mondo intermedio» tra la forma e l’evento[87].

“Il rapporto, tuttavia, tra forma ed evento”, continua e conclude Diano, “non è sempre il medesimo: v’è sempre una dominante, e i gradi sono infiniti, e questo permette di isolare le civiltà nella loro struttura e di disporle in una scala: vi sono civiltà in cui la forma domina sull’evento, altre in cui l’evento domina sulla forma. Una cosa però è da tener ferma, ed è che, il passaggio dall’uno all’altro estremo essendo qualitativo, v’è un limite oltre il quale la forma kat’ exochèn cessa, e tutto quel che segue ha valore funzionale e simbolico. Al medesimo limite e in senso opposto l’evento perde la sua cosmicità e si riduce a mero accidente. L’opposizione che è tra le due categorie non è soltanto logica, è reale, e questo rende drammatica la vita: il re non può dialettizarsi col buffone e viceversa. Al limite in cui la forma ed evento separano i loro regni c’è la morte, o di una delle due categorie o dell’uomo. Di qui l’Uno di Plotino, il Brahma e il Nulla degli Indiani, il Nulla di Lao Tze”[88].

[1] C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, Marsilio, Venezia, 1993, p. 35.

[2] Ibidem, pp. 36-37.

[3] M. Pauri, I rivelatori del tempo, ‘Nuova civiltà delle macchine’, 1999, n. 1, p. 36. Le medesime argomentazioni sono sviluppate da Pauri, in  forma più articolata e dettagliata, nel capitolo 3 “La descrizione fisica del mondo e la questione del divenire temporale” del volume Filosofia  della fisica, a cura di G. Boniolo, Bruno Mondadori, Milano, 1997, pp. 245-333.

[4] In realtà i rapporti che rimangono invariati sono quelli tra il vertice p del cono di luce e un evento interno al cono, o su di esso, rapporti relativi  o al passato assoluto o al futuro assoluto (S.T.).

[5] M. Dorato, Futuro aperto e liberà. Un’introduzione alla filosofia del tempo, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp, 131-132.

[6] M. Pauri, I rivelatori del tempo, cit., p. 42.

[7] Ivi.

[8] Ibidem, p. 43.

[9] Ibidem, p. 42.

[10] C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, pp. 70-71.

[11] Ibidem, p. 13.

[12] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, Neri Pozza, Venezia, 1956, p. 15.

[13] Ibidem, p. 64.

[14] Ibidem, p. 20.

[15] Ibidem, p. 56.

[16] Ibidem, p. 21.

[17] Ibidem, pp. 60-61.

[18] Ibidem, p. 28.

[19] Ibidem, pp. 111-112.

[20] C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit., p. 37.

[21] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, cit., pp. 21-22.

[22] Ibidem, p. 29.

[23] C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit., p. 50.

[24] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, cit., p. 33.

[25] Ibidem, pp. 33-34.

[26] Ibidem, pp. 45-46.

[27] R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 2000.

[28] P. Klee, La confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano, 2004.

 [29] B. Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura, Einaudi, Torino 1973.

[30] C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, cit., p. 58.

[31] I. Calvino, I nostri antenati, Einaudi, Torino, 1960, p. 9.

[32] Ibidem, p. XIII.

[33] Ibidem, pp. 7-8.

[34] C. Diano, Forma  ed evento,  cit.,  p. 59.

[35] Ibidem, p. 64.

[36] Ibidem, p. 63.

[37] R. Calasso, L’ardore, Adelphi, Milano, 2010, p. 427.

[38] Ibidem, p. 22.

[39] Ibidem, p. 428.

[40] Ibidem, p. 43.

[41] Ibidem, p. 309.

[42] Ibidem, p. 434.

[43] Ibidem, p. 289.

[44] Ibidem, p. 157.

[45] Ibidem, pp. 158-159.

[46] Ibidem, pp. 167-168.

[47] Ibidem, pp. 165-166.

[48] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, cit., p. 44.

[49] Ibidem, p. 101.

[50] C. Diano, Forma  ed evento,  cit.,  p. 38.

[51] C. Diano, Forma  ed evento,  cit.,  p. 74.

[52] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, cit., p. 23.

[53] M. Trevi, Instrumentum symboli”, ’Metaxù’,1, 1986, p. 50-51.

[54] Ho trattato ampiamente questo tema e questa duplice accezione e funzione del confine nel volume L’epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997.

[55] F. Diano, Nota su “Carlo Diano. Un’anticipazione dell’Alcesti”, in G. Namia-R. Suppa, Liceo classico statale “M. Morelli”. Vibo Valentia. Quattro secoli di storia, Adhoc Edizioni, Vibo Valentia, “012, pp. 256-257.

[56] C. Diano, Il senso dell’Alcesti, prefazione a Euripide, Alcesti, Neri Pozza, Vicenza, 1968, p. XVIII.

[57] Ivi.

[58] Ibidem, p. XVI.

[59] F. Diano, Nota su “Carlo Diano. Un’anticipazione dell’Alcesti”, cit., pp. 257-258.

[60] C.G. Jung, Il simbolo della trasformazione nella messa, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1992, p. 245 sg.

[61] P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Introduzione di E. Zolla, traduzione dal russo di P. Modesto, Rusconi, Milano, 1998, p. 231. Per una panoramica sul pensiero di Florenskij si può vedere S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano, 2006.

[62] Ibidem, p. 555.

[63] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, cit., p. 62.

[64] Ibidem, p. 62-63.

[65] Ibidem, p. 52 e 54.

[66] G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata, 1984, pp.150-151.

[67] C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, cit., p. 115.

[68] Ibidem, pp. 108-109.

[69] Ibidem, p. 32.

[70] G. Lakoff  e M. Johnson, Metaphors we live by, The University of Chicago Press, Chicago, 1980; M. Johnson, The body in the mind, The University of Chicago Press, Chicago, 1987.

[71] H.H. Clark, Space, Time, Semantics and the Child, in T.E. Moore (a cura di), Cognitive development and the acquisition of  language, Academic Press, New York, 1973, pp. 27-63.

[72] G. Lakoff e R. Núñez,Where Mathematics Comes From. How the Embodied Mind Brings Mathematics into Being, Basic Books, Pedrseus Books Group, New York, 2000. Traduzione italiana Da dove viene la Bollati Boringhieri, Torino, 2005.

[73] A. M Iacono, Una storia tra i mondi intermedi, ‘Educazione sentimentale’, n. 17, 2012, pp. 86-87.

[74] M. Black, Models and Metaphors,  Ithaca (New York), 1962, pp. 39-41 (tr. it. Modelli, archetipi, metafore,  Pratiche Editrice, Parma, 1983) I corsivi sono miei..

[75] Ibidem,  p. 37

[76] E. Grosholz, Cartesian Method and the Problem of Reduction,  Oxford University Press, Oxford, 1991, p. 100.

[77] C. Cellucci, La scoperta matematica,   ‘Lettera Pristem’, 18, dicembre 1995, p.17.

[78]  I. Calvino, Le cosmicomiche,  Einaudi, Torino, 1965, p. 42 (il corsivo è mio).

[79] B. Munari, Verbale scritto, Corradini, Mantova, 2008, p. 53.

[80] J.H. Poincaré, Scienza e metodo, a cura di C. Bartocci, Einaudi, Torino, 1997, pp. 14-15. Il corsivo è mio.

[81] C. Diano, Il senso dell’Alcesti, prefazione a Euripide, Alcesti, p. XIII.

[82] C.S. Pearson, L ’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma, 1990, pp. 117-120.

[83] P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 128-129.

[84] Ibidem, pp. 132-133.

[85] Ibidem, pp. 455-456.

[86] C. Diano, Forma ed evento, cit., p. 76.

[87] Sull’idea di «mondo intermedio» si può vedere S. Tagliagambe, Lo spazio intermedio, Università Bocconi Editore, Milano, 2008 (trad. spagnola El espacio intermedio. Red, individuo y comunidad, Fragua Editorial, Madrid, 2009).

[88] C. Diano, Forma ed evento, cit., p. 76-77.

(C) 2012 by Silvano Tagliagambe RIPRODUZIONE RISERVATA

Quasimodo, Vassalini e la gogna mediatica. Che significa tradurre i classici?

Quasimodo, ed è subito scippo

Atene, 1958. Da sinistra, Bruno Lavagnini, Caterina Vassalini, Salvatore Quasimodo.

Uno degli sport nazionali preferiti è quello di usare grandi nomi (di defunti, in genere) della nostra cultura o dell’arte, meglio se hanno ricevuto riconoscimenti internazionali, e creare quelle che in inglese si chiamano smear campaigns (to smear significa sporcare, infangare, macchiare), magari riprendendo vecchissime polemiche cadute nel dimenticatoio e rinverdirle. E’ una tecnica attuata in genere dai narcisisti patologici per smantellare in modo sistematico la reputazione, il buon nome, la credibilità, le relazioni personali di un’altra persona.  Ma ottima anche per richiamare l’attenzione su chi le mette in atto, come finto scoop, certi del fatto che i defunti non si possono difendere. Nel rigido schema comportamentale del narcisista, il mezzo più efficace per portare a termine questa impresa e assicurare la distruzione della vittima, è quello di ingaggiare le cosiddette “scimmie volanti” (termine tecnico usato dagli studiosi del settore) che si fanno portatori delle bugie, delle maldicenze, dei sospetti instillati in chi vi presta orecchio. La nostra è una società gravemente ammalata di narcisismo e lo si può vedere in tutti i settori, ivi compreso quello della cultura e della letteratura.

Salvatore Quasimodo ogni tanto è costretto a pagare di nuovo un Nobel che non gli fu mai perdonato dai suoi contemporanei, soprattutto da quelli che si rosero tutta la vita per averlo e mai lo ebbero. Relegato ancora oggi a poche paginette nelle antologie scolastiche delle superiori, quasi fosse un poeta minore, invece di andar fieri di un nome che ha portato all’Italia uno fra i nostri pochi Nobel per la letteratura, schiacciato fra le decine di pagine dedicate a Ungaretti, al non immenso Montale e al mediocrissimo Svevo, Quasimodo è sempre utile in qualche modo a quello scopo.

Vengo a sapere solo ieri di una pubblicazione che analizza il ruolo che Caterina Vassalini ebbe nella traduzione de Il fiore dell’Antologia Palatina, leggendone una recensione su un quotidiano locale. Recensione che, pur lodando e condividendo l’assunto di fondo, perlomeno ha il merito di essere abbastanza diplomatica rispetto ad altre, davvero vergognose nei confronti di Quasimodo che ho trovato in rete su altri (sospettosamente) numerosi quotidiani nazionali. Trovo di fatti tutta una serie di recensioni al volume, pronte a buttare altre vagonate di fango,  piene di cattiveria, sul poeta premio Nobel. E quasi tutte – mi pare siano tutte di uomini –  fanno appello a un’esibita forma di solidarietà di genere (oggi così fashion), in modo da titillare lo sdegno delle donne in quanto creature sfruttate.  Che poi, in Italia, mi pare che certe grida di sdegno sollevate dagli uomini a difesa delle donne siano molto spesso finalizzate ad altro, non certo a una vera difesa delle donne come protagoniste della cultura e della vita sociale. Tant’è vero che le discriminazioni seguitano eccome.

In sostanza, il suddetto libro, (che non ho letto e dunque qui parlo solo ed esclusivamente delle recensioni grondanti di lodi, alcune delle quali a tutta pagina) che è la tesi di specializzazione della giovanissima autrice, in cui vengono anche pubblicate delle lettere di Caterina Vassalini a Quasimodo, è presentato appunto dalla sua rampante autrice, (così infatti risulta tanto dalle trionfali recensioni sui quotidiani nazionali e da varie sinossi che ho visto) come uno scoop sul bieco sfruttamento che Quasimodo avrebbe messo in atto ai danni della Vassalini. Quasi, il fatto che Quasimodo si fosse appoggiato alle grandissime competenze di filologa classica della Vassalini, fosse una scoperta rivoluzionaria. Come se questo, invece, non gli facesse onore. Cosa che né l’uno né l’altra hanno mai nascosto. Lo sapevano tutti. Dov’è lo scoop? Oltretutto il volume è corredato di una corposa introduzione  della Vassalini, delle sue note e della comparsa del suo nome  sul frontespizio. Ma, a parte questa sua notevole presenza, mai fu un mistero il suo contributo all’accuratezza filologica della traduzione.

Purtroppo, prima di affermare certe cose, bisognerebbe confrontarsi con molte fonti, testimonianze, fatti incontrovertibili. Magari, anzi, ne sono sicura, la giovane autrice l’avrà fatto, ma non è questo il punto. Il punto sono le recensioni, usate come veicolo per sminuire ancora una volta la figura umana e artistica di Quasimodo. Ecco perché io qui mi riferisco – e lo ribadisco – solo e unicamente alle recensioni sui quotidiani. Recensioni di chi non ha conosciuto né l’uno né l’altra e dunque poco sa su come andarono le cose. O, se lo sa, finge di ignorarlo. Perché è il tono di questi articoli e il modo in cui interpretano volutamente l’argomento che mi ha colpita sgradevolmente.
L’articolone pubblicato su un grande quotidiano nazionale a firma di uno che nella vita fa lo scrittore, parla di vittima, silenzio, addirittura abuso a proposito di Caterina Vassalini! Ma quale vittima, ma quale silenzio, ma quali abusi!
Ecco, posso dirlo senza tema di smentita perché io conoscevo bene entrambi fin da bambina, dal momento che frequentavano casa, e incontrai la Vassalini in molte occasioni, dato che mio padre, Carlo Diano, e Quasimodo erano legati da profonda e duratura amicizia. La Vassalini, sua compagna ufficiale per molti decenni e fino alla morte di lui, era una donna di fortissimo carattere, (fortissimo, posso assicurarlo) grecista raffinata, grande intellettuale e protagonista della vita culturale veronese, inoltre autrice di varie pubblicazioni. Proprio l’ultima donna, per carattere e intelletto a prestarsi a sfruttamenti di sorta o a vivere nell’ombra di chicchessia, sia pur per amore.
Quasimodo il greco lo conosceva, certo non come lei, ma lo traduceva. La traduzione dei Lirici Greci fu condotta ben prima di incontrare la Vassalini e comunque appunto, lo scrupolo del Quasimodo traduttore lo spinse sempre a confrontarsi con grecisti illustri, fra cui Luciano Anceschi e mio padre stesso.

Il loro rapporto  e sodalizio nel lavoro e nella vita fu solido, duraturo e costruito su profonda affinità intellettuale e sancito da profondo affetto e grande ammirazione reciproca, anche se il poeta, cui piacevano molto le donne, ogni tanto si prendeva le sue “evasioni”, di cui – è chiaro – la Vassalini non era contenta, le prendeva però nel pacchetto di un rapporto con un uomo che non era affatto facile, ma per il quale nutriva amore e ammirazione. Ma erano cose momentanee, perché i rapporti più solidi li costruì con donne delle quali ammirava l’intelligenza e la cultura, con cui aveva un dialogo e un confronto intellettuale costante.

L’Antologia Palatina fu una collaborazione voluta e scelta da entrambi, che arricchiva entrambi, in cui Quasimodo univa la sua grandezza di poeta al rigore filologico della Vassalini. Che però, e sia ben chiaro, collaborò moltissimo alla traduzione ma non la fece da sola. Fu un lavoro veramente a quattro mani.
Entrambi ne ebbero dei vantaggi. Lui perché poté affidarsi con sicurezza al rigore filologico di lei e lei – che del resto aveva numerose proprie pubblicazioni alle spalle – perché sapeva di contribuire alla grande poesia e di lasciare un segno accanto al nome di lui. Lui non era filologo, lei non era poetessa, ma da questa unione nacquero splendide versioni poetiche.

Ovviamente, in una traduzione, soprattutto quando si parla di traduzioni poetiche di grandi poeti del passato, l’ideale è che la persona che traduce riunisca in sé le molte competenze necessarie: conoscenze storiche, letterarie, filologiche, linguistiche, sociali, talvolta filosofiche se necessario, e capacità poetica. E traduttori che abbiano insieme tutte queste capacità ve ne sono stati – rari, ma ve ne sono stati. Quello che mancava a Quasimodo era una conoscenza rigorosamente filologica del greco ma, proprio perché consapevole di questo, invece di affidarsi a traduzioni già fatte, volle affiancarsi a chi potesse davvero mostrargli gli aspetti e i significati  più riposti della lingua. In questo caso, dandone atto a chi glielo permise.
Mio padre, che era il grecista che era, apprezzava le traduzioni di Quasimodo, traduzioni che sono – e questo va ricordato – interpretazioni di un poeta. Saffo è la Saffo di Quasimodo, Alceo è l’Alceo di Quasimodo, ecc.
Certo, ha sempre dato fastidio che Quasimodo si sia battuto duramente per sostenere la tesi che i soli traduttori dei poeti dovrebbero essere i poeti. Tesi che sostengo io stessa.

Mi chiedo se, tutti gli autori dei maligni articoli in questione siano dei valenti traduttori o se abbiano dimestichezza con l’arte e il mestiere del tradurre. Soprattutto quando si tratta di traduzioni di grandi fatte da grandi. Mi chiedo se sarebbero altrettanto propensi a scoprire qualche altarino nascosto di certi noti personaggi viventi o ancora potenti  dopo la recente dipartita, aureolati di fama letteraria, che hanno prodotto traduzioni da lingue che conoscono poco e male, se non per nulla, ma che o le hanno condotte su traduzione in altra lingua dell’originale, oppure le hanno scopiazzate da altre preesistenti, o se le sono fatte fare da terzi SENZA farne menzione. A casa mia questa si chiama frode. Come mai di questi non si osa parlare? Io qualche esempio di prima mano ne conosco. Ad esempio quello di un tizio assai osannato, che ha una conoscenza veramente mediocre dell’inglese, tanto da prendere sonore cantonate, ma che ha dato alle stampe la traduzione di uno dei testi in assoluto più ostici, difficili e incomprensibili della letteratura inglese (ovviamente già magistralmente tradotto molti anni fa da un grandissimo e raffinatissimo anglista che era anche un poeta e anche da un’altra persona) presentandolo come novità. Un testo che gli stessi accademici inglesi hanno difficoltà a interpretare. Lo stesso tizio che si misura in traduzioni dal greco pur non essendo un grecista, di testi molto complessi ma già ampiamente tradotti e ritradotti. Di gente così non si osa dire nulla? Ma in fondo, questa è tutta gente mediocre che non dà poi così fastidio.

Io faccio la traduttrice letteraria da quasi 40 anni, sono figlia di uno dei maggiori traduttori dei classici, ho respirato il mestiere della traduzione fin da sempre. Credo di saper distinguere dove stia la frode e dove no. E qui non c’è alcuna frode, qui c’è solo un immenso amore per la poesia degli antichi, che spinse un Quasimodo, da giovane digiuno di latino e greco a impararli privatamente per leggere i classici nella loro lingua. Consapevole che non avrebbe mai avuto gli strumenti di un filologo, non esitò a cercare la collaborazione di chi lo era per rendere ai suoi amatissimi poeti greci la veste più nobile che potesse loro dare. E mai lo nascose. Questa si chiama onestà intellettuale, unita alla modestia di un grande.

Questa era gente che non andava pubblicando cose in giro solo per una forma di esibizionismo o mania di protagonismo, come molti oggi fanno. Questa era gente che viveva per la cultura, la passione del sapere e la diffusione della conoscenza. Certo, non esenti da debolezze umane, ma sicuramente non quella di sfruttare il prossimo a proprio vantaggio.
Ma – ed è qui la cosa risibile – questo grande scoop che il libro vorrebbe costituire, o che così viene presentato nelle recensioni – è in realtà la scoperta dell’acqua calda e va a ritirare fuori vecchissime polemiche nate, guarda caso, proprio dopo il Nobel, che gli intellettualetti italiani, soprattutto la (non)premiata ditta Moravia & Co. non gli perdonarono mai. E, da quella volta, ancora girano le discendenti di quelle prime scimmie volanti.
Perché, che la Vassalini, del resto menzionata nell’Antologia e autrice della corposa prefazione e delle note, avesse ampiamente aiutato Quasimodo nella traduzione, era cosa universalmente nota, mai nascosta da loro e liberamente voluta. Dove starebbe la novità?
Accostare la vicenda Quasimodo Vassalini ad altre – quelle sì di sfruttamento di donne vissute veramente nell’ombra –  riportate in una delle recensioni a firma di uno che per mestiere fa lo scrittore, è grottesco e non veritiero. Utilissime dunque queste recensioni per cercare di gettare ancora oggi fango sul povero Quasimodo e attirare l’attenzione su si sé usando il suo nome. Alla fine, anche se si tenta sempre di relegarlo nell’angolino delle punizioni, è sempre un grande nome che torna comodo.

Ricordo ancora molto bene come, un giorno che Quasimodo venne a pranzo a casa nostra, non moltissimo tempo dopo che gli fu conferito il Nobel,  con uno sguardo di profonda tristezza, disse a mio padre quanta amarezza provasse nel constatare l’ostilità e persino l’astio di cui si era trovato circondato in Italia già all’indomani del premio.  E lui, che era uomo mediterraneo e dotato di grande emotività, aveva le lacrime agli occhi. Non riusciva a capirne il motivo, a capacitarsene. E io, che ero una ragazzina, fui toccata in modo intensissimo nel vedere questo grande poeta soffrire così e ingiustamente per la gratuita cattiveria altrui. Solo perché la sua voce di poeta era stata onorata e ammessa fra i grandi.

Ecco, oggi è quella ragazzina che scrive queste righe.

Aggiungo anche che questi articoli non solo alterano la verità storica, ma con la scusa di voler rendere un buon servizio alla figura della Vassalini, la fanno invece passare per una povera donna che si fece usare dal letterato cattivone e sfruttatore (in uno di questi Quasimodo è addirittura definito “ladro”!) e accettò, perché  travolta dai propri sentimenti, quindi debole, di vivere nell’ombra dell’uomo famoso. Be’. non era affatto così. Tutto l’opposto.

Se io fossi Alessandro Quasimodo, che ha aperto il suo archivio e ha permesso alla giovane autrice di usare le lettere inedite della Vassalini al padre, per poi ritrovarsi in base ad esse un’immagine tale del padre, ecco, io chiederei un risarcimento danni. Non avendo letto il libro, ripeto, non so se e come veramente sia questa l’immagine che ne emerga, (mi auguro di no) e dunque su questo non mi esprimo, e forse non era questo l’intento della giovanissima autrice, ma sicuramente lo chiederei a tutti gli autori di queste recensioni che hanno colto la palla al balzo per dare del poeta un’immagine ignobile e ancora tentano di sminuirne l’opera, la figura e la poesia.

Inoltre se ne trae una grande lezione. Quando si è eredi e depositari del lascito intellettuale di un grande, si deve prestare un’infinita attenzione a che il materiale venga affidato a chi è in grado di farne buon uso. A chi ha l’esperienza e le conoscenze sufficienti per farlo. Si devono avere delle garanzie che quel materiale sarà usato per un onesto scopo, a vantaggio dell’autore, per far luce sulla sua opera e non a vantaggio di chi lo usa in modo discutibile o inesperto.

Il fatto è che non ci si fa grandi sminuendo la grandezza altrui. I piccoli diventano ancora più piccoli e i grandi più grandi.

(C)2019 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Sogno d’un’ombra. Una poesia di Carlo Diano

 

Boy by DOMENICO COLAO

Domenico Colao (Vibo Valentia 1881 – Roma 1943) 

 

Carlo Diano, nato il 16 febbraio 1902 scrisse questa poesia intorno al 1919-20 e la pubblicò poi nell’unica raccolta poetica da lui data alle stampe in vita, L’acqua del tempo, Società Anonima Editrice Dante Alighieri, 1933.

A differenza di quanto, pur così giovane temeva, e cioè che “la mia voce non lasci / eco alcuna nel mondo”, la sua voce è ancora presente e la sua eco risuona.

Domenico Colao, allievo di Fattori e grande pittore della sua terra, fu legato da profonda amicizia a Carlo Diano, tanto che fece un magnifico ritratto alla madre Caterina e gli donò un dipinto in cui ritraeva una scena di contadini calabresi sull’aia, soggetto che torna spesso nella sua pittura.

 

§ § § § § §

 

 

Dispogliato è il giardino di foglie

ma in tanta luce di sole

ha brividi occulti, speranze

d’un nuovo fiorire.

Quando verrà primavera

torneranno ancora sui rami

le roride gemme

e la fragrante vita;

così, così a ogni volgere d’anno.

Ma tu mio povero cuore,

chi sa quando venga la morte,

se palpiterai più

sotto la terra,

come il seme attendendo

novella primavera.

Chi sa che la tua stagione

sia unica al mondo

e, compiuta una volta,

non ritorni mai più.

Perché non posso capire

com’è che il mio sguardo insaziato

si spenga per sempre,

e la mia voce non lasci

eco alcuna nel mondo,

e una speranza più forte

d’ogni pensiero mi tiene

che anche “il sogno d’un’ombra”[1]

non passi mai più.

 

[1] “Sogno di un’ombra è l’uomo”. Sono le parole del verso di Pindaro, Pitica VIII, che Leopardi cita nello Zibaldone. (F. D.)

 

(C)2019 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

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