Il ministro Tanassi e Tutankhamun

La prossima mostra di Tutankhamun che si terrà a Venezia in autunno per celebrare i 100 anni della scoperta, mi ha fatto ripensare alla magnifica mostra di Londra del 1972 che ebbi la fortuna di visitare. Ma, è da dire, in bizzarre circostanze.

La Londra del 1972 – una Londra ormai entrata nell’immaginario collettivo come la swinging London – fu travolta da un’ondata di rinnovata passione per l’Egitto grazie alla grandiosa mostra dedicata al faraone Tuthankhamun – The Treasures of Tuthankhamun – che si tenne al British Museum per celebrare i 50 anni della sua scoperta.
Fu la prima volta che tanti reperti – ben 50 – uscirono dall’Egitto per mostrare al mondo il lascito glorioso del faraone bambino, e vi figurava persino la Stele di Rosetta, la stele che aveva permesso a Champollion di decifrare il mistero dei geroglifici.
A quell’epoca vivevo a Londra, dove lavoravo come assistente alla collezione fotografica del Courtauld Insitute e insegnavo Storia dell’Arte Italiana all’Istituto Italiano di Cultura.
Tutta la vicenda della spedizione e della scoperta di Howard Carter e di Lord Carnarvon mi era ben nota fin da bambina, grazie a una pubblicazione dell’epoca che documentava l’intera serie di circostanze con dovizia di foto originali, che mio padre possedeva e che non finivo di guardare e riguardare.
Ci si può immaginare quindi con che entusiasmo ed emozione accolsi la notizia. Ma c’era un neo: per entrare era necessario fare una fila di almeno 6 ore e così fu per tutti i 6 mesi della mostra, che ebbe 1.700.000 visitatori.


Fu dunque un caso davvero fortunato che l’Ambasciata italiana mi chiedesse di fare da guida al ministro della Difesa Mario Tanassi e al suo entourage, che in quei giorni si trovava a Londra per una qualche occasione ufficiale.
La telefonata per organizzare la visita mi arrivò al Courtauld e l’attaché mi disse che la visita era fissata due giorni dopo alle 15. Mi disse anche che il ministro, il suo entorurage e alcune persone dell’Ambasciata sarebbero prima andati a pranzo da Carlo’s, un famosissimo e costosissimo ristorante italiano e mi chiese di recarmi lì, ad aspettare che finissero e poi recarmi con loro al British Museum.
Io ero molto giovane, ma francamente la mia dignità mi impediva di aspettare che questi tizi finissero di mangiare, come io fossi un lacchè e risposi che li avrei invece incontrati alle 15 all’ingresso del Museo.
Devo dire che saltai con immensa soddisfazione le centinaia di persone in fila, salii la gradinata e alle 15 in punto ero sotto il grande pronao.
Dopo poco arrivò anche il direttore del Museo, che veniva a porgere un breve saluto al ministro straniero.
Passava il tempo e nessuno si vedeva. Col trascorrere dei minuti, Sir John Wolfenden, il direttore, aveva un’aria sempre più seccata. Vale a dire che si irrigidiva sempre più. C’è da dire che chi ricopre la carica di direttore di un’istituzione come il British Museum, gode di un’enorme autorità e autorevolezza e non può perdere tempo con un qualche ministrucolo di un qualche staterello di secondaria importanza. Non che i suoi tratti impassibili mostrassero il disappunto, ma gli occhi socchiusi lasciavano intravedere un disdegno del tutto muto.
Finalmente, alle 15.20, ecco arrivare quattro macchinoni neri dell’Ambasciata, con tanto di bandierine, da cui cominciarono a uscire il ministro, la moglie, e il personale dell’Ambasciata con mogli a seguito.
Sir John andò incontro al ministro, gli strinse frettolosamente la mano e se ne andò.
Io mi presentai, strinsi le mani a tutti e ci avviammo. Rimasi un po’ interdetta e divertita nel vedere tutte le signore vestite con abiti da sera, coperti di lustrini, parate di gioielli come fossero a un ricevimento, un abbigliamento un po’ fuori luogo data l’ora. Anche gli uomini indossavano abiti molto formali, qualcuno esibiva medaglieri, onorificenze, mancavano solo le feluche. Il tutto aveva un sapore vagamente felliniano.
Mentre entravamo, uno dei signori dell’Ambasciata mi si avvicinò e mi chiese sottovoce di acquistare delle copie del catalogo (che di suo era costoso) e di distribuirle, ché poi mi avrebbero rimborsato. E come no?
A parte che io ero una ventiquattrenne squattrinata, di sicuro non avevo tutti quei soldi dietro e inoltre conoscevo bene i miei connazionali per sapere che non li avrei mai rivisti.
Ma poi, che razza di richiesta era? Li comprassero loro.
Comunque, l’allestimento della mostra era magnifico. L’ingresso era stato allestito come una mastaba, tutta in ombra, con solo qualche luce fioca, per riprodurre l’atmosfera originale.
Appena la vide, la moglie del ministro cominciò a dire: <<Oddio, oddio, io soffro di claustrofobia, sbrighiamoci, sbrighiamoci!>> e tutti affrettarono il passo.
Comunque la visita proseguì. Io, che avevo visto mille volte le foto di quegli oggetti, li ammiravo ora con il batticuore dal vivo, ma non descriverò le emozioni che provai. Soprattutto di fronte alla cuffietta e ai guantini del faraone neonato, che parlavano della tenerezza e intimità del gesto di chi li aveva deposti insieme a tutti gli altri tesori.
Mentre descrivevo la storia, le funzioni dei reperti, la loro bellezza, di fronte a delle sedie e a un tavolino magnificamente intarsiati, la moglie del ministro, per un attimo dimentica della sua claustrofobia, esclamò: <<Che ne dici caro, non sarebbe bellissimo se potessimo metterli in casa?>> Io la guardai allibita, ma poi rimasi davvero a bocca aperta e senza parole quando il ministro osservò: <<Ma no, cara, stonerebbero. Il nostro arredamento è tutto Luigi XV!>>
<<Hai ragione caro>>, convenne la signora.
E io pensai: ma questi sono fuori dal mondo… cioè, ma davvero?


Comunque poi, alla fine, delle signore dell’Ambasciata mi ringraziarono, dicendo che ero stata bravissima, che ero molto carina e simpatica e perché non andavo in Ambasciata a trovarli?
<<Se mi invitate>>, dissi, <<verrò volentieri.>>
Naturalmente non ricevetti mai alcun invito, però, dopo una settimana, mi arrivò una busta con dentro una banconota da 5 sterline, inviata da qualcuno in Ambasciata come compenso. Una miseria perfino nel 1972.
Ovviamente la rimandai indietro, offesa dalla volgarità di quel gesto.
Non so, mandatemi un mazzo di fiori, una scatola di cioccolatini, un semplice biglietto di ringraziamento, ma una misera banconota in una busta se la potevano tenere.
Fu tutto così volgare, così misero, così becero e così indicativo di quella che era ed è la levatura dei politici italiani.
Non mi meravigliò sapere, qualche anno dopo, che Tanassi era stato indagato e condannato per corruzione per l’affare Lockheed.
Però almeno erano tempi in cui ministri corrotti venivano indagati, condannati e banditi. Oggi c’è chi si impegola con la vendita internazionale di armi e nessuno lo tocca.


Francesca Diano

(C)2022 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Pubblicità

Francesca Diano. Note di traduzione

Queste note nascono dalla mia esperienza ormai quasi quarantennale di traduttrice letteraria, in particolare per quel che riguarda la traduzione della poesia e accompagnano l’Antologia delle opere del grande poeta irlandese James Harpur che spero di dare presto alle stampe. Dal mio lavoro su molti poeti di area anglofona, ma soprattutto su quello della sua poesia, che dura ormai da quindici anni, ho imparato moltissimo e forse ho anche capito qualcosa di più sull’essenza più profonda della poesia.

Voynich Manuscript | Manuscriptum
Pagine del misterioso Manoscritto Voynich, la cui scrittura non è stata mai deifrata.

Per me, tradurre è – come nel quesito posto dal kōan zen – cercar di trovare il suono d’una sola mano. Un paradosso, forse un’impossibilità, se sono due i poli che interagiscono – il testo e il suo specchiarsi in un’altra lingua – due mani che, unendosi, generano una terza entità, prima fluttuante solo nel regno del possibile, cui non si può accedere aggrappandosi a forzate teorie accademiche sulla traduzione, ma solo con l’umile pratica. Quella terza entità è il suono del silenzio che si crea in quel rispecchiamento. Eppure, è qualcosa che mi viene naturale. Forse perché ho imparato osservando un Maestro, e ho respirato l’arte del tradurre fin da bambina.

Il suono d’una sola mano è un silenzio colmo; così è il silenzio del testo originale a colmare di sé la sua traduzione. Tradurre poesia è impresa quasi disperata. Quasi. Se la poesia è la ricerca, che mai può giungere a mèta, d’una parola che tutto contenga, manifesti ed esaurisca, insomma dell’inesprimibile; se il suo orizzonte è sempre al di là d’un altro orizzonte, legata indissolubilmente al ‘sentimento’, oltre che alla struttura, della lingua in cui viene generata e prende forma, e all’intrecciarsi inestricabile d’esperienza conoscenza vissuto inconscio visioni fantasmi suoni interni del poeta, come si potrà trovare forma altrettanto fedele, o anche solo evocatrice di quello, in ogni senso, straniero dire? Travasare un inesprimibile in un altro inesprimibile? Eppure, ci si avventura a farlo. Per amore, passione, fiducioso e sconsiderato entusiasmo. Ma soprattutto, almeno per me, per condividere la felicità di qualcosa che mi ha resa maggiormente me stessa, che ha aperto mente, cuore e spazi prima ignoti.

Tradurre non può che essere un atto d’amore. Con una chiosa necessaria: tradurre, per me, è conoscere. Del resto, anche l’amore lo è. Non è forse l’amore il più grande traduttore dell’altro, e di noi stessi?

Un’artigiana della traduzione quale io sono, impara che è questo il mezzo più diretto ed efficace per penetrare all’interno dei meccanismi della creazione, osservarli, percepirli nel loro divenire. Sotto la superficie dell’opera compiuta, com’essa appare all’esterno, pulsa un tessuto segreto, che la costituisce e la sostiene. È il regno cui si ha accesso traducendo. Questo sguardo furtivo, arricchito di conoscenza, privilegio d’ogni traduttore, va fatto scivolare fino a raggiungere la propria interità, perché la permei e la metta al servizio dell’autore che si è scelto. Si dev’essere generosi di sé. Parlo di scelta, perché è bene, soprattutto nel tradurre testi poetici, accostarsi a poeti che si amano, che si conoscono, che si sono seguiti a lungo, o dei quali ci si è improvvisamente innamorati. Così, forse si potrà sperare d’avvicinarsi alla loro voce e di dar loro, nella nostra lingua, un suono che non strida, non entri in conflitto o, peggio ancora, non li tradisca del tutto. Come talvolta purtroppo avviene.

Si deve lasciare rispettosamente uno spazio tra l’originale e l’opera che un traduttore di poesia compie. Uno spazio veritiero. L’autentica traduzione è quello spazio stesso; il suono d’una sola mano. Tuttavia, è indispensabile un accurato lavoro filologico ed ermeneutico, senza il quale ogni traduzione d’un grande testo sarà fallimentare. Però, una volta compiuto questo lavoro, lo si dovrà dimenticare e lasciare che il testo si impadronisca di te e ti modifichi. Come se, nel momento in cui ci si avvicina ad esso, si vivesse una metamorfosi e si dimenticasse d’essere ciò che si è per lasciarsi catturare, per diventare il testo stesso, il poeta stesso. Eppure, anche questo può accadere solo in parte, perché il testo e il suo autore incontrano l’universo del traduttore, che non può che far da filtro, da setaccio, oltre che da crogiuolo. Ed ecco perché due traduzioni d’uno stesso testo – intendo due buone e dignitose traduzioni – non potranno mai essere uguali. Un po’ come, nel generare dei figli, due patrimoni genetici si uniscono creando combinazioni sempre diverse.

E mai come per un poeta quale è Harpur, tutto questo è vero. La sua vastissima cultura, i numerosissimi riferimenti, talvolta solo suggeriti, il sottofondo filosofico, rendono necessario un complesso lavoro filologico anche se, fortunatamente, il poeta è sempre generosamente pronto a fugare ogni dubbio possa sorgere. Ma poi, il resto, quello che deve dare al poeta voce il più autentica possibile nella tua lingua, tocca al traduttore e non al filologo.

In quest’antologia, ho cercato di rendere la grande varietà dei temi e degli stili di Harpur, che nondimeno presentano una straordinaria coerenza e una continuità in costante evoluzione.

Ho ritenuto importante aggiungere integralmente anche due testi teorici: l’uno, una conferenza tenuta da Harpur su quello che egli definisce Il viaggio del poeta, l’altro, Bere alla fonte. Un’esplorazione dell’immaginario poetico, Lectio Magistralis tenuta a Padova nel maggio 2017. A questi ho aggiunto l’intervista da lui rilasciata per la Poetry Ireland Review, al suo grande amico e notissimo poeta John F. Deane, da cui ho tratto, in questa Introduzione, alcune citazioni. Ho infatti ritenuto che non fossero solo importanti per comprendere la sua poetica, ma anche perché testimoniano la sua profonda consapevolezza come artista, la cui arte è intensamente meditata quale espressione coerente di una visione del mondo. Sono dunque preziosi strumenti di una più profonda comprensione della sua personalità e del suo percorso poetico. Ho infatti sempre pensato che nessuno, meglio di un poeta o di un artista, possa parlare con maggior competenza e conoscenza delle proprie opere, e dunque è giusto ascoltare sopra ogni altra cosa la loro voce.

Tradurre l’opera di Harpur non è cosa semplice: anzitutto perché il suo linguaggio, benché limpidissimo e mai scontato, è intessuto di riferimenti, di stratificazioni storico-culturali, di echi delle tante tradizioni culturali e letterarie che in lui si fondono e, ancora, per la musicalità ed estrema preziosità della parola e per l’arte con cui egli costruisce i testi: allitterazioni, assonanze, rime infrequenti (e perciò particolarmente significative), il ricorso alla metrica greca e latina o a quella della tradizione bardica.

Con umiltà ho cercato di udire in tutto questo il suono d’una sola mano, la sua.

Francesca Diano

Copyright 2021 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Louise Glück e la catarsi tragica. Cinque poesie tradotte da Francesca Diano.

Chi è Louise Glück, Premio Nobel Letteratura 2020 | Donne Magazine

Sono davvero felice che il Nobel sia andato a questa grandissima poetessa americana. Davvero grande, per la profondità della sua opera, per la limpidezza (non semplicità, quella è solo apparente) del linguaggio, un mare di cristallo sotto cui respira un’anima potente, per la sensibilità con cui affronta temi universali e difficili, per la grande familiarità che ha col mito classico, che in lei rivive e fruttifica. Ho letto pareri di vario tipo sulla sua poesia; chi la definisce dura, che non fa sconti, chi la definisce semplice seppur ricca di contenuti, chi definisce la sua lingua diretta, chi ancora antiquata e tradizionalista. Sicuramente qualcosa di questo è in parte vero – a parte la semplicità, che proprio non è nelle sue corde di anima tormentata e cristallina insieme, né nella sua lingua. E non certo l’essere antiquata e tradizionalista. Forse si dimentica che, per fare grande poesia, non c’è bisogno di usare paroloni obsoleti o arcaicizzanti, né di essere oscuri e incomprensibili, come tanti poeti italiani, anche ritenuti grandi suppongono, facendo della poesia un vuoto esercizio autoreferenziale e narcisista, parimenti non è limitandosi a descrivere in modo asettico “la cosa”, invece di pagarla col sangue, o di perdersi in vuoti sperimentalismi fini a se stessi, ma è necessario attingere alla fonte profonda del Sé, come lei fa, elaborare una propria mitologia interiore creatrice del mondo, capace di riscriverlo. E’ questa la differenza fra un grande poeta e un poeta mediocre. Anzi, io trovo che proprio quella sua classicità, quella sua misura aurea della forma, in così grande contrasto con temi estremamente drammatici e forti, sia la sua cifra innovativa.

Direi che, da questo punto di vista, Frammento arcaico sia assolutamente paradigmatico. Pur se il testo affonda le radici in uno dei più dolorosi nodi della sua personalità, quel difficile rapporto con se stessa e con la propria identità, un conflitto sfociato poi nell’anoressia nervosa, che le è costato molti anni di analisi, in particolare il verso – Non puoi odiare la materia e amare la forma – non è solo da intendersi come il rivelare il noto conflitto di chi è affetto da questa malattia, fra il rifiuto del corpo e la sublimazione ossessiva, perfezionista della propria immagine, ma diviene metafora del suo fare poetico. Lo scontro fra pulsioni interiori potenzialmente distruttive e l’aspirazione a dar loro una forma strutturata e unificatrice. Credo sia questo un possibile filtro di lettura per comprendere quella che apparentemente è una forma classica – analogamente alla ricerca di risposte nel nutriente serbatoio del mito – e la materia della sua poesia, che è tragica. Insomma, la tecnica è quella della catarsi tragica, come Carlo Diano insegna, che nasce come incontro fra tèchne alypias, tecnica per la liberazione del dolore, ideata da Antifonte Sofista, e la praemeditatio futurorum malorum dei Cirenaici. Insomma, una forma di meditatio mortis, e in effetti il tema della morte, fisica e simbolica, è uno dei suoi temi ricorrenti. Da questo punto di vista, la poesia della Gluck è una forma di catarsi. E, come tale, travalica la dimensione personale e si fa universale.

Grandissima e famosissima, eppure in Italia sono uscite solo due sue opere, curate da quel raffinato anglista che è Massimo Bacigalupo, ma presso due piccolissimi editori. A dimostrazione che, quando si propone un grande autore straniero alle case editrici italiane, magari premiatissimo e famoso nel resto del mondo, ma da noi sconosciuto, invece di ringraziarti e aprirgli le porte, ti snobbano, proprio con la scusa che a loro è ignoto. Salvo poi scoprire anni dopo che magari ha avuto il Nobel e avrebbero potuto averlo in catalogo per primi.

Io ne conoscevo dei testi, ma non mi sono mai misurata con la traduzione, così, in questa occasione, desidero recarle omaggio con quattro testi da me scelti e tradotti.

F. D.

*********

PAESAGGIO ABORIGENO

Stai pestando tuo padre, disse mia madre,

ed in effetti stavo esattamente al centro

di un tappeto erboso, così curato che avrebbe potuto

essere la tomba di mio padre, pur se non v’era lapide a segnarla.

Stai pestando tuo padre, ripeté,

più forte questa volta, il che mi parve strano,

poiché era morta; l’aveva ammesso anche il medico.

 Mi spostai leggermente di lato, fin dove

finiva mio padre e mia madre iniziava.

Il cimitero era silenzioso. Vento soffiava tra gli alberi;

sentivo un suono flebile di pianto a molte file di distanza,

e, più oltre, il guaito di un cane.

Infine i suoni tacquero. Mi venne in mente

che non ricordavo d’essere stata condotta lì,

in quello che ora pareva un cimitero, benché potesse essere

solo nella mia mente un cimitero; forse era un parco, o se non un parco,

un giardino, o una pergola, profumata, ora notavo, di rose –

douceur de vivre colmava l’aria, la dolcezza del vivere,

come si dice. A un certo punto,

 

mi resi conto d’essere sola.

Dov’erano le altre,

le cugine e mia sorella, Caitlin e Abigail?

 

La luce stava ormai scemando. Dov’era l’auto

che ci aspettava per portarci a casa?

 

Cercai allora qualche alternativa. Avvertii

crescere l’impazienza, direi approssimarsi l’ansia.

Infine, in lontananza, scorsi un trenino,

fermo, sembrava, dietro del fogliame, il controllore

poggiato a una portiera, fumava una sigaretta.

 

Non si scordi di me, gridai mentre correvo

superando molte tombe, molti padri e madri–

 

Non si scordi di me, gridai quando infine lo raggiunsi.

Signora, disse, indicando i binari,

certo si rende conto che questo è il capolinea, i binari non vanno oltre.

Le sue parole erano dure, eppure gli occhi erano gentili;

questo m’incoraggiò a insistere di più.

Ma ritornano indietro, dissi e gli feci notare

la loro robustezza, come ancora avessero in sé molti di quei ritorni.

 

Sa, disse, il nostro è un lavoro difficile: ci confrontiamo

con tanto dolore e delusione.

Mi guardò con crescente franchezza.

Un tempo ero come lei, aggiunse, innamorato dell’agitazione.

 

Allora gli parlai come si parla a un caro amico:

Che le è successo, dissi, poiché era libero di andarsene,

non desidera tornare a casa,

di rivedere la città?

 

È questa la mia casa, disse.

La città – la città è dove io scompaio.   

 

  

Aboriginal Landscape

You’re stepping on your father, my mother said,

and indeed I was standing exactly in the center

of a bed of grass, mown so neatly it could have been

my father’s grave, although there was no stone saying so.

You’re stepping on your father, she repeated,

louder this time, which began to be strange to me,

since she was dead herself; even the doctor had admitted it.

I moved slightly to the side, to where

my father ended and my mother began.

The cemetery was silent. Wind blew through the trees;

I could hear, very faintly, sounds of  weeping several rows away,

and beyond that, a dog wailing.

At length these sounds abated. It crossed my mind

I had no memory of   being driven here,

to what now seemed a cemetery, though it could have been

a cemetery in my mind only; perhaps it was a park, or if not a park,

a garden or bower, perfumed, I now realized, with the scent of roses 

douceur de vivre filling the air, the sweetness of  living,

as the saying goes. At some point,

it occurred to me I was alone.

Where had the others gone,

my cousins and sister, Caitlin and Abigail?

By now the light was fading. Where was the car

waiting to take us home?

I then began seeking for some alternative. I felt

an impatience growing in me, approaching, I would say, anxiety.

Finally, in the distance, I made out a small train,

stopped, it seemed, behind some foliage, the conductor

lingering against a doorframe, smoking a cigarette.

Do not forget me, I cried, running now

over many plots, many mothers and fathers 

Do not forget me, I cried, when at last I reached him.

Madam, he said, pointing to the tracks,

surely you realize this is the end, the tracks do not go further.

His words were harsh, and yet his eyes were kind;

this encouraged me to press my case harder.

But they go back, I said, and I remarked

their sturdiness, as though they had many such returns ahead of them.

You know, he said, our work is difficult: we confront

much sorrow and disappointment.

He gazed at me with increasing frankness.

I was like you once, he added, in love with turbulence.

Now I spoke as to an old friend:

What of  you, I said, since he was free to leave,

have you no wish to go home,

to see the city again?

This is my home, he said.

The city — the city is where I disappear.

Ognissanti

Ancora questo paesaggio si va componendo.

Le colline s’oscurano. I buoi

dormono nel loro giogo azzurro,

i campi sono stati

ripuliti, i fasci

uniformemente legati e accatastati sul bordo della strada

fra le potentille, mentre la luna dentata si leva:

Questa è la brullità

del raccolto o della pestilenza.

E la moglie che si sporge alla finestra

la mano tesa, come a pagare,

e i semi

distinti, d’oro, chiamano

Vieni qui

Vieni qui piccolino

E l’anima striscia fuori dall’albero.   

 

All Hallows

 

Even now this landscape is assembling.

The hills darken. The oxen

sleep in their blue yoke,

the fields having been

picked clean, the sheaves

bound evenly and piled at the roadside

among cinquefoil, as the toothed moon rises:

This is the barrenness

of harvest or pestilence.

And the wife leaning out the window

with her hand extended, as in payment,

and the seeds

distinct, gold, calling

Come here

Come here, little one

And the soul creeps out of the tree.

Frammento arcaico

 

Stavo cercando di amare la materia.

Attaccai un biglietto sullo specchio:

Non puoi odiare la materia e amare la forma.

 

Era una bella giornata, seppur fredda.

Questo, per me, fu un gesto bizzarramente emotivo.

 

……. la tua poesia:

tentai, ma non potei.

 

Attaccai un biglietto sul primo biglietto:

Grida, piangi, colpisciti, stracciati le vesti–   

 

Lista delle cose da amare:

terra, cibo, conchiglie, capelli umani.

 

……. diceva

eccesso di cattivo gusto. Allora

stracciai i biglietti.

AIAIAIAI

gridò lo specchio nudo.

 

Archaic Fragment

I was trying to love matter.

I taped a sign over the mirror:

You cannot hate matter and love form.

It was a beautiful day, though cold.

This was, for me, an extravagantly emotional gesture.

…….your poem:

tried, but could not.

I taped a sign over the first sign:

Cryweep, thrash yourselfrend your garments

List of things to love:

dirt, food, shells, human hair.

.   …… said

tasteless excess. Then I

rent the signs.

AIAIAIAI cried

the naked mirror.

Mito di devozione

 

Quando Ade decise che amava la fanciulla

creò per lei un duplicato della terra,

uguale in tutto, fin nei prati,

ma con l’aggiunta di un letto.

 

Tutto uguale, compresa la luce,

perché sarebbe stato duro per una fanciulla

passare tanto in fretta dalla luce splendente alla totale tenebra.

 

A gradi, pensò, avrebbe inserito la notte,

dapprima come ombre di foglie ondeggianti.

Poi la luna, le stelle. Poi né luna, né stelle.

Che Persefone vi si abitui pian piano.

Alla fine, pensò, lo troverà rassicurante.

Una replica della terra

solo che qui v’era amore.

Non vogliono tutti amore?

 

Attese molti anni,

costruendo un mondo, osservando

Persefone nel prato.

Persefone, che odorava, assaporava.

Se hai un appetito, pensò,

li hai tutti.

 

Forse che ognuno non vuol sentire nella notte

il corpo amato, bussola, stella polare,

ascoltare il quieto respiro che dice

sono vivo, che significa anche

che tu sei viva perché mi ascolti,

sei qui con me. E quando si gira l’uno

anche l’altra si gira–

 

Questo sentiva, il signore delle tenebre

guardando il mondo che aveva

creato per Persefone. Non gli venne mai in mente

che lì non vi sarebbe più stato un odorare,

e certamente non più un mangiare.

 

Senso di colpa? Terrore? Paura dell’amore?

Queste cose non poteva immaginarle;

non le immagina mai nessun amante.

 

Sogna, si chiede come chiamare questo luogo.

Dapprima pensa: Il Nuovo Inferno. Poi: Il Giardino.

Infine, decide di chiamarlo

Fanciullezza di Persefone.

 

Una morbida luce si leva sopra il prato,

dietro il letto. La prende fra le braccia.

Vuole dirle ti amo, nulla ti può ferire

 

ma pensa

che è una bugia, così alla fine dice

sei morta, nulla ti può ferire

che a lui sembra

un inizio più promettente, più vero. 

A Myth of Devotion

 

When Hades decided he loved this girl
he built for her a duplicate of earth,
everything the same, down to the meadow,
but with a bed added.

Everything the same, including sunlight,
because it would be hard on a young girl
to go so quickly from bright light to utter darkness

Gradually, he thought, he’d introduce the night,
first as the shadows of fluttering leaves.
Then moon, then stars. Then no moon, no stars.
Let Persephone get used to it slowly.
In the end, he thought, she’d find it comforting.

A replica of earth
except there was love here.
Doesn’t everyone want love?

He waited many years,
building a world, watching
Persephone in the meadow.
Persephone, a smeller, a taster.
If you have one appetite, he thought,
you have them all.

Doesn’t everyone want to feel in the night
the beloved body, compass, polestar,
to hear the quiet breathing that says
I am alive, that means also
you are alive, because you hear me,
you are here with me. And when one turns,
the other turns—

That’s what he felt, the lord of darkness,
looking at the world he had
constructed for Persephone. It never crossed his mind
that there’d be no more smelling here,
certainly no more eating.

Guilt? Terror? The fear of love?
These things he couldn’t imagine;
no lover ever imagines them.

He dreams, he wonders what to call this place.
First he thinks: The New Hell. Then: The Garden.
In the end, he decides to name it
Persephone’s Girlhood.

A soft light rising above the level meadow,
behind the bed. He takes her in his arms.
He wants to say I love you, nothing can hurt you

but he thinks
this is a lie, so he says in the end
you’re dead, nothing can hurt you
which seems to him
a more promising beginning, more true.

Da Averno, 2006.

Fine d’estate

Dopo che ogni cosa mi fu venuta in mente,

mi venne in mente il vuoto.

V’è un limite

al piacere che ho avuto nella forma –

in questo non sono come te,

non ho sollievo in un altro corpo,

non ho bisogno

di rifugi che mi siano esterni-

Mia povera ispirata

creazione, sei

non altro che distrazione, infine,

mera decurtazione; sei

come me troppo piccola alla fine

per soddisfarmi.

E poi così decisa-

esigi un pagamento

per scomparire,

tutto pagato in qualche luogo della terra,

qualche souvenir, come un tempo fosti

ricompensata per la fatica,

poiché lo scriba lo si paga

con l’argento, il pastore con l’orzo,

benché non sia la terra duratura, né

questi piccoli frammenti di materia-

Se tu aprissi gli occhi

mi vedresti, vedresti

la vacuità del cielo,

che si rispecchia sulla terra, i campi

vuoti di nuovo, senza vita, innevati,

poi luce bianca

non più camuffata da materia.

End of Summer

After all things occurred to me,

the void occurred to me.

There is a limit

to the pleasure I had in form –

I am not like you in this,

I have no release in another body,

I have no need

of shelter outside myself –

My poor inspired

creation, you are

distractions, finally,

mere curtailment; you are

too little like me in the end

to please me.

And so adamant –

you want to be paid off

for your disappearance,

all paid in some part of the earth,

some souvenir, as you were once

rewarded for labor,

the scribe being paid

in silver, the shepherd in barley

although it is not earth

that is lasting, not

these small chips of matter –

If you would open your eyes
you would see me, you would see

the emptiness of heaven

mirrored on earth, the fields

vacant again, lifeless, covered with snow –

then white light

no longer disguised as matter.

.

 Per la traduzione (C)2020 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

James Harpur – San Simeone Stilita, a cura di Francesca Diano

thumbnail_1455 -

Foto di © Dino Ignani

HARPUR SAN SIMEONE

James Harpur  San Simeone Stilita, testo a fronte, a cura di Francesca Diano, Proget Edizioni, 2017

In occasione della presenza in Italia di James Harpur, a fine maggio 2017, che ha tenuto, per la prima volta nel nostro paese, una serie di incontri e conferenze, esce l’elegante plaquette con il lungo poemetto in quattro parti San Simeone Stilita, edito da Proget Edizioni e da me curato. Insieme a questo testo, sto lavorando alla ricca antologia Il vento e la creta – selected poems, 1993 – 2016, che raccoglie testi scelti dalle otto raccolte fino ad ora pubblicate e alcuni testi in prosa. James Harpur, un poeta ormai considerato fra i maggiori del nostro tempo a livello internazionale, ma che, in Italia, non ha ancora la fama che merita.

Il poemetto di circa 600 versi, è dedicato alla bizzarra, affascinante figura di San Simeone Stilita. Ne propongo qui la prima parte, con un breve estratto del mio testo introduttivo.

F.D.

***************

“La via in su e la via in giù sono una e la medesima”[1]. E veramente il basamento della colonna da cui clama lo Stilita di James Harpur potrebbe recare incise le parole di Eraclito, poiché quella colonna, che vorrebbe essere una verticale via di fuga dal mondo, ma si rivela vano, illusorio abbaglio, non è vettore unidirezionale verso l’invisibile – ascesa dall’umano al divino, dalla materia allo spirito – ma percorso inverso, anche, dal divino all’umano, ed è, allo stesso tempo, via orizzontale ché, nella tensione che tra quelle polarità si crea, vibra, e questa vibrazione ne dissolve i contorni, fino a sfarli in un alone luminescente. Una vibrazione che si dilata, in onde centrifughe, ad abbracciare lo spazio circostante, permeandolo, inglobandolo.

Fu questa, forse, l’origine dell’attrazione magnetica che colonna e Stilita, non separabile binomio, esercitarono allora, seguitarono ad esercitare dopo la sua morte, ed esercitano, se la sua particolare forma di fuga dal mondo ebbe più di un centinaio di imitatori, ancora fino a metà del XIX secolo, mentre Alfred Tennyson scrisse un poemetto di duecento versi – in realtà assai critico e ironico – sull’anacoreta e Luis Buñuel, nel 1964, girò un film, Simòn del desierto, Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia. In entrambi, l’immagine di Simeone è ambigua e contraddittoria; ma questo non deve meravigliare, ché ambiguo e contraddittorio è il rapporto di Simeone con sé stesso, col proprio Dio e con le sue creature.

La colonna, fuga e piedistallo, da lui scelta come distacco-separazione dal mondo e come diretta via d’accesso all’invisibile, è essa stessa  contraddizione, anzi, è un paradosso. In fondo non è che un supporto di pochi metri; nulla rispetto all’immensa distanza – non certo solo fisica – fra terra e cielo. Così il Simeone di Harpur anela negando, rifiuta ciò di cui ha sete, cieco di fronte all’essenza stessa di quanto desidera, s’illude di non dover fare i conti col mondo cui appartiene. A tal punto vi appartiene, da sentirsi costretto a operare una rimozione, un’escissione cruenta, di cui parla in termini chirurgici.

Per quanto Simeone si allontani dalla terra, dalla materia che ricusa con tutto l’essere, per quanta distanza ponga tra sé e la realtà, per quanto tenti, accrescendo sempre più l’altezza del suo trampolino, di farsi possessione di Dio oltre un cielo, per lui, deserto quanto il deserto di rocce e sabbia, lo Stilita è prigioniero di un inganno, di un feroce equivoco. E più Simeone nega il suo corpo (parte di quel mondo fisico da cui fugge), più quel corpo esercita una furiosa attrazione sui suoi seguaci. Il suo occhio, che rifiuta di abbracciare la sfera dell’evento per perdersi in quella della forma, se ne stacca e si solleva verso il vuoto, cercando risposta a una domanda improponibile. La crudeltà del suo auto-inganno è tanto più corrosiva, quanto più Simeone trascura l’impossibilità di eliminare uno dei due poli, la tensione dai quali è generata è la vita stessa. Il Simeone di Harpur non vede, se non alla fine, che la sua colonna è inutile; il cielo è qui, Dio è qui, su quella terra che lui si rifiuta di sfiorare, in mezzo a quell’umanità da cui fugge. Inseguito.

Non si dà forma senza evento, né evento senza forma. Non si accede al divino se non passando attraverso l’uomo. Né si accede all’uomo senza fare i conti col Sacro. L’evento primario, per ogni cristiano, è Cristo incarnato. Tu neghi la carne, neghi l’uomo, e neghi Cristo, ne fai una favoletta. Trascendere è possibile solo a condizione di accettare questa verità, e difatti, in tutto il testo, mai Simeone si rivolge altri che a Dio; solo negli ultimi tre versi, dopo l’avvenuta catarsi, nomina Cristo:

Ciascuno è Cristo

Che solo cammina fra campi di grano

O lungo il mare della Galilea.

Solo. La visione che Simeone ha dell’uomo è finalmente quella di Cristo. Solo, ma non separato. Cristo è nella relazione che dell’umanità fa una. È quella relazione. Simeone lo comprende infine quando l’amore di coloro che lo soccorrono e lo riportano in vita, dopo la quasi-morte, cui come giudice spietato si autocondanna, gli rivela da quale profonda tenebra originasse il suo errore, quando, superato il proprio abbaglio, riconosce negli altri, e dunque in sé, il miracolo, sì abbagliante, dell’incarnazione. Abbandonare l’umano per tornare all’umano, dunque.

La via in su e la via in giù sono una e la medesima. Dio, o il Sacro, come lo si intraveda, se mai lo si intravede, non è tenebra, ma è attraversando la tenebra di sé stessi che, nel cercarlo, solamente lo si può trovare, per attitudine o illuminazione. Non è fuori di noi, è in noi.

La piattaforma su cui Simeone visse era di forma quadrata (“la quadrata materia”); il simbolismo numerologico del Quattro, sia come manifestazione di tutto ciò che è concreto e immutabile, sia come manifestazione della materia, dell’ordine, dell’orientamento, torna in tutto il poemetto, a partire dalla sua stessa struttura quadripartita. A significare che la salvezza è in questo mondo, in questa realtà, nell’abbracciare la propria umanità.

[…….]  Storicamente, quel corpo che lui aveva negato, dopo la morte scatenò aspre rivalità – vere guerre fra gruppi armati – per il suo possesso. Così, l’originaria negazione del corpo, ne sancisce infine, con ironico rovesciamento, la sacralità, ne fa oggetto di venerazione, facendo del cadavere centro di culto straordinario.

Il corpo fu trasportato ad Antiochia ed esposto per trenta giorni nella chiesa di Cassiano e, successivamente, traslato nel duomo ottagonale costruito da Costantino. L’ottagono, non si dimentichi, è simbolo di resurrezione. Non è chiaro, dai testi, se il corpo o parte di esso, fosse poi portato a Costantinopoli.  Nel VII secolo però, con la caduta di Antiochia  in mani arabe, di quel corpo si perse ogni traccia.

Quel che invece rimase, come sede di culto vivissimo, fu il luogo ove sorgeva la sua colonna, a Telanissos (ora Qalat Siman, nell’attuale Turchia), e dove sorse un enorme monastero e una grande basilica, di cui oggi restano rovine. Notizie, chiaramente gonfiate ad arte, riportano che la chiesa potesse contenere fino a diecimila persone. Numero che semplicemente indica una grande pluralità indefinita, (penso all’uso di tale numero nella tradizione letteraria e filosofica cinese) ma  attesta l’eccezionalità del culto.

[…..]

Francesca Diano

[1] Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano. Fondazione Lorenzo Valla.

thumbnail_1464 -

Foto di © Dino Ignani

Da
SAN SIMEONE STILITA
Traduzione di Francesca Diano

“Si collocò su di una serie di colonne dove trascorse il resto
della vita. La prima era alta poco meno di tre metri e su
di essa visse quattro anni. La seconda era alta circa cinque
metri e mezzo (tre anni). La terza, di dieci metri, fu la sua casa
per dieci anni, mentre la quarta ed ultima… era alta diciotto
metri. Lì visse per gli ultimi vent’anni della sua vita.”

Oxford Dictionary of the Saints

“Non c’è bisogno di graticole; l’inferno sono gli altri.”
Jean-Paul Sartre

“Ovunque io voli è Inferno; io stesso sono Inferno…”
Milton, Paradiso perduto, IV, 75.

1

Nell’urto del calore,
Tremano gli orizzonti di chiarità fumosa.
Il deserto è un fondale marino
Da cui tutta l’acqua sia riarsa.
Qui non ebbe potenza la creazione
Se non per sabbia, rocce,
Ciuffi d’erba e pidocchi.
Un arco di montagne, vetrose di calore,
Isola questo paradiso adamantino
Dalla profanazione del triviale.

Ho tutto il giorno per volgermi
In direzione dei punti cardinali
In armonia col sole
Osservare il vuoto che m’assedia,
Sabbia che avanza e mai sembra muoversi,
L’armata del non-essere
Che con la notte si dilegua nel nulla.
Sono il centro di un cosmo
Acceso solamente dai miei occhi.
Sono la meridiana del Signore:
La mia ombra è il tempo
Ch’egli proietta dall’eternità.

La notte facevo questo sogno:
Mi trovo a scavare in un deserto
Come scorpione in fuga dal calore;
la buca si fa così ampia e profonda
Che sono chiuso, come in un pozzo,
E sfiorato da un’ombra rinfrescante.
Ogni vangata di sabbia a espellere un peccato
Alleggerisce l’anima dall’oppressione
E illumina il mio corpo dall’interno
Ma mi fa scorgere più buio giù nel fondo
E seguito a scavare
Finché mi sveglio, colgo la luce del giorno.

Con il tempo compresi
Che questo era un sogno capovolto:
Avevo costruito un buco speculare
Ma fatto materiale da blocchi di pietra.
Qui, sulla cima, son mio proprio signore,
Il mio palazzo è una piattaforma balaustrata
Il tetto un baldacchino di sconfinato azzurro,
I terreni di caccia sono un mare di polvere.
Non odo altra voce che la mia,
A profferire anatemi, preghiere – pur solo
Per ricordare il suono,
O mi sussurra in testa, dove evoco
I chiacchierii di Antiochia
Gerusalemme e Damasco,
Di eremiti che ciarlano sui monti.

Signore, è eresia pensare
Che l’isolarsi spiani la via verso di te,
Che la gente sia corrotta ed infetta
Poiché calpesta quiete, silenzio, solitudine
Nel suo accapigliarsi per dar sollievo
Ai tormenti dell’imperfezione?
Quando alla terra ero vincolato, un penitente
Incatenato a una cornice di roccia
Non riuscivo a pregare se non pregando
Che la notte si potesse protrarre
Contro l’onda dell’alba che s’infrangeva
Contro la roccia, rivelando pastorelli
Sboccati, che scagliavano pietre,
E plebaglia di pellegrini
Che passavano da un oracolo all’altro
Condotti senza posa da domande
Lasciate prive di risposta
Per dare un senso alla vita
E far fare esercizio alle gambe.

Perdonami Signore –
Credo di odiare il mio vicino.
Pur se appartengo al mondo
Ora almeno la superficie non la tocco.
So che odio me stesso,
Della vita temo le dita che contaminano,
Pavento gli effluvi del giorno
Sguscianti attraverso sensi incontrollati
Per putrefarsi dentro la mia testa;
Con codardia crescente
Temo l’attaccamento dell’amore
Temo l’infinità della morte
Temo il sonno, l’oscurità, i dèmoni
Striscianti, i loro occhi grigi come pietra.
Lo so che devo rendere me stesso
Un deserto, un vaso ben lustrato,
Perché in me tu riversi il tuo amore
E trasformi in luce la mia carne.
La notte invece sogni immondi
Mi colmano di donne che conobbi –
Ma un po’ mutate e nude –
Che danzando tra velami di sonno
Sussurrano alla mia verginità.

Si dice che simile attrae simile.
Quanto putrido devo essere dentro
Se di continuo mi pasco
D’ira, lussuria, rancori del passato
Rievocando in crudele dettaglio
Involontarie offese che punsero il mio orgoglio,
Lasciando che la vendetta cresca
Con una tale grottesca intensità
Che la bile potrebbe intossicare l’esercito persiano.

Quasi sempre mi sento dilaniato.
Uno spirito che anela alla luce,
E un corpo con colpevoli appetiti
Che domo stando rigido e ritto tutto il giorno,
Osservando la sagoma emaciata
Ruotarmi lenta intorno
In attesa di debolezza, esitazione.
Oppongo la volontà contro la carne
Ma quando il sole viene inghiottito
Mi unisco al buio, ombra mi faccio
Nell’anarchia sudicia dei sogni;
Inerme, alla deriva, tutta notte mi volvo
Attorno alla rammemorante colonna dei miei peccati.

All’alba mi risveglio, avido di provare la letizia
Di Noè che libero galleggia verso
Un mondo incontaminato risplendente,
Ma quando il sole irrompe
Sono un corvo malconcio in un nido
Di sabbia, capelli, feci albe
E croste di pane che un monaco babbeo
Mi lancia insieme a otri –
Un essere senz’ali che sogna di volare
Sento il deserto che mi stipa dentro
Ogni solitudine io abbia mai provato.

Le distese di nulla del deserto
Specchi giganti dell’anima mia
Riflettono ogni frammento di peccato;
Più mi purifico
Più emergono macchie brulicando
Come formiche che schiaccio adirato –
Come può Dio amare la mia carne rattrappita,
La mia fragilità, l’assenza di costanza?
Perché attende per annientarmi?
Mille volte mi inchino ogni giorno –
La notte resto desto a pregare
E prego per star desto.
A volte mi domando s’io preghi
Per tenere il Signore a distanza.

ST SYMEON STYLITES

by
JAMES HARPUR

From
The Dark Age
2007

“He set himself up on a series of pillars where
he spent the remainder of his life. The first one
was about nine feet high, where he lived for four years.
The second was eighteen feet high (three years).
The third, thirty-three feet high, was his home for
ten years, while the fourth and last … was sixty feet
high. Here he lived for the last twenty years of his life.”

OXFORD DICTIONARY OF SAINTS

“No need of a gridiron. Hell it’s other people.”
JEAN-PAUL SARTRE

“Which way I fly is Hell; my self is Hell…”
MILTON, PARADISE LOST, IV.75

1

Heat struck,
Horizons wobble with clarified smoke.
The desert is a sea-bed
From which all water has been burnt.
Creation, here, was impotent
Except in sand, rock,
Spikes of grass, and head lice.
A sweep of mountains, heat glazed,
Cuts off this adamantine paradise
From profanities of the vulgar.

I have all day to turn
Towards the compass points
In rhythm with the sun
And watch the emptiness besiege me,
Advancing sand that never seems to move,
An army of nothingness
Melting away to nothing with the night.
I am the centre of a cosmos
Lit only by my eyes.
I am the sundial of the Lord:
My shadow is the time
He casts from eternity.

I used to have this dream at night:
I’m in a desert digging
Like a scorpion escaping heat;
The hole becomes so wide and deep
That I’m enclosed, as if inside a well,
And lightly touched by cooling shade.
Each spade of sand expels a sin
Relieves the pressure on my soul
And lights my body from within
But makes me see more dark below.
And so I keep on digging
Until I wake and grasp the light of day.

In time I came to realize
The dream was upside-down:
I built a mirror hole
But made material with blocks of stone.
Here, on top, I rule myself,
My palace a balustraded stage
Its roof a canopy of endless blue,
My hunting grounds a sea of dust.
I hear no voice except my own,
Exclaiming curses, prayers – if only
To remind itself of sound,
Or whispering in my head, where I revive
The chatterings of Antioch
Damascus and Jerusalem,
Of hermits gossiping in mountains.

Lord, is it heresy to think
That isolation smoothes the path to you,
That people are infectiously corrupt
Trampling silence, stillness, solitude
In their scramble to relieve
The agony of imperfection?
When I was earthbound, a penitent
Chained up on a mountain ledge
I could not pray except to pray
For night to be protracted
Against the wave of dawn that broke
Against the rock, unveiling shepherds boys
Foul-mouthed, throwing stones,
And ragtag pilgrims
Drifting from oracle to oracle
Led on and on by questions
They kept unanswered
To give their lives a meaning
Their legs some exercise.

Forgive me Lord –
I think I hate my neighbour.
I may be of the world
But now at least I do not touch its surface.
I know I hate myself,
Fearful of life’s contaminating fingers,
Dreading the day’s effluvia
That slip through each unguarded sense
To rot inside my head;
More and more I’m cowardly
Afraid of love’s attachments
Afraid of death’s infinity
Afraid of sleep, darkness, demons
Scuttling, their eyes as grey as stone.
I know I have to make myself
Into a desert, a vessel scoured,
For you to pour your love in me
And turn my flesh to light.
Instead at night foul dreams
Fill me with women I once knew –
But slightly rearranged and naked –
Who dance through veils of sleep
Whispering to my virginity.

It’s said that like draws like.
How putrid I must be inside
That I’m forever feasting on
Anger, lust, spite from years ago
Recalling in excruciating detail
Unwitting slights that pricked my pride,
And letting vengeance grow
With such grotesque intensity
The bile would poison all the Persian army.

Most days I think I’m split in two.
A spirit yearning for the light
And a body of delinquent appetites
I tame by standing stiff all day,
Watching its scraggy silhouette
Revolve around me slowly
Waiting for hesitation, weakness.
I set my will against my flesh
But when the sun is swallowed up
I join the dark, become a shade
Within the filthy anarchy of dreams;
Helpless, adrift, I’m turned nightlong
Around the memory column of my sins.

At dawn I wake, bursting to feel the joy
Of Noah floating free towards
A shining uncontaminated world.
But when the sun erupts
I am a tatty raven in a nest
Of sand, hair, albino faeces
And bread rinds a half-wit monk
Lobs up to me with water-skins –
A wingless creature dreaming of flight
Feeling the desert cram inside me
Every loneliness I’ve ever known.

The desert’s fields of nothing
Are giant mirrors of my soul
Reflecting every scrap of sin;
The more I purge myself
The more the specks crawl out
Like ants I stamp to death in rage –
How can God love my shrinking flesh,
My frailty, lack of constancy?
Why does he wait to strike me down?
I bow a thousand times a day –
At night I stay awake to pray
And pray to stay awake.
Sometimes I wonder if I pray
To keep the Lord away?

© by James Harpur, 2007 e Francesca Diano 2017. RIPRODUZIONE RISERVATA

Francesca Diano – QUADERNO DI TRADUZIONI

 

la-tomba-del-tuffatore-museo-archeologico-nazionale-di-paestum

 

Francesco Marotta, grande poeta e uomo di rara generosità, mi ha chiesto di approntare una piccola antologia di mie traduzioni poetiche – cosa di cui gli sono immensamente grata – da pubblicare sulla sua bellissima rivista “La dimora del tempo sospeso”, che si può leggere qui

https://rebstein.wordpress.com/2017/03/02/quaderni-di-traduzioni-xxxi/

Fai clic per accedere a francesca-diano-piccola-antologia-di-poesia-anglofona1.pdf

nella sezione Quaderni di Traduzione. In questa occasione ho scritto una piccola nota sul mio rapporto con la traduzione, che qui riporto. Ringrazio ancora Francesco Marotta e Mario Santiago per la loro gentilezza e per l’ospitalità – che mi onora – su una rivista letteraria di grande raffinatezza e ormai nota per essere fra le più serie e accreditate.

 

*******

Tradurre è per me, come per il quesito posto dal kōan zen, cercar di trovare il suono di una sola mano. Un paradosso, forse un’impossibilità, se due sono i poli che fra loro agiscono – il testo e il suo specchiarsi in un’altra lingua – le due mani che, unendosi, generano una terza entità, prima sconosciuta, cui non si può accedere aggrappandosi a sforzate teorie sulla traduzione, ma solo con l’umile pratica, quando infine la risposta a un problema difficile si affaccia – spesso non cercata – alla mente. Quella terza entità è il suono del silenzio che si crea in quel rispecchiamento.

Eppure è qualcosa che mi viene da sempre naturale. Forse perché ho imparato osservando un Maestro, e ho respirato l’arte del tradurre fin da bambina. Sentirlo “cantare” a voce alta i suoi versi italiani dei tragici greci, passeggiando, guidando, aggiustando qualcosa, per ascoltarne il risonare, non è esperienza che dimentico. Come non dimentico la mole immensa di scavo filologico e il bagaglio di sapienza che vi stavano dietro.

Il suono di una sola mano è un silenzio colmo; così è il silenzio del testo originale che colma di sé la sua traduzione. Mai così vero è in un testo poetico.

Tradurre poesia è impresa quasi disperata. Quasi. Se la poesia è la ricerca, che mai può giungere a meta, dell’una parola che tutto contenga, manifesti ed esaurisca, insomma, dell’inesprimibile; se il suo orizzonte  è sempre al di là di un altro orizzonte, legata indissolubilmente al ‘sentimento’, oltre che alla struttura, della lingua in cui è generata e prende forma, e all’intrecciarsi inestricabile di esperienze conoscenza vissuto inconscio visioni fantasmi suoni interni del poeta, come sarà mai possibile trovare forma altrettanto fedele, o anche solo evocatrice di quello straniero, in ogni senso, dire? Travasare un inesprimibile in un altro inesprimibile?

Eppure ci si avventura a farlo. Per amore, per passione, per fiducioso e sconsiderato entusiasmo. Ma soprattutto, almeno per me, per condividere la felicità di qualcosa che mi ha resa più me stessa, che ha aperto mente, cuore e spazi prima ignoti.

Tradurre non può che essere un atto d’amore. Con una chiosa necessaria: tradurre, per me, è conoscere. Del resto, anche l’amore lo è. Non è l’amore il più grande traduttore dell’altro? E, non meno, di noi stessi?

Un’artigiana della traduzione, quale io sono, ha imparato che è questo il mezzo più diretto ed efficace di penetrare all’interno dei meccanismi della creazione, osservarli, percepirli nel loro divenire. Sotto la superficie dell’opera compiuta, com’essa appare all’esterno, è un robusto tessuto segreto, che la costituisce e la sostiene. È il regno a cui si ha accesso traducendo. Questo sguardo furtivo, arricchito di conoscenza, privilegio d’ogni traduttore, va fatto scivolare fino a raggiungere la propria interità, perché la permei e la metta al servizio dell’autore che ci si è scelti. Si deve essere generosi di sé.

Parlo di scelta, perché è bene, soprattutto nel tradurre dei testi poetici, accostarsi a poeti che si amano, che si conoscono, che si sono seguiti nel tempo, o per i quali ci ha preso improvviso innamoramento. Così forse si potrà sperare di avvicinarsi, almeno un poco, alla loro voce e dar loro un suono nella nostra lingua, che non strida, non entri in conflitto o, peggio ancora, non li tradisca del tutto.

Si deve lasciare rispettosamente uno spazio tra l’originale e l’opera che un traduttore di poesia compie. Uno spazio veritiero. L’autentica traduzione è quello spazio stesso; il suono di una sola mano.

E tuttavia, è indispensabile un robusto lavoro filologico, ermeneutico, senza il quale ogni traduzione di un grande testo sarà fallimento. Compiuto questo lavoro però, bisogna poi dimenticarlo e lasciare che il testo ti ingoi e ti modifichi. Come se, nel momento in cui ci si avvicina ad esso, si vivesse una metamorfosi e si dimenticasse di essere ciò che si è, per lasciarsi catturare, per diventare il testo stesso. Eppure, anche questo può accadere solo in parte, perché il testo e il suo autore incontrano l’universo del traduttore, che non può che far da filtro, da setaccio, oltre che da crogiuolo. Ed ecco perché due traduzioni di uno stesso testo – intendo ovviamente due buone e dignitose traduzioni – non potranno mai essere uguali. Un po’ come, nel generare un figlio, due patrimoni genetici si uniscono creando combinazioni sempre diverse.

La mia attività di traduttrice letteraria, iniziata in modo più sistematico dal 1981, è legata soprattutto alla narrativa e alla saggistica. Le traduzioni di testi poetici sono la mia vacanza, che però affianca da sempre l’altra attività. Dunque, posso dire di essere costantemente in vacanza.

Così, fra i poeti che mi sono scelta, e che presento in questa piccola antologia, questi sono fra i miei più amati in lingua inglese. Di alcuni propongo più testi, di altri solo qualche esempio. Ma certamente non sono i soli. Impossibile escludere Keats e Shelley, Donne e Hopkins.

Confesso uno specialissimo amore per James Harpur, l’autore su cui, insieme al folklorista Thomas Crofton Croker, ho lavorato di più e più a lungo nel tempo – oltre un decennio per Harpur, molti decenni per Croker –  e non casualmente. Ritengo Harpur uno dei maggiori poeti viventi, non solo in lingua inglese, sicuramente il maggiore poeta irlandese. Ho, nei suoi confronti, molti debiti di riconoscenza, per motivi diretti e indiretti.

Questo è dunque il suono di una sola mano, di ciascuna delle loro mani, che io odo dentro.

Francesca Diano

 

(C)Francesca Diano 2017 RIPRODUZIONE RISERVATA

Jiddu Krishnamurti – da From darkness to light. Traduzione di Francesca Diano

images

Nella mia limitatissima conoscenza, unita a un’amplissima ignoranza dell’enorme tradizione del pensiero indiano, propongo, con profonda umiltà, alcuni testi poetici di uno dei maggiori pensatori e filosofi moderni – anzi, di tutti i tempi – Jiddu Krishnamurti, pensatore che sfugge ad ogni definizione per l’unicità e l’originalità della sua visione, per la portata rivoluzionaria e spirituale.

La conoscenza della sua opera, così come la sua figura, pur notissime a chi si interessa di pensiero indiano contemporaneo o anche di psicologia del profondo, non è ancora sufficientemente diffusa quanto meriterebbe. Allo stesso tempo, è bene dire che il pensiero di Kishnamurti non ha nulla a che vedere con il mondo un po’ fumoso di certi seguaci modaioli di santoni e filosofie orientali, di discipline olistiche, di Yoga da salotto, quando non addirittura di tardivi epigoni di una New Age che ormai nuova non è più, né ha dato i frutti un tempo sperati. Anzi, è esattamente l’opposto.
Krishnamurti è un rivoluzionario, che ha scardinato, attraverso quelli che lui stesso si rifiutava di definire insegnamenti, le basi di strutture sociali, religioni, tradizioni, istituzioni, credenze, conoscenze acquisite. Per scelta ha decisamente rifiutato di fondare scuole di pensiero, sistemi filosofici, di avere discepoli e seguaci, ha ricusato ogni forma di fede. Ha dichiarato di non appartenere ad alcuna cultura, tradizione, nazionalità, religione o credo. Ha dedicato buona parte della sua lunga vita a girare il mondo, per osservarlo, conoscerlo, incontrare persone d’ogni tipo; dai grandi pensatori, scienziati, filosofi, alla gente comune. Soprattutto per parlare ai giovani, suggerendo loro di ricercare la libertà, di liberarsi dalla paura. Una paura che nasce dalle sovrastrutture che soffocano l’uomo, dalle immagini mentali del sé e della realtà, costruite dalla famiglia, dalla scuola, dalla religione, dalle istituzioni, dalle credenze e dai retaggi. Paure che ingabbiano e obnubilano la visione della verità. E dunque annientano la libertà.
Al centro dell’interesse di Krishnamurti sono il concetto di verità e il rapporto fra l’osservante e l’osservato. Queste sono le parole d’inizio e parti del famoso discorso del 1929, con cui abbandonò il percorso che era stato scelto da altri per lui:
Io sostengo che la Verità è una terra senza sentieri, e che non potete accedere a essa attraverso nessun sentiero, nessuna religione, nessuna setta. […] Nel momento in cui avrete compreso questo, vedrete come non è possibile organizzare una fede. La fede è una cosa strettamente individuale, e non potete e non dovete organizzarla. Se lo fate essa muore, si cristallizza, diventa un credo, una setta, una religione da imporre agli altri. […] La Verità non può essere portata al nostro livello, siamo piuttosto noi che dobbiamo fare lo sforzo di salire al suo. Non potete portare la cima della montagna nella valle […] Questa è perciò la prima ragione per cui, secondo il mio punto di vista, l’Ordine della Stella dev’essere sciolto. È probabile che voi, a dispetto di questo, in futuro formiate altri ordini, continuate ad appartenere ad altri ordini in cerca della Verità. Io non voglio appartenere a nessuna organizzazione di genere spirituale; per favore, cercate di comprenderlo. […] Nessuna organizzazione può condurre il genere umano alla spiritualità.
Se un’organizzazione è creata per questo scopo, diventa una stampella, un fattore d’invalidità, una catena, e necessariamente azzoppa l’individuo e gli impedisce di crescere, di dare forma alla sua unicità, che risiede nella scoperta personale dell’assoluta e incondizionata Verità. E questa è un’altra ragione per cui, poiché capita che ne sia il capo, ho deciso di sciogliere l’Ordine.
Questo non è un atto di mania di grandezza, perché io non voglio seguaci e dico sul serio. Nel momento stesso in cui seguite qualcuno, cessate di seguire la Verità. Non mi interessa se prestate attenzione a ciò che dico o no. C’è una certa cosa che voglio fare nel mondo e la farò senza distogliermi dal mio obiettivo. Uno solo è il mio interesse fondamentale: liberare l’uomo. Voglio liberare l’uomo da tutte le gabbie e da tutte le paure, non fondare religioni e nuove sette, né introdurre nuove teorie e filosofie.
Voi volete avere i vostri dèi, nuovi dèi al posto dei vecchi, nuove religioni al posto delle vecchie, nuove forme in sostituzione delle vecchie, tutte ugualmente prive di valore, tutte barriere, tutte limitazioni, tutte stampelle. Nuove distinzioni spirituali al posto delle vecchie, nuovi culti al posto dei vecchi. Dipendete da un altro per la vostra spiritualità, fate dipendere la vostra felicità da qualcun altro, la vostra illuminazione da qualcun altro; e benché vi siate preparati per me per diciotto anni, quando vi dico che tutto ciò è inutile, quando dico che dovete sbarazzarvene e cercare dentro di voi l’illuminazione, il fulgore, la purezza e l’incorruttibilità del sé, nessuno di voi è disposto a farlo. […]
Non avete bisogno di un’organizzazione basata su un credo spirituale. […] La Verità è in tutti, non è lontana né vicina, è eternamente.
Le organizzazioni non possono farvi liberi. Nessun altro può renderci liberi. […] Voi avete l’idea che solo determinate persone abbiano la chiave del Regno della Felicità. Nessuno la detiene. Nessuno ha l’autorità per farlo.
Coloro che vogliono realmente conoscere, coloro che cercano davvero ciò che è eterno, privo di inizio e privo di fine, cammineranno insieme con grande intensità e costituiranno un pericolo per tutto ciò che è inessenziale, per le irrealtà, per le ombre. Essi si uniranno e diverranno una fiamma, perché comprendono. Voglio creare un’unione così, questo è il mio scopo. Dalla vera comprensione nascerà vera amicizia. Dalla vera amicizia, che voi non sembrate conoscere, nascerà vera cooperazione reciproca. E ciò non a motivo di un’autorità, non in virtù di una salvezza o perché ci si è immolati per una causa, ma perché comprendendo davvero viviamo nell’eterno. Questo supera il maggiore piacere e il più grande sacrificio. […]Voi potete creare altre organizzazioni e aspettare qualcun altro. Questo non è affar mio, come non è affar mio creare nuove gabbie e nuove decorazioni per quelle gabbie. La mia unica preoccupazione è di rendere gli uomini assolutamente, incondizionatamente liberi.

Parlare di pensiero, per Krishnamurti, è già in realtà una contraddizione, poiché, nella sua visione, è proprio il pensiero l’ostacolo a liberarsi dalle immagini da esso stesso proiettate. Dunque, soltanto osservando dall’esterno i meccanismi della mente e dell’io è possibile liberarsi dall’illusoria prigione di immagini mentali e credenze. Occorre annullare la separazione fra colui che osserva e ciò che è osservato, tra noi e la vera natura delle cose. Tra ciò che è e ciò che pensiamo o vorremmo che fosse. Tra il tempo presente e una proiezione nel futuro o nel passato. Tutto è, in un eterno presente.
È quanto emerge da Sono tutto, che singolarmente ricorda un antico testo poetico attribuito al druido Amergin, dal contenuto molto simile.

Krishnamurti non insegna concetti, idee, ma invita continuamente a vedere. Qui e ora, nell’immediato. Qui, nell’eterno presente, è la libertà. Qui l’amore. Come ne Il canto dell’Amato, un testo mistico nel verso senso del termine, dove il Sacro è nella visione dell’eterno presente.
Votarsi alla libertà e a scoprire cos’è l’amore, sono le sole due cose che contano: la libertà e la cosa chiamata amore.”
I testi qui presentati sono tratti da From Darkness to Light, una raccolta di testi poetici e parabole della sua giovinezza.

Jiddu Krishnamurti nacque nel 1895 a Madanapalle, presso Madras, nell’attuale stato dell’Uttar Pradesh e a tredici anni fu notato da un membro della Società Teosofica fondata da Helena Blavatsky, che aveva la sua sede internazionale a Madras. Annie Besant, all’epoca presidente della Società, lo volle adottare, insieme all’amatissimo fratello, con l’intenzione di farne il Maestro del Mondo, il salvatore di cui i teosofi attendevano l’avvento e fece poi loro dare una istruzione di tipo occidentale. Allo scopo di promuovere l’avvento del Maestro del Mondo, la Società fondò l’Ordine della Stella d’Oriente, di cui Krishnamurti venne eletto presidente e che arrivò a contare migliaia di seguaci in tutto il mondo.
Ma nel 1929, dopo la morte del fratello, egli sciolse l’organizzazione, restituì tutto quanto gli era stato dato e rifiutò ogni cosa e ogni ruolo. Da quel momento e fino alla morte, alla soglia dei novant’anni, viaggiò in tutto il mondo, incontrando persone di ogni tipo e cultura, ascoltando e parlando e dedicandosi instancabilmente all’educazione dei giovani, che considerava una questione fondamentale dell’uomo.

Francesca Diano

********

Oh, vieni a sederti accanto a me

Oh, vieni e siedi accanto a me, presso il mare, libero e aperto.
Ti parlerò della calma interiore
E così del profondo silenzio;
Di quella interiore libertà
Come del cielo;
Di quell’interna felicità
E dell’acqua danzante.

E come ora la luna traccia un sentiero silente sull’atro mare,
Così accanto mi si stende la chiara via della pura comprensione.
Il dolore gemente si cela sotto un sorriso beffardo.
Il cuore è gravato dal peso dell’amore corruttibile.
L’inganno della mente snatura il pensiero.

Oh, vieni a sederti accanto a me
Libero e aperto.
Come il costante fluire della luce limpida del sole,
Così ti giungerà la comprensione.
La paura opprimente dell’ansiosa attesa
Ti lascerà come l’acqua recede di fronte all’impeto dei venti.

Oh, vieni a sederti accanto a me.
Saprai la comprensione del vero amore.
Come la mente scaccia le nubi cieche,
Così il pensiero limpido scaccerà il tuo bruto pregiudizio.

La luna s’è innamorata del sole
E le stelle colmano il cielo del loro riso.

O, vieni a sederti accanto a me
Libero e aperto.

Ah, Come Sit Beside Me

Ah, come sit beside me by the sea, open and free.
I will tell thee of that inward calmness
As of the still deep;
Of that inward freedom
As of the skies;
Of that inward happiness
As of the dancing waters.

And as now the moon makes a silent path on the dark sea,
So beside me lies the clear path of pure understanding.
The groaning sorrow is hid under a mocking smile,
The heart is heavy with the burden of corruptible love,
The deceptions of the mind pervert thought.

Ah, come sit beside me
Open and free.
As the even flow of clear sunlight,
So shall thine understanding come to thee.
The burdensome fear of anxious waiting
Shall go from thee as the waters recede before the rushing winds.

Ah, come sit beside me,
Thou shalt know of the understanding of true love.
As the mind drives the blind clouds,
So shall thy brutish prejudice be driven by clear thought.

The moon is in love with the sun
And the stars fill the skies with their laughter.

Oh, come sit beside me
Open and free.

Sono tutto

Sono l’azzurro firmamento e la nube nera,
Sono la cascata ed il suo suono,
Sono l’idolo inciso nella pietra e il sasso sulla strada,
Sono la rosa e i suoi petali che cadono,
Sono il fiore di campo e il sacro loto,
Sono l’acqua lustrale e lo stagno immobile,
Sono l’albero che fra i monti torreggia,
E foglia d’erba sul sentiero tranquillo.
Sono la tenera foglia appena nata e il fogliame sempreverde.

Sono il barbaro e il saggio,
Sono l’empio ed il pio,
Sono il non divino e il divino,
Sono la prostituta e la vergine,
Sono il liberato e l’uomo immerso nel tempo,
Sono l’indistruttibile e il distruttibile,
Sono la rinuncia e l’orgoglioso possessore,
Io sono tutto
Pochi mi conoscono.

Non sono né Questo né Quello,
Non sono distaccato né attaccato,
Non sono né il cielo né l’inferno – pochi mi conoscono –
Non sono né filosofie né credenze,
Non sono né il Maestro né il discepolo.
O amico,
Ogni cosa contengo.

Limpido come sorgente di montagna io sono
Semplice come la nuova foglia a primavera.

Felici sono coloro
Che mi incontrano.

I Am All

I am the blue firmament and the black cloud,
I am the waterfall and the sound thereof,
I am the graven image and the stone by the wayside,
I am the rose and the falling petals thereof,
I am the flower of the field and the sacred lotus,
I am the sanctified waters and the still pool,
I am the tree that towereth among the mountains
And the blade of grass in the peaceful lane,
I am the tender spring leaf and the evergreen foliage.

I am the barbarian and the sage,
I am the impious and the pious,
I am the ungodly and the godly,
I am the harlot and the virgin,
I am the liberated and the man of time,
I am the indestructible and the destructible,
I am the renunciation and the proud possessor.
I am all
Few know me.

I am neither This nor That,
I am neither detached nor attached,
I am neither heaven nor hell — few know me —
I am neither philosophies nor creeds,
I am neither the Guru nor the disciple.
O friend,
I contain all.

I am clear as the mountain stream,
Simple as the new spring leaf.

Happy are they
That meet with me.

Ho percorso un sentiero nella giungla

Ho percorso un sentiero nella giungla
Che aveva tracciato un elefante,
E intorno a me un intrico selvaggio.
Voce della desolazione colma la pianura lontana.
E la città è colma del suono di campane di un alto tempio.
Oltre la giungla gli alti monti,
Calmi e limpidi.
Nella paura della Vita
Si crea la tentazione del dolore.

Abbatti la giungla – non un semplice albero,
Poiché la Verità si raggiunge
Eliminando tutto ciò che hai seminato.
Ed ora cammino con l’elefante.

I walked on a path through the jungle

I walked on a path through the jungle
Which an elephant had made,
And about me lay a tangle of wilderness.
The voice of desolation fills the distant plain.
And the city is noisy with the bells of a tall temple.
Beyond the jungle are the great mountains,
Calm and clear.

In the fear of Life
The temptation of sorrow is created.

Cut down the jungle — not one mere tree,
For Truth is attained
By putting aside all that you have sown.
And now I walk with the elephant.

Il canto dell’Amato

Oh! Ascolta,
Ti canterò il canto del mio Amato.

Dove i morbidi pendii verdi dei monti silenziosi
Incontrano l’acqua azzurra lucente del mare risonante,
Dove il torrente gorgogliante grida estatico,
Dove gli stagni immobili riflettono la calma del cielo,
Lì ti incontrerai con il mio Amato.

Nella vallata, dove la nube grava in solitudine
Cercando per riposarsi la montagna,
Nel fumo quieto che sale verso il cielo,
Nel villaggio verso il sole che tramonta,
Nei serti sottili delle nubi che svaniscono rapide,
Lì tu ti incontrerai con il mio Amato.

Fra le cime danzanti degli alti cipressi,
Fra gli alberi nodosi antichi per l’età,
Fra i cespugli impauriti abbarbicati alla terra,
Fra gli alti rampicanti che pendono pigri,
Lì tu ti incontrerai con il mio Amato.

Nei campi arati, dove uccelli chiassosi trovano nutrimento,
Sul sentiero ombroso che si snoda lungo il fiume colmo e immobile,
Presso le rive lambite dall’acqua,
Fra gli alti pioppi che senza posa giocano col vento,
Nell’albero che il fulmine ha ucciso la scorsa estate,
Lì tu ti incontrerai con il mio Amato.

Nel silenzio dei cieli azzurri
Dove terra e cielo si incontrano
Nell’aria soffocante,
Nel mattino carico d’incenso,
Tra le ombre intense del meriggio,
Tra le ombre lunghe della sera,
Tra le nubi gaie e radiose del sole che tramonta,
Lungo il sentiero sull’acqua al termine del giorno.
Lì tu ti incontrerai con il mio Amato.

Nell’ombra delle stelle,
Nella calma profonda delle notti oscure,
Nel riflesso della luna su acque immote,
Nel grande silenzio che precede l’alba,
Fra i sussurrii degli alberi al risveglio,
Nel grido mattiniero dell’uccello,
Fra il risveglio delle ombre,
Fra le cime illuminate di montagne lontane,
Nel volto assonnato del mondo,
Lì tu ti incontrerai con il mio Amato.

Tacete o acque danzanti,
E ascoltate la voce del mio Amato.

Nelle risa felici dei bambini
Lo puoi sentire.
La musica del flauto
È la Sua voce.
Il grido sbigottito di un Uccello solitario
Muove il tuo cuore al pianto.
Poiché hai sentito la Sua voce.
Il ruggito del mare millenario
Risveglia le memorie
Che ninnandole ha fatto addormentare
La Sua voce.
La brezza dolce che muove
Pigramente le cime degli alberi
Ti porta il suono
Della Sua voce.

Il tuono fra i monti
Ti colma l’anima
Della potenza della Sua voce.
Nel ruggito della città vasta,
Attraverso le voci della notte,
Il pianto di dolore,
Il grido di gioia,
Attraverso la bruttura dell’ira,
Giunge la voce del mio Amato.

Nelle lontane isole azzurrine,
Sulla tenera goccia di rugiada,
Sull’onda che s’infrange,
Sul lucore dell’acqua,
Sopra l’ala di un uccello in volo,
Sulla tenera foglia a primavera,
Potrai vedere il volto del mio Amato.

Nel tempio sacro,
Nelle sale da ballo,
Sul volto santo del sannyasi,
Nel vacillare dell’ubriaco,
Con la prostituta e con la casta,
Lì tu ti incontrerai con il mio Amato

Nei campi in fiore,
Nelle città sporche e squallide,
Con il puro e l’impuro,
Nei fiori che celano il divino,
Lì si trova il mio bene-Amato.
Oh! Il mare
È penetrato nel mio cuore,
In un giorno,
Sto vivendo cento estati.
O amico,
In te contemplo il mio viso,
Il viso del mio bene-Amato.

È questo il canto del mio amore.

Song of the Beloved

Oh! Listen,
I will sing to thee the song of my Beloved.

Where the soft green slopes of the still mountains
Meet the blue shimmering waters of the noisy sea,
Where the bubbling brook shouts in ecstasy,
Where the still pools reflect the calm heavens,
There thou wilt meet with my Beloved.

In the vale where the cloud hangs in loneliness
Searching the mountain for rest,
In the still smoke climbing heavenwards,
In the hamlet toward the setting sun,
In the thin wreaths of the fast disappearing clouds,
There thou wilt meet with my Beloved.

Among the dancing tops of the tall cypress,
Among the gnarled trees of great age,
Among the frightened bushes that cling to the earth,
Among the long creepers that hang lazily,
There thou wilt meet with my Beloved.

In the ploughed fields where noisy birds are feeding,
On the shaded path that winds along the full, motionless river,
Beside the banks where the waters lap,
Amidst the tall poplars that play ceaselessly with the winds,
In the dead tree of last summer’s lightning,
There thou wilt meet with my Beloved.

In the still blue skies,
Where heaven and earth meet
In the breathless air,
In the morn burdened with incense,
Among the rich shadows of a noon-day,
Among the long shadows of an evening,
Amidst the gay and radiant clouds of the setting sun,
On the path on the waters at the close of the day,
There thou wilt meet with my Beloved.

In the shadows of the stars,
In the deep tranquility of dark nights,
In the reflection of the moon on still waters,
In the great silence before the dawn,
Among the whispering of waking trees,
In the cry of the bird at morn,
Amidst the wakening of shadows,
Amidst the sunlit tops of the far mountains,
In the sleepy face of the world,
There thou wilt meet with my Beloved.

Keep still, O dancing waters,
And listen to the voice of my Beloved.

In the happy laughter of children
Thou canst hear Him.
The music of the flute
Is His voice.
The startled cry of a lonely bird
Moves thy heart to tears,
For thou hearest His voice.
The roar of the age-old sea
Awakens the memories
That have been lulled to sleep
By His voice.
The soft breeze that stirs
The tree-tops lazily
Brings to thee the sound
Of His voice.

The thunder among the mountains
fills thy soul
With the strength
Of His voice.
In the roar of a vast city,
through the voices of the night,
The cry of sorrow,
The shout of joy,
Through the ugliness of anger,
Comes the voice of my Beloved.

In the distant blue isles,
On the soft dewdrop,
On the breaking wave,
On the sheen of waters,
On the wing of the flying bird,
On the tender leaf of the spring,
Thou wilt see the face of my Beloved.

In the sacred temple,
In the halls of dancing,
On the holy face of the sannyasi,
In the lurches of the drunkard,
With the harlot and with the chaste,
Thou wilt meet with my Beloved.

On the fields of flowers,
In the towns of squalor and dirt,
With the pure and the unholy,
In the flower that hides divinity,
There is my well-Beloved.

Oh! the sea
Has entered my heart,
In a day,
I am living an hundred summers.
O, friend,
I behold my face in thee,
The face of my well-Beloved.

This is the song of my love

Non ho nome

Non ho nome,
Sono come la brezza fresca di montagna.
Non ho rifugio;
Sono l’acqua vagante.
Non ho santuario, come gli dei oscuri;
Né sono all’ombra di templi profondi.
Non ho testi sacri;
Né ho radici nella tradizione.
Non sono nell’incenso
Che sale sugli alti altari,
Né nella pompa delle cerimonie.
Non sono né negli idoli scolpiti
Né nell’intenso canto di voce melodiosa.
Non sono legato alle teorie
Né corrotto dalle credenze.
Non sono impastoiato nei legami di una religione
Né nella pia agonia dei suoi preti.
Non sono intrappolato dalle filosofie
Né in potere delle loro sette.
Non sono né alto né basso.
Sono l’adoratore e l’adorato.
Sono libero.
Il mio canto è il canto del fiume
Che invoca il mare aperto,
Vagando, vagando,
Io sono Vita.
Non ho nome,
Sono come la fresca brezza di montagna.

I have no name

I have no name,
I am as the fresh breeze of the mountains.
I have no shelter;
I am as the wandering waters.
I have no sanctuary, like the dark gods;
Nor am I in the shadow of deep temples.
I have no sacred books;
Nor am I well-seasoned in tradition.
I am not in the incense
Mounting on the high altars,
Nor in the pomp of ceremonies.
I am neither in the graven image,
Nor in the rich chant of a melodious voice.
I am not bound by theories,
Nor corrupted by beliefs.
I am not held in the bondage of religions,
Nor in the pious agony of their priests.
I am not entrapped by philosophies,
Nor held in the power of their sects.
I am neither low nor high,
I am the worshipper and the worshipped.
I am free.
My song is the song of the river
Calling for the open seas,
Wandering, wandering,
I am Life.
I have no name,
I am as the fresh breeze of the mountains.

(C)2017 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Anassimene di James Harpur tradotto da Francesca Diano

Transport XIXB

Photo (C) Eric J. Heller.

 

Questo il sito dello scienziato Eric J. Heller:    http://jalbum.net/it/browse/user/album/1696720

La foto dello scienziato Eric J. Heller, valente studioso di fisica quantistica, quanto visionario artista , Transport XIXB, visualizza lo studio di un particolare momento del flusso di elettroni gassosi. Questa serie è stata ispirata dagli esperimenti di Mark Topinka, Brian Leroy, e Professor Robert Westervelt ad Harvard per i quali Eric Heller e Scot Shaw hanno lavorato alla componente teorica. L’ho trovata meravigliosamente adatta a illustrare lo splendido testo di Harpur, perché è come se la scienza ai suoi albori, che si fondeva con la filosofia e la poesia, si potesse riconoscere nei suoi più recenti sviluppi, quando, come in questo caso, la scienza è arte essa stessa. Nel leggere il testo di Harpur, che non è ispirato, si badi bene, a questa immagine, sono rimasta profondamente colpita da come i suoi versi sembrino invece descriverla e commentarla. Descrivere cioè, con il linguaggio quasi mistico della sua coltissima poesia, le strutture più profonde e invisibili della materia.

F. D.

 

Anassimene

 

L’anima nostra è aria, guarda il respiro

Che entra gelido, riappare

Fantasma che s’arriccia mentre cammini all’alba

Fra boschi di pini che s’estendono

Sulle colline sulla città dormiente.

 

Come in basso così in alto. Un inverno in cui

Gli arbusti si rattrappirono in nudi agglomerati

Le querce e i faggi, gli sfavillanti salici

Lasciarono la luce scorrere lungo gli spogli rami;

Quando l’erba decrebbe, si sciolsero i cespugli

E la foresta spalancò i suoi sentieri

Come canali che dopo la meditazione si liberano

Quando il sole velato si fermò

All’improvviso ebbi la visione –

Creazione come momento non creato

Lo pneuma è un flusso ininterrotto

Di mobilità infinita e delicatezza

Che assume sempre rinnovate forme,

Una luce che nulla perde di se stessa

Mentre si materializza nel mondo

E si sposta come uno sciame d’api

Per dar forma a nuove particole di senso:

L’aria s’andò addensando in foschia

Poi lentamente s’ingrossò in pioggia

Che creò attrito, cadde a schizzi

Nei solchi e riempì le pozzanghere

Poi più s’addensò in fango e melma

Che il tempo avrebbe indurito come pietra

O per rarefazione ritrasformata in bruma

Per sollevarsi ancora diluendosi in aria

E rarefarsi ancora sempre più –

Raffinandosi e ancora raffinandosi

In oscillanti granuli di fiamma

Fluenti verso l’alto in piccole faville

Per riunirsi in pozze ardenti a risplendere

Dall’emisfero delle tenebre

In forma di stelle e di luna e di sole.

****

Anaximenes

 

Our souls are air, just watch the breath

That enters icy, reappears

A curling ghost on early morning walks

Through groves of pines that stretch

Along the hills above the sleeping town.

 

As below, so above. One winter, when

Shrubs shrank in naked tangles

Oaks and beeches, flashing willows

Let light glide through bare branches;

When grass subsided, bushes melted

And the forest opened up its paths

Like channels clearing after meditation

When the shrouded sun stood still

I suddenly saw the vision –

Creation as an uncreated movement

The pneuma in a never-ending stream

Of infinite mobility and tenderness

Assuming ever-fresher forms,

A light that loses nothing from itself

Materializing in the world

And shifting like a swarm of bees

To shape new particles of meaning:

Air was thickening into mist

Then slowly coarsened into rain

Which gathered friction, splashed

In ruts and filled up pools

Grew denser into slush and mud

That time would harden into stone

Or turn by rarefaction back to mist

To rise up thinning into air again

Then growing rarer still –

Refining and refining further

Into flickering grains of flame

Streaming up in sparklings

To coalesce in fiery pools to shine

From the hemisphere of darkness

As stars and moon and sun.

 

(C) by James Harpur – (per la traduzione Francesca Diano) RIPRODUZIONE RISERVATA

Verniciatura – una poesia di Neal Hall tradotta da Francesca Diano

NEAL HALL

 

 

Verniciatura[1]

 

Perfezione artificiosa,

sparsa superficialmente con uniformità su irregolarità di superficie,

a nascondere imperfezioni emerse dall’interno;

manifestazioni visibili di intimi timori del timore, e

bugie coreografate attorno a cui danziamo

per far girare la verità.

 

Una banconota malamente contraffatta

da cento dollari, ben tesa

per avvolgere un rotolo di biglietti da uno

 

falsi sorrisi amichevoli

che laminano la superficie del nostro odio

 

una calza di satin liscio e setoso

che tessiamo a coprire i piedi ruvidi

su cui andiamo danzando in giro la verità.

 

Verniciatura

 

questo laminato,

questa immacolata concezione concepita per resistere all’inferno

la fabbrichiamo per indossarla, per coprire le nostre tracce le nostre code

per coprire i furti che compiamo,

quando uccidiamo,

quando rendiamo falsa testimonianza nel buio

abisso sotto la superficie di quegli

strati di laminato ben poco aderenti:

non rubare,

non uccidere,

non dire falsa testimonianza.

 

Verniciatura

 

una tenda Marquise a mascherare maschere di pulizia e rinascita,

facciate che altro non sono se non

una maggior piacevole apparenza,

non più che un più attraente materiale di superficie

di bugie superficiali dal sottile rivestimento, che rivestono appena

chi veramente siamo e che s’annida sotto le menzogne

della purga e della rinascita dell’anima.

 

Verniciatura

 

questo intarsio di due, a ricoprire uno, sopra inserito

per dividere l’uno in due metà

che mai furono intese: un tu, un me,

un giusto, uno sbagliato, un nero, un bianco,

luce nera sintetizzata che emette

composti fluorescenti di oscurità artefatta,

a proiettare ombre ottenebrate

sotto cui nascondiamo i mali della nostra superficie.

 

Riverniciati

 

Noi siamo, manichini fabbricati,

modelli la cui superficie è una natura morta, abbigliati

con abiti monogrammati da vetrina,

facciate sotto cui sanguiniamo per negazioni di sangue,

avvolti in strati diafani di false verità

con cui celiamo la nostra vera essenza per apparire

più amorevoli nel nostro falso amore,

più tolleranti nella nostra tolleranza sintetica

più umani nella nostra umanità inumana

come appariamo falsamente essere

per mascherare quello che siamo diventati…

 

una banconota malamente contraffatta

da cento dollari, ben tesa

per avvolgere un rotolo di biglietti da uno

 

falsi sorrisi amichevoli

che laminano la superficie del nostro odio

 

una calza di satin liscio e setoso

che tessiamo a coprire i piedi ruvidi

su cui andiamo danzando in giro la verità…

 

 

Veneer

 

Articial perfection,

evenly spread superficially across surface irregularities,

concealing surfaced inner imperfections;

outward manifestations of inner fears of fear, and

choreographed lies we dance around

to spin around the truth.

 

An ill-fitted counterfeit

hundred dollars bill, stretched

to fit over a folded wad of ones

 

a forged friendly smile

laminated the surface of our hate

 

a smooth silky satin sock

we weave to cover rough feet

we dance around the truth upon.

 

Veneer

 

this laminate

this conceived hell-resistant immaculate conception

we fabricate to wear, to cover our trail to cover our tails

to cover when we steal,

when we kill,

when we bear false witness in the dark

abyss beneath the surface of those

loosely adherent layered laminates;

thou shalt not steal,

thou shalt not kill,

thou shalt not bear false witness.

 

Veneer

 

Marquise masquerading masks of cleansing and rebirth,

facades that are no more than

a more pleasing appearance,

no more than a more desirable surface material

of skim coat surface lies, thinly coating

who we really are lurking beneath the lies

of soul cleansing and rebirth

 

Veneer

 

this inlay of two, overlying one, added on top

to divide the one into two halves one

was never meant to be: a you, a me

a wrong, a right, a black, a white,

synthesized black light emitting

florescent composites of manufactured darkness,

casting unenlightened shadows

we hide our surface woes beneath.

 

Veneer’d

 

we are, manufactured mannequins,

still life surface paragons, dressed up

in monogrammed windows dressings,

facades beneath which we bleed sanguineous denials,

shrouded in diaphanous layers of artificial truths

we cover our true selves in to appear

more loving in our false love,

more tolerant in our synthetic tolerance

more human in our inhuman inhumanity

we falsely appear to be,

to cover over what we have become…

 

An ill-fitted counterfeit

hundred dollars bill, stretched

to fit over a folded wad of ones

 

a forged friendly smile

laminated the surface of our hate

 

a smooth silky satin sock

we weave to cover rough feet

we dance around the truth upon.

 

 

[1] Ho scelto di tradurre l’inglese Veneer, letteralmente “impiallacciatura, rivestimento, vernice, fig. apparenza superficiale”, con “verniciatura” nel senso di patina fittizia stesa sopra a nascondere le pecche. (N.d.T.)

 

(C) Neal Hall e Francesca Diano per la traduzione. RIPRODUZIONE RISERVATA

James Harpur – un moderno neoplatonico, di Francesca Diano

James Harpur ((c) Le#293E83

 

Pubblico qui l’introduzione alla mia monografia di James Harpur, (Introduzione e antologia di traduzioni) pubblicata sul N°304 di Poesia Crocetti Editore, Maggio 2015.  

F.D.

 

In un primo momento abbaglia, poi stordisce, poi oscura, poi consola. Infine illumina, seppur di una flebile luce, la tenebra in cui ti ha fatto penetrare. È quanto si prova nel leggere la parola di James Harpur e il suo inglese corrusco.

Un lungo percorso di ricerca escatologica, tanto personale quanto collettiva, il suo, che emerge chiarissimo dalle sue stesse parole. “Sono giunto alla poesia solo negli anni dell’università. D’un tratto mi sono trovato ad obbedire a un impulso sotterraneo e decisi che la poesia era un’impresa nobile e un mezzo per esplorare le fondamentali questioni spirituali, quali l’esistenza di un Dio, se la vita abbia un senso, cosa c’è dopo la morte, ecc. questioni che nella mia vita sono sempre state una forza centrale e propulsiva. Forse tutti quegli uomini di chiesa nel mio DNA… La poesia mi apparve una missione, il mezzo che mi avrebbe permesso di penetrare l’escatologia della vita o, almeno, di venire a patti con i miei rapporti personali, con i grandi temi dell’esistenza. Da questo punto di vista, per me scrivere era ed è tuttora un’attività sacra, quasi quanto la meditazione e la preghiera.” [1]

Non sono molti, oggi, i poeti che vedono nella poesia un’attività che li collega al divino, così com’era alle sue origini. Ma Harpur è un poeta delle origini. Un Urdichter, si potrebbe dire, poiché la sua poesia attinge proprio a quel magma originario da cui la Parola emerge come lògos, come portatrice di tutti i significati possibili e, allo stesso tempo, come potenza ordinatrice dell’universo. Che separa, distingue, nomina e ordina.

Che questa sia la funzione che Harpur le attribuisce è forse sommamente evidente nel lungo poemetto Voices of the Book of Kells, (Voci del Libro di Kells) esplorazione della genesi di questo prodigioso Evangeliario miniato, dell’animo degli anonimi monaci irlandesi che lo miniarono e, allo stesso tempo, della genesi dell’arte. In quella sfera misteriosa della creazione, che è anche lotta costante fra la materia e lo spirito.

Nato in Inghilterra nel 1956, da padre irlandese e madre inglese, di antiche ascendenze anglonormanne, Harpur tiene a spiegare che il significato originario del suo cognome, documentato già nel XII secolo, è arpista, dunque poeta. Lo fu sicuramente un suo antenato. Ma discende anche da una tradizione familiare di uomini di chiesa, Church of Ireland, come lo fu suo nonno e altri prima di lui. Tuttavia Harpur ha scelto un’altra strada.  In lui si sono fuse l’anima dell’arpista medievale e quella del mistico. Perché Harpur è un cantore del Sacro. Nel senso più ampio del termine.

La sua prima raccolta organica, A Vision of Comets, (Anvil Press) è del 1993 e raccoglie buona parte dei testi poetici scritti durante il suo soggiorno a Creta, dove ha vissuto per un anno insegnando inglese. L’isola egea gli fa esplodere dentro una potenza poetica e visionaria che diventerà negli anni la sua voce originale, e la poesia che dà titolo alla raccolta ne è riconoscimento e accoglimento.

Le raccolte successive, The Monk’s Dream, 1996 Oracle Bones, 2001 The Dark Age, 2007, Angels and Harvesters, 2012, tutte edite da Anvil Press, insieme a The Gospel of Joseph of Arimathea, (Iona Books) 2007 e Voices of the Book of Kells, 2012, confermano la natura esplorativa di questa ricerca, attraverso i due elementi che raccolgono e  alimentano la poesia di Harpur: la luce e la tenebra, che non solo non le è opposta, ma le è complemento speculare ed essenziale.

Uno degli aspetti più profondi e significativi della mentalità celtica è la fascinazione per tutto ciò che è passaggio, trasformazione, per il liminale, per quello spazio e quel tempo che si insinuano fra il momento in cui tutto finisce e quello in cui tutto inizia di nuovo, secondo un tempo ciclico, per quello iato abissale che si apre sul mistero che irrompe fra il “non più” e il “non ancora”. Il non casuale twilight di Yeats.  Questo spazio incommensurabile, temibile nel quale si inoltra il pensiero del mistico e dell’artista.

È questo spazio che Harpur esplora. Perché per lui il faticoso e misterioso processo creativo è simile a quello della ricerca spirituale. Lo afferma più volte lui stesso. Un’avventurosa, travagliata esplorazione come uomo e come artista, non immune dal dolore, che tanto somiglia al fortunoso viaggio di Brendano, cui del resto Harpur dedica in The Dark Age un testo qui presentato.

Come dice Adam Zagajevski, “nella poesia si mette ciò che non si sa”. Ma il non sapere richiede che solidi siano i supporti da cui muovere. Per non perdersi nelle fauci del nulla. Il percorso che Harpur si è scelto quindi, chiede strumenti adatti. La sua formazione classica (conosce perfettamente il greco e il latino e gli autori della classicità, di cui ha fatto alcune traduzioni) lo spinge ad esplorare le possibilità che la metrica antica, greca soprattutto, offre alla sua lingua. Trimetro giambico, pentametro, distico elegiaco suonano nel suo inglese con lo stesso elegante equilibrio classico dei testi redatti dagli antichi monaci e santi irlandesi che preservarono la cultura antica e la mantennero viva nelle abbazie, nei cenobi e nei monasteri da loro fondati. Ma l’attingere al patrimonio metrico degli antichi non è solo un espediente tecnico, è l’attingere direttamente alla fonte poetica di quella cultura, da cui non si sente affatto separato o lontano.

Tipicamente irlandese è questa fusione armonica – quasi un fluire dell’una nell’altro –  fra l’antica cultura celtica, rutilante di meandri, miti visionari, eroi luminosi anche se sconfitti, percorsi circolari e un cristianesimo coltissimo, esplorativo, costellato di santi anacoreti, misticismo, bizzarria e magia. Una spiritualità in fondo non poi così diversa, nelle sue componenti, da quanto l’ha preceduta in quell’isola.

Ed è infatti questo momento aurorale del cristianesimo, irlandese, ma anche greco e siriaco,  che affascina Harpur.  Non meno del lento estinguersi dell’antica tradizione classica nei suoi epigoni. Si veda la sua traduzione di Boezio dal titolo  The Fortune’s Prisoner, oppure L’augure a riposo, in Ossa oracolari;  non meno del patrimonio mitologico  celtico, che è costantemente presente in sottofondo.

Nell’interazione fra questi due momenti nella storia dell’Occidente, fra il paganesimo e il cristianesimo, fra l’antico e la modernità,  Harpur non legge solo il passaggio fra due epoche, fra due culture, ma un aspetto ben più profondo e inquietante; la lotta, appunto, fra natura e spirito. Come è nel mito di fondazione della conversione irlandese al cristianesimo da parte di San Patrizio, in cui i serpenti che egli scaccia dall’Irlanda, non sono altro che i pericolosi “rettili della mente” di Blake, niente affatto sconfitti.

“Il mio rapporto con la religione, col Cristianesimo e la chiesa è complesso. Mi considero un agnostico rinato, o un ricercatore spirituale. Sono attratto dai mistici di ogni religione e cultura, da Meister Eckhart a Rumi, a Kabir e dal più profondo e radicale maestro spirituale dei tempi moderni che io abbia mai incontrato, J. Krishnamurti. Nutro profonda diffidenza nei riguardi delle strutture religiose istituzionali e delle gerarchie e mi piace il commento di Blake, che, per il culto religioso, un pub sarebbe un luogo migliore di una chiesa”, afferma ancora Harpur nell’intervista già citata.

Fra quelle che Harpur definisce “questioni che nella mia vita sono state forza centrale e propulsiva”, non di secondaria importanza è il problema del fato, il chiedersi se un destino segnato esista, se lo si possa cambiare. È sicuramente centrale in The Monk’s Dream, raccolta pubblicata nel 1996, successivamente alla morte del padre. La poesia che dà il titolo alla raccolta si riferisce alle sospette circostanze della morte del poco amato re Guglielmo II (1056- 1100) in un incidente di caccia. Pare che un anonimo monaco avesse sognato la fine del re e l’avesse fatto avvertire, ma questo non cambiò il fato che lo attendeva. La sezione centrale di questa raccolta è dedicata interamente alla malattia, alla morte e ai funerali del padre di Harpur ed è una lunga meditatio mortis, ma anche una profonda riflessione sul destino finale di ogni vita. E ancora ritorna, come questione aperta, in Ossa oracolari, dove l’eroe nazionale Cuchulainn, protagonista del ciclo mitologico dell’Ulster, sfida il proprio destino già segnato, ignorando volutamente i segni premonitori e i tabù che non potrebbe infrangere, andando consapevolmente verso la morte. Morendo da eroe e da uomo libero.

Fondamentale è stata per lui, in età giovanile, la lettura di Jung e la scoperta della sua teoria dell’inconscio collettivo, che gli dischiudono una nuova visione del mito, quale narrazione fondante della psiche. Così Harpur legge, nelle vite dei santi, talvolta bizzarre e sorprendenti, una ricchezza di miti e leggende non meno articolati e variegati di quelli del mondo pagano e classico, tale da tracciare una mappa della psiche umana.

In questa inesausta ricerca della luce del Sacro attraverso la tenebra della psiche, individuale e collettiva, e della storia dell’uomo, Harpur conversa con i santi e i mistici e gli asceti pagani e cristiani, talvolta anonimi o immaginari, spesso realmente esistiti, ai quali non di rado dà voce. Con Jakob Böhme, con Giuliano di Norwich, con Richard Rolle, con Marguerite Porete. E, soprattutto, in un poemetto di circa 400 versi, con San Simeone lo Stilita, l’anacoreta la cui vita è una parabola della via negationis  che, non potendo fuggire dal mondo in orizzontale, lo fuggì in verticale, dimorando per trentasette anni su di una colonna alta quindici metri. Negando se stesso, la propria natura, la propria umanità, il mondo, alla ricerca dell’Assoluto. Ma solo per accorgersi poi, che il mondo accorreva a frotte verso di lui, talché sotto la sua colonna, come dice Harpur, si radunava una sorta di permanente Woodstock!

San Simeone, come lo scrittore, come il poeta, ha sete d’isolamento, di solitudine, ma come l’artista creatore, comprende poi di non poter trascendere, di non poter negare il mondo, così come lo comprese Faust.

Sostenute da un virtuosismo linguistico prodigioso, da una perizia tecnica degna di un antico bardo irlandese, tensione, ascensione, sete e cerca sono i punti nevralgici della sua poesia – poesia mistica, religiosa si potrebbe dire, consapevoli che per Harpur un mistico è anche l’artista – che forse ha solo in Gerard Manley Hopkins, seppur in modo e con origine del tutto diversi, un predecessore in lingua inglese. Forse soprattutto nella ricerca di un metro nuovo, di una lingua nuova, capaci di esprimere l’ineffabile, l’invisibile, l’ascesi, ma che nascono dalla consuetudine con l’antico,  ponendosi Harpur volutamente al di fuori delle correnti contemporanee postmoderne, e  tantomeno limitandosi a un chiuso mondo, in cui l’io rimane prigioniero delle cose cui arriva la sua vista fisica. No, il mondo di Harpur è fatto più di visioni, di rivelazioni che dalle cose emanano – della capacità di vedere il miracolo, il mistero,  irrompere nel quotidiano, come nel testo Angeli e mietitori che dà il nome all’ultima raccolta – e non ha confini né di tempo né di luogo. Ė terra incognita, l’oceano sconosciuto su cui si avventuravano Brendano e i suoi monaci alla ricerca dell’Isola dei Beati, incontrando nel corso del viaggio mostri minacciosi e dèmoni. È la sua stessa anima di poeta e di uomo.

L’uso di immagini sorprendenti e inattese, il concatenarsi delle metafore, la fluidificazione del mito, che scorre potente verso di noi con l’ardore bruciante della fiamma ma con veste rinnovata, e della sua potenza visionaria, la profonda conoscenza del patrimonio culturale dell’Irlanda celtica, della cultura classica, della tradizione cristiana, l’uso sottilissimo del linguaggio, fanno di Harpur il più irlandese dei poeti irlandesi. Perché è su queste basi culturali che si è formata l’Irlanda moderna.

Tutta la sua produzione poetica è un unico, ininterrotto dialogo, che fluisce lungo quel costone semi-illuminato che è il passaggio dal mondo antico e pagano alla modernità, e dalla modernità alla contemporaneità.

È una poesia fortemente impregnata di spiritualità dunque, molto nella grande tradizione  poetica bardica irlandese, ma una spiritualità che ha una profondissima connessione con la modernità.

Il travaglio del passaggio da un’epoca a un’altra infatti è l’eco del nostro, le domande  che torturano i suoi asceti, cristiani e pagani, i dubbi che attanagliano i suoi uomini,  i suoi peccatori, i suoi indovini, i suoi monaci, sospesi tra un mondo e un altro, sono i nostri, la fine drammatica  di un’epoca che si avvia incerta verso l’ignoto è la nostra.

 

Francesca Diano

[1] Intervista su Poetry Ireland Review, N° 105 Inverno, 2011/12

 

Nota biografica

James Harpur è nato in Gran Bretagna nel 1956 da genitori angloirlandesi, ma da molti anni si è trasferito a vivere  nella Contea di Cork.

Ha compiuto studi  classici, approfondendo poi la storia e la letteratura irlandese dei primi secoli del cristianesimo e della mistica medievale, laureandosi al Trinity College di Cambridge, ma possiede anche una solida formazione di latinista e di grecista, ha studiato l’ebraico e ha soggiornato per lunghi periodi sull’isola di Creta, ambiente che ha ispirato molte delle sue opere.

Ha pubblicato varie raccolte di testi poetici con la Anvil Press e attualmente il suo editore è Carcanet.

Come traduttore ha pubblicato una traduzione di Boezio, che ha intitolato Fortune’s Prisoner, oltre a traduzioni da Dante, da Virgilio, da Eschilo, da Plotino.

Da A Vision of Comets, a The Monk’s Dream, da The Dark Age a Oracle Bones, a Voices of the Book of Kells, le sue raccolte  poetiche gli hanno guadagnato moltissimi riconoscimenti e numerosi premi nazionali e internazionali, fra cui, nel 1995 The British National Poetry Prize, borse dalla Cork Arts Society, dall’Arts Council, dall’Eric Gregory Trust e dalla Society of Authors e, nel 2009, ha vinto il Michael Hartnett Award.

Nel 2007 ha pubblicato, con la Iona Books, The Gospel of Joseph of Arimathea, testo in prosa e versi.

Nel 2012 ha pubblicato la quinta raccolta poetica, Angels and Harvesters, sempre con la Anvil Press.

È direttore della sezione poesia  di Southword, uno dei più importanti e autorevoli  periodici letterari irlandesi e della Temenos Academy Review.

È stato poeta residente per il Munster Literary Centre, la Princess Grace Kelly Irish Library di Monaco e la Cattedrale di Exeter. Nel 2018 è stato poeta residente al Centro Culturale Irlandese a Parigi.

Tiene corsi  di scrittura poetica in varie università e istituzioni sia in Irlanda che in Gran Bretagna, letture pubbliche, televisive e radiofoniche ed è presente nei più importanti festival poetici, inoltre tiene regolari corsi di scrittura poetica per The Mythic Imagination, un’istituzione di ricerca poetica e filosofica di indirizzo neoplatonico fondata nel Dorset dalla sorella scrittrice e pittrice Merrily Harpur.

Nel 2018 uscirà una nuova raccolta poetica, In loco parentis, presso l’editore Carcanet.

Ha pubblicato testi in prosa, fra cui Love Burning in the Soul, una storia del pensiero mistico e studi sui miti e sulle Crociate.

Precedentemente in italiano è stato pubblicato un solo testo in prosa, da De Agostini nel 1990, l’Atlante dei luogi leggendari.

Nel 2016 ha vinto il prestigiosissimo Vincent Buckley Poetry Prize, assegnato ogni due anni dall’Università di Melbourne a un poeta di rilevanza internazionale.

Ha terminato di recente il suo primo romanzo, The Last Messiah, ambientato nell’Irlanda del 1916, durante i giorni precedenti alla Sollevazione di Pasqua, che ha già vinto il premio della 2016 Irish Writers’ Centre Novel Fair.

La sua prima opera poetica pubblicata in italiano, a mia cura, è il lungo poemetto San Simeone Stilita, Proget Edizioni 2017, oltre a una breve antologia sulla rivista  Poesia di Crocetti.

Vive a Clonakilty con la moglie e la figlia.

 

 

 

(C)2015 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Quaderno di traduzione

NOTA

Riporto qui alcune mie riflessioni sulla traduzione letteraria da un post pubblicato su Moltinpoesia, per cui ringrazio Ennio Abate che mi ha voluta gentilmente opsitare e che, da me scritte in forma di commenti, hanno preso alla fine, grazie ai numerosissimi commenti di altri, ( ringrazio di cuore per questo Erminia, Emy, Rosanna, Larry, Giorgio), la forma di un piccolo seminario sulla traduzione.
Per me è stata un’utilissima occasione di dare rilievo ad alcuni aspetti che, mi accorgo, sono frutto della mia ormai lunga esperienza e in fondo posso dire formino la mia idea di traduzione letteraria.
****************************************
Per me diventare traduttrice è stato un caso – se mai caso esiste. Ho iniziato a farmi le ossa quando a 16 anni mio padre mi diede un piccolo preziosissimo libro , in una traduzione francese dall’originario giapponese, Il libro del Tè di Kakuzo Okakura, e mi disse: traduci! Io il francese lo mastico molto male, non l’ho mai veramente studiato e gli dissi che era impossibile. Mi rispose che niente è impossibile se lo vogliamo col cuore. Così mi ci misi e la cosa strana era che…capivo.
Poi ho davvero iniziato nel modo più duro che si potesse immaginare, quando ho tradotto dal tedesco, lingua che invece ho studiata, uno dei testi più difficili che ci si possa trovare in mano, un testo di un grandissimo critico d’arte viennese dei primi del 900, la Grammatica storica delle arti figurative , di Alois Riegl,(mia traduzione  poi pubblicata da Cappelli nel 1983).
Iniziai la traduzione per la mia tesi su quel libro e la seguitai anche dopo. Ci misi due anni. Questo perché nel frattempo facevo altre cose e perché il tedesco di questo autore è il più difficile e specialistico che ci sia. In seguito ho tradotto un libro meraviglioso, quello che ha cambiato la mia vita. Un libro antico di leggende irlandesi. Le Leggende e tradizioni dell’Irlanda meridionale  di Thomas Crofton Croker. All’inizio lo tradussi per i miei bambini, solo in seguito cercai un editore. Da quel libro è iniziata una collaborazione costante anche come consulente editoriale con un grande editore, per il quale costruii gli inizi di una collana di autori indiani, molti dei quali ho tradotto, tra cui Anita Nair che allora era giovane e sconosciuta. Ma nel numero dei molti autori tradotti, solo  tre  sono grandi autori: T.C. Croker, Sudhir Kakar e Anita Nair, gli altri, non solo indiani, erano autori di medio valore o di nessun valore, appunto di quelli da cassetta. Come importanza  letteraria poca o nulla. Traducendo questi  “miei” autori, ho imparato moltissimo in termini di stile, di struttura narrativa, di coerenza e compattezza. Questo è per me un aspetto molto importante della traduzione; quando si traduce, in un certo senso si “entra” nella struttura di un testo, la si vede dal suo interno, perché è solo così che la si può poi ricreare. Dunque questo ti insegna quelli che sono gli strumenti di base, i ferri del mestiere della scrittura. Senza questo, è difficile fare una buona traduzione. Dunque tradurre non è un’operazione a senso unico – tu che traduci l’autore – ma uno scambio reciproco – l’autore ti mette a disposizione i suoi segreti e te li dona.
Ho sempre considerato la traduzione un compito importante che unisce epoche, culture e popoli e in questo sono molto, ma molto lontana da tutte le querelles che ammorbano l’attuale panorama di molti dei traduttori italiani e delle loro cammarille.
Ho visto veri e propri orrori di incapaci a cui vengono affidate traduzioni di grandi autori, poeti e scrittori, che massacrano e distruggono.
Una pratica che mi ha insegnato moltissimo è quella  di tradurre me stessa (testi narrativi e poetici o saggi)  o di scrivere direttamente in inglese, che nelle poesie mi viene molto naturale. Questa pratica è utilissima ad esempio per perfezionare un testo scritto in italiano, perché i problemi posti dall’inglese esigono che il testo italiano sia chiarissimo e lineare. Consiglio a tutti quelli che siano in grado di farlo, di autotradursi per capire se un testo scritto in italiano funziona. E’ una pratica meravigliosa.
Ribadisco che le scuole di traduzione e comunque le teorie della traduzione in genere, non sono di molta utilità, se non come interessantissima lettura. Arte è fare. Le teorie vengono a posteriori, come le grammatiche. Per quanto mi riguarda, mi considero un’operaia o un’artigiana della traduzione, proprio nel senso che ho iniziato con un lungo apprendistato e con la fortuna di aver imparato direttamente da un grande Maestro.
Nella traduzione poetica credo che l’orecchio musicale sia indispensabile,  dato che la poesia, anche quella senza apparenti regole metriche, è musica, e se il traduttore non ha un orecchio musicale, né percepirà quella musica nell’originale, né sarà in grado di ricrearne una nella propria lingua. E’  per questo motivo che dico che si deve essere poeti, cioè si deve essere in grado di trasporre in una forma poetica un teso poetico. E se uno non è poeta, se non conosce per natura e per frequentazione pratica la tecnica, come fa? Lo stesso Fortini, grande maestro di traduzione, lo sapeva bene e lo ha in più sedi detto e messo in pratica.
L’Italia credo sia uno dei o il paese dove si traducono più libri stranieri e i motivi sono molti. Non certo perché da noi si pubblichino pochi autori. Ma salta agli occhi il fatto che quando si va in una libreria in Francia, in Inghilterra o negli USA, il reparto dei libri stranieri in traduzione è davvero esiguo rispetto al numero di quelli in inglese e francese. Quello che si pubblica in inglese poi ha un mercato immenso, dall’UK agli USA dall’India all’Australia e a molti altri paesi orientali, dove l’inglese è lingua franca. Si parla di un bacino di moltissime centinaia di milioni di possibili lettori. Dunque, anche se ovunque l’editoria tira meno, lì gli editori hanno meno problemi dei nostri, per non dire che la distribuzione non è così esosa e quindi ciò che viene tradotto è in genere ciò che si ritiene abbia qualche valore e chi traduce tende ad essere specializzato, gode di maggiore rispetto e viene pagato meglio. Da noi si traduce tutto e l’enorme diffusione dell’inglese, oltre alla sua apparente facilità, dà l’idea errata che basti conoscerlo un po’. Con le conseguenze del caso.
Mi viene in mente una delle due volte che ho accettato di rivedere una traduzione altrui. Si trattava di una scrittrice cinese americana, di quel filone minimalista. Niente di importante, ma raccontini graziosi. Il primo racconto era la narrazione in prima persona di una vecchia donna cinese trapiantata negli USA e del suo modo di vedere la vita americana. L’inglese era smozzicato e bizzarro, come di chi non sia riuscito ad adattarsi e anche dopo molti anni non sia padrone della lingua, con “errori” che diventavano giochi di parole molto divertenti. L’incapace traduttore a cui era stato affidato il testo non aveva capito quasi nulla, né lo stile riproduceva l’intento e il sapore dell’originale. Così sono andata in un ristorante cinese e ho parlato più volte con la moglie del proprietario, che pur non anziana, aveva una certa età e parlava italiano male. Mi sono fatta l’orecchio e ho riprodotto nella traduzione quella modalità. Ero pure riuscita a ricreare dei giochi di parole nati da errori. Che fa l’editore? (con cui lavoravo da 7 anni) dice che no, non si può….perché è poco corretto… ma così era nell’originale! I bravi editor hanno appiattito tutto in una lingua banale e il racconto ha perso ogni senso.
 Però c’è perfino  chi arriva a porre una questione di base: si deve (si può) o non si deve (non si può) tradurre? Introducendo l’idea di una legittimità o meno della traduzione tout court.
Vorrei dire che, partendo da questo punto di vista, perfino la lettura di un testo è un “tradurre”, perché, come ben sa chi scrive, per quanto si lavori sul testo, perché la parola convogli “quel” preciso senso-segnale, nessuno potrà mai ricostruire tutto il percorso – e dunque il vero senso – che ha portato a quella scelta.  Anche leggere è tradurre. Dall’autore al lettore – tanto più se ciò che leggiamo appartiene a epoche da noi lontane – ciò che un lettore “comprende” non sarà mai quello che potrà comprendere un lettore contemporaneo all’autore e persino l’autore stesso. La medesima cosa è ben nota anche nel campo dell’arte.
Iniziare a porsi la questione del perché si traduca è, a mio avviso, una questione di lana caprina, pura perdita di tempo, non ha senso, oltre ad essere stupida. Eppure c’è chi, non avendo mai tradotto nulla in vita sua,  lo fa.
Si traduce da sempre. Perché? Perché l’uomo vuole sapere quello che l’altro dice, vuole ascoltare storie venute da lontano. Pascal diceva che se la gente se ne stesse a casa sua invece di uscire di casa, la storia del mondo sarebbe diversa. Ma la gente esce di casa ed è curiosa. Con le traduzioni si sono cambiate intere culture.
Ciò su cui si può puntare è una sorta di “quintessenza” che il testo contiene e che, nel caso di grandi opere, attraversa i tempi, gli spazi e le culture. In genere questi li chiamiamo “classici”.
Partendo dal linguaggio tecnico-scientifico: qui parrebbe che la questione non si ponga. In effetti non è del tutto così. Se prendiamo testi scientifici in cui si presentano ricerche in campi prima inesplorati, per i quali l’autore conia termini e concetti nuovi, chi traduce non ha referenti precedenti e dovrà coniare un neologismo che gli corrisponda nella propria lingua.
In realtà la questione, questione che si è posta fin dall’antichità (la necessità della traduzione è antichissima, anche perché è proprio grazie alle traduzioni che si sono diffuse le idee, con tutto il loro carico di trasformazione – (si pensi ai filosofi greci tradotti dagli arabi e così tornati in occidente) non ha sfumature di maggiore o minore legittimità o possibilità, man mano che dal linguaggio scientifico si procede verso quello letterario, narrativo e poetico.
La vera priorità, più che una competenza semplicemente antropologica, è l’analisi filologica del testo. E un’analisi filologica richiede competenze e conoscenze che non sono di tutti.
Dunque, la specializzazione del traduttore, che soprattutto per i classici o i grandi, non può essere il primo raccomandato o infilato.
Io posso portare la testimonianza di un grande maestro, che è stato anche grandissimo traduttore dei tragici greci, che attraverso un’analisi filologica, storica, filosofica – a volta perfino di una singola parola – ecc. di quei testi, ne ha rovesciato spesso il senso ormai passivamente acquisito.
Quanto alla poesia, valgono gli stessi principi, con in più la difficoltà di trovare una forma poetica. Certo, nessuna traduzione, per quanto meravigliosa, filologica, che diventa prima di tutto un atto di conoscenza per chi la fa, potrà ritrovare certe sottilissime ambiguità, allusività, sonorità dell’originale. Ma ci si prova e il lavoro è entusiasmante.
Figurarsi dunque cosa avviene quando si affidano a dei traduttori avventizi, che di grande hanno solo l’ignoranza, ma sono da noi acclamati come eccelsi, testi che richiedono studio di anni, amore e molta, molta umiltà.
 E’ bene precisare che qui si sta parlando di traduzione letteraria. Cioè di letteratura vera, non di roba di cassetta. Dunque il mio discorso a quella si riferisce. Non ho la ridicola pretesa di escludere  assolutamente i giovani traduttori che devono farsi le ossa. E ci mancherebbe altro! Dovranno pure imparare. Anche se ci sono casi in cui un giovane traduttore di eccellenza, con molte competenze e capacità già acquisite, sia in grado di produrre traduzioni di qualità assai più alta di certi vecchi barbogi ben appollaiati sui loro rami.
Quello che intendevo è che chi commissiona una traduzione, DEVE capire a chi affidarla. Affidare un grande autore a un principiante solo perché si risparmia, o all’amico che non conosce l’autore e l’argomento, ma solo perché è l’amico è, oltre che stupido, controproducente. Ai principianti si potranno affidare testi – e gli editori italiani ne sfornano a bizzeffe – di autori magari di cassetta, ma mediocri scrittori. Così anche se il giovane principiante fa una mediocre traduzione, va bene lo stesso, non è n gran danno.
Affidare a chi ha conoscenza, esperienza e qualità un testo letterario (saggio, romanzo, poesia, poema ecc.) significa rispettare quel testo e il risultato non potrà essere che soddisfacente da ogni punto di vista.
Un buon traduttore delle teorie non sa che farsene. Ci vuole pratica ed esperienza – fermo restando che anche per fare i traduttori ci vuole una predisposizione. Certo che  ascoltare le esperienze e gli errori che tutti i traduttori esperti hanno fatto non possa che far bene, ma poi ciascuno si deve fare gli errori suoi.
L’unica pratica utile può essere l’analisi testuale e sul testo le motivazioni del perché si scelga di tradurre in un modo piuttosto che in un altro. Ma non è teoria, è pratica.
Tim Parks, uno dei più noti traduttori, che tiene corsi di traduzione letteraria allo IULM, nel suo libro “Tradurre l’inglese”, in realtà non fornisce alcuna teoria sulla traduzione, ma prende famosi testi letterari in inglese e esamina (cioè fa le bucce a) con molta attenzione le varie traduzioni italiane che ne sono state fatte (ad esempio Virginia Woolf, D H Lawrence). Sono piene di errori, fraintendimenti, anche molto grossolani, stile mediocre. Non teorizza, ma indica punto per punto gli errori e li corregge. Detto tra parentesi, io fossi uno di quei traduttori o traduttrici andrei a nascondermi.
Esiste una traduzione de The Dubliners, che è illegibile tanto saltano all’occhio gli errori, per non dire dello stile. Chi l’ha fatta non è giovane, ma non sa tradurre. Il che significa che pratica ed esperienza non bastano.
Quando ho velocemente riassunto il mio percorso, ho specificato che ho avuto un grande Maestro, mio padre. Non perché si metteva a teorizzare come si traduce, ma perché osservavo come traduceva lui. Non tutti hanno questa fortuna, ovvio. E io stessa ho imparato – e ancora non ho finito di imparare – solo con gli anni. Io stessa non mi sentirei di tradurre tutto, come molti fanno. A parte cose non molto importanti, so di poter tradurre solo quello di cui almeno ho conoscenza. Poi qualcosa ci si inventa. Una volta dovevo tradurre un testo di un autore indiano in cui si parlava di rugby. Io non so nulla del rugby, così sono andata a vedermi una partita e ho messo l’allenatore in un angolo finché non mi ha spiegato le regole e i termini.
 Ho ritrovato con molta gioia che le idee che Fortini aveva della traduzione, non si discostano molto dalla mia. Mi sarebbe molto piaciuto poter ascoltare quelle lezioni, di cui non so quanto nell’operazione della Quodlibet resti, ma è lo stesso Fortini a sostenere che chi teorizza sulla traduzione non è necessariamente un buon traduttore e un buon traduttore può aver difficoltà a spiegare le proprie scelte.
Voglio fare un esempio in base una realtà di cui ho diretta conoscenza. (credo sempre alla potenza dell’esempio pratico) Nella musica indiana, il metodo che si usa da centinaia di anni a tutt’oggi si chiama guru-shishya parampara, che significa “apprendimento diretto pratico dal maestro all’allievo”. In genere si inizia fin dalla prima infanzia, mettendosi a seguire la pratica (pratica!) di un maestro che non ti impartisce alcuna lezione teorica. Nemmeno per sogno. Ti metti lì a guardare e ripeti esattamente quello che fa lui. E ripeti, ripeti, ripeti, per anni e anni. Il maestro non ti spiega nulla. Nulla! Mostra solo e ti mette a fare. In India si parla di un “giovane musicista” di uno o una verso i 40 anni. Tanto lunga è la pratica che si richiede. Altro esempio: nelle botteghe degli artisti del passato, si entrava ragazzini e si iniziava a spazzare il pavimento, a pulire a mettere in ordine. Questo permetteva di conoscere intanto gli strumenti del mestiere, di prendere contatto, Dopo alcuni anni si potevano pestare i colori, fare le mestiche ecc. Poi, solo poi si iniziava a dipingere e solo dei particolari. Rarissimi sono gli esempi di geni che iniziarono a fare capolavori molto giovani. Cioè a qualunque pratica creativa ci si avvicina con rispetto, pazienza e pratica.
Nel riportare l’esempio del guru-shishya parampara,(tecnica di apprendimento che in India si estende a ogni campo del sapere) che di fatto si basa sull’apprendimento naturale, come quando i bambini imparano a parlare (non gli si insegna certo la grammatica per imparare a parlare!) mi pare evidente che l’apprendimento non è affatto meccanico, come qualcuno molto malaccorto e assai poco informato di questa cosa ha pensato bene di osservare una volta,  ma al contrario, mette in condizione l’allievo di sperimentare ogni possibile sfumatura della tecnica e della conoscenza per poter poi essere libero di interpretare la disciplina mettendoci del suo. La teoria è inclusa nella pratica e, come chiunque insegni sa, la dimostrazione è la miglior maestra. La conoscenza della tecnica, che si acquisisce con la pratica e l’esperienza, rende liberi. Chi padroneggia la tecnica è finalmente in grado di “iniziare a fare”. Tutto tranne che meccanico!
Ovvio che molti non saranno d’accordo oggi. Oggi le idee sono molto diverse. E ben venga. Ognuno deve trovarsi la via che più risuona con ciò che si è.
Io, ripeto ancora, non sono una teorica e non ho nulla da insegnare a nessuno, se non raccontare ciò che ho imparato io e quel poco che ho capito. Se per via c’è chi lo condivide ne sono felice, perché ci si trova tra compagni a fare un pezzo di strada insieme, se invece non lo condivide va bene lo stesso. La mia non è insoddisfazione, ma constatazione. Mi dispiace solo che poi molti capolavori vengano lasciati intradotti (si può usare questo termine?) per la cecità, stupidità e ignoranza di molti editori.

(C)2012 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA