Le paure dell’Occidente

Black Iris. Georgia O’Keefee, 1926

L’Occidente ha rimosso il concetto, l’idea stessa della morte. Non lo dico io, ma moltissimi studi di sociologi, psicologi, antropologi, storici del costume, filosofi ecc. L’ha rimosso perché ne ha paura, ne ha terrore. Ovvio, chi non teme la morte, a parte le anime più evolute, che hanno fatto della spiritualità il loro percorso di vita? A parte chi non vede nella morte una fine, ma un nuovo inizio, o uno stadio di un lungo cammino? Ma, nella psicologia collettiva dell’Occidente moderno, e ormai direi anche nel suo inconscio collettivo ahimè, la morte è una fine. E lo è perché si tendono a privilegiare solo gli aspetti materiali della vita: l’efficienza e il benessere fisico del corpo, la giovinezza, che si tenta disperatamente di conservare almeno nell’aspetto, fino a giungere ad effetti grotteschi, con mille metodi spesso cruenti, la ricchezza, lo status sociale – indicato dall’esibizione volgare di brand e marchi di lusso, auto costose, stile di vita dispendioso – il successo misurato solo ed esclusivamente dalla disponibilità economica o dalla sua apparenza, l’esibizionismo e il narcisismo alimentati in modo parossistico dai social media. La svalutazione dei rapporti umani più profondi e autentici.

Molte di queste cose sono un prodotto di esportazione dell’America, dove degli individui si parla non chiamandoli per nome e cognome, ma citando i loro redditi annuali. He’s a 2.5 million $ man, he’s a 700.000 $ man, ecc. tanto per fare un esempio. Dunque la morte priva di tutto questo (“Il sudario non ha tasche”, ha detto papa Francesco, anche se poi s’è scoperto che ha un più che sostanzioso conto bancario personale), priva cioè di tutto quello che, in mancanza di una visione metafisica, in mancanza di una trascendenza, dà un senso alla vita e la rende degna di essere vissuta. Dopo non c’è che il nulla. Mentre si vive in solitudine, anche in mezzo alla folla, anche costantemente “connessi” grazie alle tecnologie con gente che non vediamo e non tocchiamo. E spesso nemmeno conosciamo.

Ma c’è dell’altro. La rimozione di qualcosa che ci fa paura è un meccanismo di difesa della psiche ben noto in letteratura. Non del tutto efficace sul lungo percorso, anzi dannoso, ma utile nell’immediato. In una società materialista e che ha eliminato il concetto del Sacro, la morte è oscena, disturbante. Ci ricorda che il nostro tempo è limitato e che non siamo eterni, così come tutti i trastulli forniti dai beni materiali di cui siamo inondati invece vorrebbero farci credere. La cultura, la conoscenza, il coltivare la spiritualità, il guardarsi dentro, il fare i conti con sé stessi non sono cose gradite, perché ci mettono in contatto con gli strati più profondi, in cui si annidano appunto le nostre paure. E, se mai ci si rivolge a queste dimensioni, lo si fa spesso in modo passivo, delegando ai media, ai finti santoni e venditori di spiritualità, ai truffatori, ai manipolatori delle coscienze, un lavoro che dovremmo fare noi. Così non siamo più abituati a prenderci cura della nostra anima in modo attivo. Non siamo abituati perché siamo stati accuratamente educati a non farlo. Se lo facessimo, non saremmo più un semplice numero sterminato di consumatori di beni e di prodotti che l’industria del consumismo sforna a ritmi deliranti per mantenere sé stessa, ma anche per alimentare i poteri che dominano il mondo. Siamo burattini mossi da fili che rifiutiamo di vedere. Che temiamo di vedere.

Parlo di paure, e volutamente evito di menzionare ciò da cui nasce la psicosi collettiva che sta avvolgendo l’Occidente e i paesi occidentalizzati in questi giorni. Ma, quello cui tutti stiamo assistendo, lo spauracchio di una pandemia, spauracchio che si autoalimenta, e le reazioni inconsulte e talvolta deliranti della gente e dei media, non è che la conferma di quanto s’è detto. All’improvviso l’Occidente si è svegliato e ha scoperto che si può morire!

Ovvio che tutti lo sappiamo, ma un conto è l’idea astratta, un conto vedere città semideserte, scuole, musei, negozi ed esercizi pubblici chiusi, gente isolata in quarantena, personale che si aggira in tute bianche come nei film catastrofici, gente che teme di darsi la mano, ecc. Ascoltare a tamburo battente bollettini terrorizzanti, notizie contraddittorie che generano panico e caos. Sentire che quello che accade è un’emergenza cui l’Occidente, ricco e sfruttatore dei paesi più poveri, non è preparato. E la parola CONTAGIO che viene ripetuta ovunque. All’improvviso ci siamo resi conto che il tranquillo tran-tran cui siamo abituati, il sonno delle coscienze cullato da social media, smartphone, TV, viene interrotto da eventi e misure che solo chi ha attraversato gli orrori della II Guerra Mondiale ricorda.  E quelli che lo ricordano sono ormai ultranovantenni.

La morte fa parte della vita, anzi, secondo un’antica visione celtica, è “il punto centrale di una lunga vita”, ma fa parte della vita se ne abbiamo consapevolezza. Rispetto al passato, in Occidente e nei paesi occidentalizzati, l’aspettativa di vita non è mai stata così alta, e quando si muore, raramente si muore in famiglia, ma negli ospedali e nelle cliniche. Nascosti al mondo insomma. La naturalezza della morte, nel proprio letto se malati, circondati dai propri cari, che vedevano nel corso della loro vita morire giovani e anziani e dunque avevano dimestichezza con il distacco, reso amorevole e solenne e sacro da riti funebri carichi di significato e bellezza, quella naturalezza è scomparsa.

Non a caso, dunque, le migliaia di morti di questa che è stata classificata come pandemia, in alcune regioni italiane vengono fatte sparire dagli ospedali senza che i familiari possano non solo dare loro l’ultimo saluto, ma nemmeno hanno un funerale e vengono cremati lontano dagli occhi di tutti. Sono solo numeri, snocciolati quotidianamente dai bollettini ufficiali. Numeri… privati della loro individualità, umanità, della loro storia. Numeri… Cose.

Dunque, quando, non gradualmente, non dolcemente, ma tutto a un tratto e nel modo più violento, media e potere politico non meno confusi e disorientati quanto tutti gli altri, ma forse non così innocenti, ci dicono UFFICIALMENTE qualcosa che l’uomo ha sempre saputo, ma  che è stato rimosso da un mondo egoico, da una società malata,  e cioè che siamo mortali, si scatena il panico. Non siamo più preparati, non abbiamo più gli anticorpi dei nostri antenati per affrontare le paure ancestrali che in realtà non sono mai scomparse, perché sono parte integrante dell’identità della nostra specie. Affrontare i rischi del vivere diventa un’emergenza invece che pratica quotidiana.  La fragile superiorità ed evoluzione storica che l’Occidente crede di aver raggiunto, alla fine non è che una sottile pellicola pronta a sfilacciarsi quando la Natura mostra la sua potenza.

E questo ci espone al pericolo di essere manipolati. Dai media, dai poteri politici ed economici che ben conoscono i meccanismi della manipolazione. Perché la paura è lo strumento più potente per manipolare e paralizzare le persone, chiudendole in una gabbia da loro stessi costruita.  Capace di operare una regressione a stadi infantili e primitivi.

Eppure, in tutto questo c’è moltissimo di positivo. Ed è il risveglio della coscienza. Una società in  cui la coscienza sia sopita, in cui viga il pensiero unico, in cui si demandi a qualcun altro – in genere poco raccomandabile – la direzione che ci è necessario prendere,  è una società sofferente, che si nutre di angoscia e di paure.  Il terrore che attanaglia l’Occidente e i paesi occidentalizzati in questi giorni non è che la proiezione, su un evento esterno, della sofferenza e dell’angoscia generate da una coscienza ignorata a livello individuale ormai da troppo tempo. Una regressione a una fase neonatale. Ebbene, questo evento, come anche il ritrovarsi al potere in molti paesi di premier e politici e supposti esperti che si possono tranquillamente definire degli psicopatici (come spesso in passato anche è accaduto), i quali non agiscono per il bene del proprio paese, ma spinti da pericolosi impulsi narcisistici e di interesse personale, ci richiama alla consapevolezza. E’ un risveglio. Non esistono male e bene assoluti nell’economia dell’universo. Esistono percorsi.

Dunque, è giusto applicare misure di prudenza e di prevenzione di fronte a momenti come questi, giusto salutare con ammirazione e rispetto il lavoro di tutti coloro che si prodigano attivamente per risolvere il problema, ma è errato alimentare paure irrazionali, che infettano le coscienze e paralizzano e distruggono e causano danni più di qualunque agente patogeno. Giusto è, io credo, riconnettersi con la nostra parte spirituale, col nostro Sé e, soprattutto, amare noi stessi e la vita che ci è stata data in dono e, in tal modo, non chiudere la porta al mondo. Giusto è, io credo, non lasciare che altri ci usino e ci manipolino usando gli strumenti del terrore e della paura. Giusto è, io credo, ricordare che i rapporti umani, la cura, gli affetti, l’amorevolezza, l’attenzione, la difesa della dignità umana e un sano e robusto pensiero critico sono le più grandi armi che possediamo per sconfiggere i lati oscuri dell’Occidente. E i nostri.

Francesca Diano

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