Dell’infinito bene. Un dialogo fra Epicuro e Leopardi.

Ho scritto questo dialogo in occasione del III Convegno Epicureo tenutosi a Senigallia nel luglio 2021 ed è stato messo in scena a Recanati dalla compagnia teatrale Nuovo Melograno. Il dialogo si ispira a quel capolavoro che è La poetica di Epicuro, il meraviglioso dialogo scritto da Carlo Diano.

FRANCESCA DIANO

Credit: UIG via Getty Images/PHAS

EPICURO. Oh, non si smette d’incontrare persone in queste lande. Non avevo finito di discorrere con grammatici e poeti, che ecco arrivarne un altro. È davvero una folla! Ora chi sarà questo che si guarda intorno smarrito? È forse uno dei miei? Non può essere. L’immortalità è di quei pochi che hanno detto o fatto qualcosa di nuovo nel mondo, come ho potuto scoprire io stesso. Ne parlavo proprio con quel grammatico.

LEOPARDI. Ma tu non sei forse Epicuro? Dunque quanto consigliavi per vincere la paura della morte col tuo Tetrafarmaco non si è provato vero. E analoga riflessione potrei fare su me stesso, poiché io anche lo credevo. E invece… come mai?

EPICURO. Sì, sono proprio io. La cosa non ti sorprenda. Ma, se sei qui e io t’intendo, anche tu devi essere di quei pochi che hanno detto o fatto qualcosa di nuovo. Tu pure, come me, sei pensiero. Puro pensiero. È così che comunichiamo. Per quanto mi riguarda, in vita tentai di insegnare agli uomini la via della felicità. Ma temo, con poche eccezioni, di non essere riuscito del tutto nel mio intento. Anzi, affatto. Gli uomini non amano essere felici. Tanto meno amano filosofare. Sembra non sappiano far altro che azzuffarsi, litigare, oppure vivere nel passato o guardare ciecamente al futuro. Preda di rancori, rimpianti e desideri, non vivono mai. Ma, per coloro che vogliano seguirla, la via l’ho indicata. Dunque, quando insegnavo che non si deve aver paura della morte perché essere e non essere non si danno insieme, insegnavo il vero, ciò che avviene per i più. E comunque, quando sopravvivi come puro pensiero, come ci accade, non c’è da aver paura.

LEOPARDI. Ah sì, davvero, l’infelicità è la sola cosa certa e costante della vita umana. Su questo ti do piena ragione. Gli uomini vi han trovato una sorta di medicina, che pure se più amara del male che dovrebbe curare, sembra loro irrinunciabile. Negano il presente alternando ricordanze e illusioni. Ma non esiste né passato, né presente, né futuro. Tutto è eterno e interminato. Quest’idea non mi fu estranea e n’ebbi paura di quella infinità. E tu di infinito te ne intendi. Tu fosti il primo a parlarne fra gli antichi.

Io, per me, fui estraneo al mio secolo, non mi unii alle esultanze dei miei contemporanei che ne festeggiavano le glorie. Le trovai invece fallaci. E infatti…

EPICURO. Dunque anche tu t’aspettavi che tutto si dissolvesse con la morte? E invece così non è, almeno per alcuni, come vedi.

14 giugno 1837: muore Giacomo Leopardi - SettimanaNews

LEOPARDI. Sì, come te pensavo che dopo la morte non ci fosse più nulla. Devo convenire, all’opposto, che è proprio come raccontarono le mummie di Federigo Ruysch in un’operetta ch’io scrissi. Solo che io quelle le intendevo per celia. Eppure… talvolta le idee più bizzarre si provano vere. Dunque, anche per noi gli atomi permangono in una qualche forma, seppure non capisco ancora in quale forma. Io t’intendo nel pensiero e percepisco la tua presenza. È davvero poi cosa che desta meraviglia questo mio comprendere intero il tuo pensiero, quasi stessimo dialogando, anche quello che – io vivo – m’era ancora sconosciuto. Diceva dunque il vero Eraclito: gli uomini attende dopo la morte quello che non si aspettano né immaginano.

EPICURO. Eraclito… quell’adoratore del fuoco. Ma devo ammettere ora che su qualcosa aveva ragione. L’hai detto, siamo puro pensiero. L’anima e il corpo si sono dissolti. Difatti, mentre tu mi hai riconosciuto grazie ai simulacri dei miei ritratti, io non so chi tu sia.

LEOPARDI. Me lo sono chiesto tutta la vita o Epicuro, senza veramente capirlo, se non forse alla fine. Ma se vuoi una definizione, posso dirti un poeta. La poesia fu la sola certezza. Si divorò la mia intera vita e io gliela offrii con gioia. Ed ora vedo che qualche segno di me ho lasciato nel mondo, se devo stare a quanto m’hai detto dell’immortalità.

EPICURO. Un altro!

LEOPARDI. Un altro? Ne hai visti tanti di poeti qui in giro?

EPICURO. Uno solo, a dir la verità; ma m’è bastato e avanzato, anche se ve ne sono molti a quanto pare. I poeti non li volevo nel mio Giardino. Sono degli esaltati, dei fanatici. Eppure tu non parli del tutto la lingua dei poeti.

LEOPARDI. Credo tu non ti sbagli. C’è chi ha visto nella mia poetica una sorta di filosofia. E invero, come tu dicevi, non mi sono mai stancato di filosofare, checché ne dicano molti che di filosofia non capiscono un bel nulla. Nell’età presente li chiamano critici. Persino alcuni filosofi lo negano. Proprio quelli che usano la filosofia come i cortigiani del Re Sole usavano i profumi più rari: per coprire i fetori. Ma io lo saprò ben più di loro, no? Ti posso anzi dire che senza la filosofia non sarei stato poeta e senza la poesia non sarei stato filosofo. Sono due vie apparentemente diverse, eppure talvolta s’incontrano. Di esempi fra gli antichi ne abbiamo. Eccoti la risposta.

EPICURO. E dimmi, la poesia t’è stata d’aiuto?

LEOPARDI. Lo è stata per certo, perché m’ha permesso di dare ordine e senso a quell’oceano tempestoso d’infelicità, entusiasmi, passioni, disperazione, tumulti, disillusioni, slanci e cadute e insomma a tutto quel coacervo di affetti che altrimenti m’avrebbe travolto e forse condotto alla stessa scelta di Saffo e di Bruto.

Ma, come vedi, la poesia non basta sola. Non basta saper versare con arte ciò che nell’anima ci preme nelle forme che la poesia chiede di volta in volta al poeta. Non basta il canto, ché sarebbe un vuoto e vano esercizio di stile.

EPICURO. È interessante quello che dici. Dunque tu non credi che passione e stile bastino a far la poesia?

LEOPARDI. No di certo. È necessario anche un pensiero coerente che ne sorregga la struttura con fondamenta e architravi robuste. Ed io sempre del pensiero ho nutrito la mia poesia e ho badato a costruire un edificio che stesse ben saldo. Quindi, ho fatto come tu suggerivi, ho filosofato, solamente l’ho fatto da poeta. Non divenni sentimentale se non quando, perduta la fantasia, divenni insensibile alla natura e, tutto dedito alla ragione e al vero, e insomma solamente filosofo.

EPICURO. In questo mi ricordi Lucrezio, cui riconosco grandezza e unicità di poeta. E i poeti, tu lo sai, non mi sono andati mai troppo a genio. Con loro non c’è da star sicuri, non sai mai quello che ti combinano.

LEOPARDI. Non ho osato mai nemmeno pensare di eguagliare l’immensa grandezza di Lucrezio. Non credetti di avere altrettanto genio, o sacra follia, né fu il mio pensiero così visionario né bruciante. Ma tentai io pure di dare un volto alla Natura e, quando la vidi in tutta la sua terribile potenza, ne fui atterrito e come annichilito,

EPICURO. La Natura è ciò che è. Non è né terribile né misericordiosa. È.

LEOPARDI. Certo. Così è se non la si considera nei riguardi degli uomini, poiché proprio in quel suo essere, senza alcun correlato, proprio in quel suo esistere per sé stessa è la nostra infelicità. Degli uomini, degli effetti che il suo essere ha sugli uomini, ella non si cura punto. Proprio come i tuoi dèi. Non ha l’amore di una madre per le sue creature. E in questo, Epicuro, mi ricordava esattamente la madre che ebbi in sorte; chiusa, aspra, insensibile al dolore dei suoi figli. Una lastra tombale.

EPICURO. Ma l’uomo non è un essere separato dalla Natura. Ne è parte egli stesso! Ciò che gli avviene è nel ciclo degli eventi. Se lo comprende può scegliere. Quando lo comprende, ogni timore e conflitto si scioglie, poiché tutto scorre secondo una naturale armonia. Si nasce, si vive, si muore, e quel che l’uomo può fare per giungere a ciò per cui è nato – la felicità – è proprio nascere, vivere e morire secondo quel fluire, incontrarsi e separarsi degli atomi che ne determinano le sorti, imparando a governare e limitare i desideri, annullare le paure, star quieto e vivere fra amici che gli siano simili. E filosofare.

LEOPARDI. Già, limitare i desideri… più facile a dirsi che a farsi. Non siamo noi costantemente pressati da un infinito desiderio di raggiungere il piacere? E se questo desiderio è infinito e la soddisfazione dei singoli desideri finita, come potremo noi mai raggiungerlo e colmarlo? E i timori, e le paure che costantemente ci dilaniano?

Hai detto bene tu che non esiste durata o estensione minore o maggiore nel piacere, e che al massimo esso varia. Vedi? Conosco bene la tua filosofia e intesi bene, al tuo stesso modo, il significato di piacere. Tu dicesti che è tutto intero e perfetto nell’istante; e che non si deve aver paura della morte perché essere e non essere non possono esistere insieme.

È una bella e grande filosofia la tua, volta, come ogni filosofia dovrebbe essere, all’utile. In questo, di merito ne hai. Ma poi tutto s’infrange contro la realtà di ciascuna vita e di ciascuna anima.

EPICURO. Ma è per questo, proprio per quanto tu dici, che io creai la mia scuola e il mio Giardino perché, come hai appena ammesso che essere e non essere non si danno insieme, così la sapienza e la paura non si danno insieme. Uomo felice è colui che lungo la via della verità incontra la sapienza. Poiché questa non ci è data in dote per nascita, ma dobbiamo cercarla incessantemente e praticarla, così che, quando avremo educato l’anima a liberarsi dai desideri, dalle paure, potremo finalmente iniziare a vivere; vale a dire, ad essere felici! È con la pratica che si raggiunge la felicità. L’uomo passivo, l’uomo che si lascia soffocare e paralizzare dalle paure, sommamente da quella della morte, non solo è infelice, ma è schiavo.

E non soltanto due sono le paure – della morte e degli dèi – in cui io ho voluto sintetizzarle tutte, ma molte ancora, che da queste due discendono e che spesso molti usano per dominare i propri simili. Ancor più qui soccorre la sapienza.

LEOPARDI. Chissà, se t’avessi conosciuto e fossi entrato nel tuo Giardino… forse la mia sorte sarebbe stata diversa. Anche se, devo ammetterlo, della morte e degli dèi non ebbi mai paura; la prima la invocai spesso, nell’esistenza dei secondi non credevo. Ebbi invece paura della vita. Ma forse non sarebbe stata diversa, dovevo solo seguire un’altra via. Quella che chiedeva il mio dàimon. Del resto, non furono molti quelli che ti seguirono, anche se nel lontano Oriente qualcuno venne e predicò una sapienza non troppo dissimile dalla tua ed ebbe fortuna assai maggiore. Mentre tu offrivi il tuo Tetrafarmaco, lui indicava le Quattro Vie per liberarsi dal dolore.

EPICURO. Eppure, gli uomini d’oggi sono infelici forse più di quanto l’uomo sia mai stato. Perché, così come tu ed io esistiamo ora come pensiero e abbiamo facoltà di cogliere e intendere il pensiero dell’altro, altrettanto possiamo, se lo vogliamo, cogliere e intendere il pensiero di coloro che furono e di coloro che in questo presente frangente del tempo, così come gli uomini lo credono e lo intendono, esistono e vivono nel mondo sublunare, come anche toccò a noi.

LEOPARDI. Davvero è cosa mirabile ed io stesso lo vedo. La paura percorre il mondo ed è figlia di quello che gli uomini ritengono erroneamente progresso.

EPICURO. Nel loro mondo la paura ha travolto ogni argine e si è abbattuta su di essi come la forza distruttiva di un uragano. La paura è nemica della ragione, della sapienza e della felicità, ma anche dell’amore e dell’amicizia fra gli uomini. Molti l’hanno dimenticato e si sono arresi alla loro peggior nemica. Intere nazioni si sono consegnate a questo cavaliere oscuro e vagano nelle tenebre, sordi al richiamo della ragione. Che tristezza…

LEOPARDI. E gli uomini preferirono le tenebre alla luce… già. Come tu dicesti che, dopo quella degli dèi, la più grande paura dell’uomo è la morte, perché è la negazione dell’esistenza. E gli uomini che, generazione dopo generazione, sono sempre morti, ora hanno più che mai paura di morire. Non perché non sappiano che la morte ti può cogliere inattesa in qualsiasi istante, ma perché hanno confezionato una società ingannevole, che ha loro fatto credere di poter essere eternamente giovani, eternamente sani, forti, e perciò eternamente felici. Poiché identificano la felicità con il puro esistere della carne. E per questa illusione miserrima si sono venduti l’anima ai trafficanti di corpi. Per il terrore che il corpo si ammali, decada e muoia son disposti a qualunque rinuncia, financo della libertà.

È una società ben triste e sono lieto di non appartenervi. Hanno fatto una fede della materia, più di quanto l’uomo abbia mai fatto. Agli dèi hanno sostituito la nuda vita, ma priva dell’amore di sé. È una fede più cieca di ogni altra, perché vi si finge che la materia di cui sono composti e nello stato in cui li compone, sia eterna. E questi sono i guasti di un supposto progresso, grottesco e ingannevole, già tanto esaltato dai miei contemporanei. Ma certo nemmeno loro si sarebbero immaginati dove avrebbe condotto. Io invece qualche sospetto lo avevo.

EPICURO. Infatti. Dimenticano che la materia è un aggregato di atomi, i quali si uniscono, si separano e si scontrano a loro dispetto in una danza infinita. E su questo non hanno controllo alcuno. Più ciechi dei dormienti di Eraclito!

LEOPARDI. Io ne scrissi, dell’infinito. M’avvenne tutto a un tratto di comprendere che lo spazio e il tempo sono soltanto idee che l’uomo ha in sé. Il tempo non è una cosa, è un accidente delle cose e, indipendentemente dall’esistenza delle cose, è nulla; è un accidente di questa esistenza, o piuttosto una nostra idea. Una parola… medesimamente dello spazio. Sono idee, nomi. E sai quando lo compresi? Contemplando l’orizzonte oltre una siepe che s’affaccia da un colle e quel tramezzo verde limitava lo sguardo e al di là non v’era che quello che mi parve un indefinito. Fu una rivelazione, se vuoi usare questo termine. Sì, la somma felicità per l’uomo è naufragare nel nulla. E fu una vertigine, in cui sperimentai la dissoluzione di tutto me stesso, della mia carne, del mio pensiero in un nulla infinito.

Perché la vita è il sentimento dell’esistenza e di quel sentimento avvertii l’annullamento. Forse mai fui più felice come lo fui in quell’istante.

EPICURO. Tu mi fai paura! Ora sì mi ricordi Lucrezio. Ma vedi? Mi dai ragione. In quell’istante fu tutta la felicità. Però è nella vita che dobbiamo ricercarla.

LEOPARDI. Già. Tu dici che la felicità è nel filosofare. E sia. Dunque nell’indagare, nel ricercare il vero. Io dico invece che nel vero è la somma infelicità. E gli uomini lo fuggono. La felicità è nell’ignorarlo, nell’immaginazione e nelle illusioni.

EPICURO. Dunque, a quanto dici, gli uomini che popolano oggi la terra dovrebbero essere sommamente felici, ciechi come sono al vero e immersi in uno stato trasognato, nutrito di illusioni, seppure assai poca immaginazione. Eppure, così non mi appaiono!

LEOPARDI. Non lo sono infatti, caro Epicuro. Prima di tutto perché in loro l’immaginazione è come rattrappita e rinsecchita, e poi perché, come dissi, hanno fatto fede della materia e l’hanno sostituita agli dèi, ma senza quel sentimento dell’infinito, senza l’immaginazione, sole fonti della felicità come all’uomo è possibile a tratti raggiungere. Credono di conoscere e di poter dominare, controllare la Natura. Che grande inganno! Come puoi manipolare e sottomettere qualcosa che è immensamente più grande e potente di te, e alla quale sei indifferente?

C’è però un poeta, che porta il mio stesso nome e vive sull’isola degli Iberni, il quale possiede sia l’uno che l’altra in somma misura. Per lui la poesia è fons et origo, e un’infinita ricerca dell’infinito. Un mistico innamorato dell’invisibile.

Senti cosa ha scritto di quello che lui chiama Verbum, la Parola:

Non ho nome, non volto, non forma,

e parole e colore prolungano l’inganno

che mi si possa dipingere: sono oltre

ogni senso di quel che ‘oltre’ significa.

Per conoscermi devi chiudere gli occhi

e lasciare la via dell’asserzione,

la via del pensare e immaginare:

sii soltanto pellegrino a te stesso,

vigile, che non sa dove andare,

ma che confida nella propria ignoranza

viaggiando verso l’interno senza posa. 1)

EPICURO. Un altro invasato? Su certe cose però ti do ragione, per quanto non concordi su quello che definisci il sentimento dell’infinito e il resto. Tu dici che l’anima umana desidera sempre essenzialmente e mira unicamente al piacere, vale a dire la felicità. E così è. Ma poi specifichi che questo desiderio non ha limiti, perché è congenito con l’esistenza e dunque non può avere fine in questo o quel piacere, che non può essere infinito. Quel che sostengo io invece, è che proprio a quei desideri e a quell’infinitezza si può e si deve porre un limite per essere felici. Si può. Che è quanto insegnai nel mio Giardino.

LEOPARDI. Eh, già. Su questo punto non ci troviamo. Infatti, a parer mio e per mia esperienza, quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera in realtà la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere e non un dato piacere. E perciò tutti i piaceri saranno misti di dispiacere poiché l’anima, nell’ottenerli, cerca avidamente quello che non può trovare; l’infinità di piacere, la soddisfazione di un desiderio illimitato. Mi segui?

EPICURO. E certo che ti seguo! Dove mai dovrei andare? Chi mai sognerebbe di meglio che parlare di filosofia con un poeta?

LEOPARDI. Oh, di meglio c’è; parlare di poesia con un filosofo! Non l’hai fatto con il Grammatico?

EPICURO. Verissimo! E pensa che all’inizio aveva fatto in modo che non me n’accorgessi! Certi grammatici sono peggio dei poeti!

LEOPARDI. Insomma, torno al mio ragionamento sul mischiarsi di piacere e dispiacere e sul cercare la soddisfazione di un desiderio illimitato. Quando questo s’applichi a uno dei desideri più gretti e ignobili, la sete di potere o di ricchezza – che fa lo stesso – tu vedi nel concreto come mai nessun raggiungimento lo soddisfi o lo plachi. Anzi, spinge l’uomo alla follia.

EPICURO. E infatti badai sempre a raccomandare di tenersi lontani dalla politica. Quanto alla ricchezza, non aver fame, non aver sete, non aver freddo fanno di te il più ricco e felice degli uomini, anzi, pari agli dèi. Eccoti mozzata di netto la testa all’infinitezza del desiderio.

LEOPARDI. Già, però, se veniamo all’inclinazione dell’uomo all’infinito – che io non rinnego – esiste in lui una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono…

EPICURO. Bella scempiaggine! Dove ne sarebbe l’utilità? A che mi serve il non-essere?

LEOPARDI. Aspetta Epicuro. Se si considera la tendenza innata dell’uomo al piacere, una delle principali occupazioni dell’immaginazione è quella di immaginarsi il piacere e può quindi figurarsi dei piaceri che non esistono e figurarseli infiniti in numero, in durata e in estensione.

EPICURO. Lo dici a me, che fui il primo ad affermare che fine della natura dell’uomo è il piacere? Ma non il simulacro del piacere! Che c’entra l’infinito? Il piacere è perfetto nell’istante, né può essere misto di dispiacere e, avesse pure a disposizione il tempo infinito, questo non aggiungerebbe un ette quanto a intensità e durata.

Quel che mi dici sull’immaginazione, capace di figurarsi piaceri che non esistono, e pure infiniti in numero, durata ed estensione, mi fa sovvenire quanto disse Gorgia sull’arte del poeta e della parola, che definì apate, inganno. E lo fece sulla base metafisica dell’essere, che è insieme non-essere, e del non-essere che è a sua volta essere. Ché questa tua immaginazione proprio un inganno mi appare. Materia da sofisti, o peggio da metafisici. I poeti sono degli esaltati e degli invasati, non cambio idea. Però, ascoltandoti, mi pare che in te ci sia più del filosofo, e la cosa è singolare, se si sta a giudicare dall’epoca in cui vivesti.

LEOPARDI. Ah, questo puoi ben dirlo! Ché io non mi trovai nella mia epoca!

EPICURO. In ogni modo, hai una ben strana idea di felicità.

LEOPARDI. Pensa, fra i tanti progetti che la brevità della mia vita m’impedì di portare a compimento, uno in particolare m’è dispiaciuto non aver realizzato. Avevo in animo di scrivere un trattato dal titolo L’arte di essere infelice. Quella di essere felice è cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata che da pochissimi e da nessuno con effetto. Tu sei un’eccezione ben rara naturalmente. Vedi, nella mia disperatissima ricerca della felicità, ebbi costantemente davanti il vero e fui dunque costantemente infelice. Sommamente per i mali del corpo e la cagionevolezza della mia complessione. Per essermi visto costretto in un luogo disgraziatissimo, che odiai e da cui riuscii finalmente a fuggire per mai più tornarvi, e perché la natura, non che farmi dono della bellezza e della prestanza, mi fece brutto e deforme.

Mai ebbi la grazia dell’amore appassionato di una donna, non conobbi le dolcezze di chi ama riamato e infine desiderai sempre la morte, che mi avrebbe liberato da tutte codeste sofferenze, ché certo quelle del corpo ebbero grave effetto su quelle dell’animo. Insomma, tanto più l’uomo desidera la felicità, tanto più è infelice. Mi sembrò sempre di avere un’ala spezzata e di non poter mai volare.

Eppure, io una forma di felicità la trovai, me ne rendo conto soprattutto ora più che allora; la mia poesia, quella fu la cura che sanò la mia ala e mi permise di volare verso spazi infiniti.

EPICURO. È davvero cosa triste quel che mi dici ed io, pur essendo ormai puro pensiero, non posso non avvertire quel che provavo di fronte ai dolori di un amico. Strano, non l’avrei immaginato. Però, come io insegnai, se la carne si trova nel dolore, non per questo il saggio non è felice.

LEOPARDI. So quel che scrivesti in quella tua lettera degli ultimi giorni, che è un capolavoro di virtù, eroismo e amore insieme, mentre, straziato dai dolori del corpo, avevi davanti la morte.

EPICURO. La carne non è l’anima, e il piacere e il dolore dell’una non è il piacere o il dolore dell’altra, perché affezioni e sensazioni rimangono sempre nella parte in cui si producono, perciò al dolore della carne oppone il piacere ch’essa trae in proprio dai ricordi dei beni goduti e che nessuna forza può fare che non siano stati.

LEOPARDI. Sì, per questo dicesti che il saggio è beato anche nel Toro di Falaride. In effetti io dissi qualcosa del genere; le chiamai le ricordanze.

EPICURO. Se la tua carne soffriva, non per questo doveva soffrire l’anima e se tu non avesti in sorte né bellezza delle forme, né l’amore condiviso, che del resto non dipende dall’aspetto del corpo, non credo che l’anima tua, bellissima e nobile, non abbia tratto a sé l’affetto di amici a te simili.

LEOPARDI. Oh sì, Epicuro, amici ne ebbi e di molto cari anche. Fin da ragazzo, quando rovinai la mia stessa salute con studi matti e disperatissimi, sia per amore appassionato del sapere, che per fuggire una realtà insopportabile, fin da ragazzo dico, ebbi intensi scambi epistolari con alcune anime grandi e generose. In seguito, ancora, trovai amici che mi stimarono e mi amarono e non si risparmiarono nell’aiutarmi. Infine, quasi all’ultimo tuffo, uno in particolare, insieme alla sorella, fu fonte di infinita dolcezza e sostegno e amore. A lui devo alcuni anni sereni e privi di eccessive cure materiali. Si prese in casa un uomo malato, di difficile carattere – perché non ero certo farina da far ostie, come certi dicono! – seppure ormai celebre. Per quel che vale la celebrità: un bel nulla.

Tuttavia, dopo la mia morte, scrisse del nostro sodalizio usando parole non sempre gentili e diede di me un ritratto talvolta impietoso. Ma non gliene faccio una colpa. Forse lui pure vide il vero. Del resto, i suoi meriti nei miei confronti furono molti e grandi e s’adoperò perché i miei scritti non andassero dispersi.

EPICURO. Questo ti rende onore. La sua amicizia in vita fu sincera, ma la natura umana è quel che è e, se pure in seguito fu a tratti crudele nel giudizio, forse è cosa da ascrivere al misto di passioni contraddittorie che la frequentazione di un’anima grande può suscitare in anime più deboli. E poiché non dubito che tu abbia dato a lui più di quanto egli abbia dato a te…

LEOPARDI. Non so se così fu, Epicuro. Mi offrì una casa, una famiglia, cure, accudimento…

EPICURO. Ma tu gli offristi l’amicizia e la fiducia di una mente che ha lasciato un segno e gli affidasti le sue opere! Ed è moltissimo. E forse l’avvertì come uno squilibrio, da cui si generò un risentimento che nocque più a lui che a te. Di casi simili ne ho visti e se ne vedranno. Non sempre l’anima umana è lineare. Ma ti fu amico in vita e ti soccorse ed ebbe a cuore le tue opere e questo è ciò che vale. Il resto sono accidenti.

LEOPARDI. Lo so bene. Perché in quella inestinguibile sete d’infinito io ebbi sempre a cuore il bene e la virtù, ed ora vedo con chiarezza quel che spesso pensai in vita ma forse non compresi appieno: che essi sono l’una e medesima cosa e l’abbiamo in noi ad ogni istante. Se la Natura ci ha fatti quali siamo e ci ha poi abbandonati a una vita che non è altro che un rincorrersi di desideri, cadute, attesa e sofferenza e tutti, tutti, siamo nella medesima condizione, o ci si volge alla tua filosofia o ci si dà al misticismo. Ma, in entrambi i casi, quel che conta è la solidarietà e la fratellanza fra gli uomini; quella che tu chiamasti philìa, amicizia, e io ne scrissi, all’ultimo, contemplando la luce dell’umile ginestra, che fiorisce intatta dove prima gloriose civiltà e superbe si ritennero eterne e invece scomparvero.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi

d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
 

EPICURO. Esattamente questo insegnai nel mio Giardino, creando quella società degli amici, di uomini pari per sentire e comunanza d’intenti, pronti a soccorrersi nel bisogno. Non lo chiamai bene, ma piacere, perché è nel piacere che il bene e la volontà si rivelano. Nell’amore per l’uomo, la philanthropia, quella autentica, che a premio ha unicamente sé stessa. Nella charis, il dono, la letizia dell’amore reciproco, suggellato dal patto dell’amicizia. Un amore che è anche unione d’anime, che insieme partecipano del piacere e del dolore e affrontano serene anche la morte.

LEOPARDI. Come tu dicesti, l’amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di destarci e dire l’uno all’altro: felice! Non altro è che amore.

EPICURO. Vedi? Seppure con parole diverse, diciamo la stessa cosa. Tu credevi di vedere il vero e invece lo rifuggivi, ma proprio quella tua fuga da quello che tu ritenevi il vero t’ha invece condotto alla verità. Perché una è la verità, ma molte sono le vie che vi conducono. Lo disse quel Grammatico in un suo scritto.

LEOPARDI. Ma guarda un po’, mai avrei immaginato di ritrovarmi qui e rivedere, ragionando con te, l’intero mio pensiero alla luce di quello che io compresi appieno alla fine della mia vita, ma che già era fin dagli inizi presente nella mia opera, come unico, vero, infinito bene che l’intero universo unisce e di trovare in te quella mia stessa idea d’infinito; quella che condusse Lucrezio alla follia, che i monaci irlandesi rappresentarono nei loro scriptoria in intrecci, volute, spirali senza inizio né fine, i colorati labirinti della mente, i medesimi che il poeta ibernico descrive nei suoi versi. Centri infiniti che s’allargano in infinite sfere e tutti si fondono in un’unica sfera, anch’essa infinita. Quale meraviglia!

Ma guarda Epicuro! Chi viene? Non mi è estraneo.

EPICURO. Ma è il Grammatico! Sta tornando. Ebbi con lui una lunga conversazione sulla poesia e sulle poetiche. E a noi si unì Posidonio. Ma, da quel che vedo, a differenza del nostro precedente incontro, lui pure ora è puro pensiero, ché allora mi vide come in sogno ed era tra gli uomini. Fu proprio lui ad accennarmi di te e della tua idea – la disse ossessione – d’infinito.

LEOPARDI. Dunque, se è qui, lui pure è fra coloro che dissero qualcosa di nuovo nel mondo! Sì, mi amò molto, fin dalla giovinezza e fino all’ora della morte. Ancora nelle sue ultime ore aveva a mente i miei versi.

EPICURO. E molto amò me e nelle sue opere rivelò del mio pensiero quel che nessuno ancora aveva compreso. Con coraggio affrontò una morte dolorosa, tanto simile alla mia. Ma non dubitò mai della sopravvivenza dell’anima. Fu a suo modo un mistico. Qui con voi mi sembra d’essere tornato nel mio Giardino.

EPICURO e LEOPARDI.

Eccoti Carlo, finalmente! Benvenuto fra gli amici!

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1) Il poeta citato è James Harpur e i versi sono tratti dal suo poemetto Kells.

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