Anita Nair, La ferocia del cuore, tradotto da Francesca Diano al Festivaletteratura di Mantova 2012

Anita Nair, La ferocia del cuore

Come si regola un traduttore quando deve decidere se il buco che la vittima ha in testa ben piazzato sul cranio, come risulta dall’esame autoptico, è una frattura lineare, composta o depressa, anche detta fracture a la signature,  con infossamento del tessuto cranico e la deve descrivere nella sua lingua con l’appropriato linguaggio tecnico? Capita di scoprire, nelle sue ricerche, che in Arabia Saudita lo scontro fra cammelli è una causa piuttosto comune di incidenti, con un alto tasso di mortalità e morbosità e può succedere che un bimbo di quattro anni subisca, a causa di un simile scontro fra questi eleganti animali, una frattura cranica depressa.  O che l’accidentale caduta di una noce di cocco sulla testa possa causare una frattura depressa.  Così si documenta con tutta una serie di foto impressionanti tratte dai trattati di medicina legale. Ma mai tanto impressionanti quanto quelle di ferite lineari inferte da arma da taglio, con i bordi della ferita ben netti e perfettamente combacianti.

Così questa volta, traducendo questo ultimo romanzo di Anita Nair, mi sono trovata ad entrare in una stazione di Polizia di Bangalore, in un obitorio, dove sono stata ad osservare il medico legale che dissezionava un cadavere, in una sala per interrogatori, dove la Polizia, seguendo metodi più moderni e rispettosi dei diritti umani, sa come sciogliere la lingua ai sospettati a suon di pranzetti succulenti. MOLTI pranzetti succulenti, come prova un articolo comparso sul Deccan Herald  http://archive.deccanherald.com/Deccanherald/jan042004/sh1.asp

L’India è un paese dalle mille contraddizioni e dai mille volti. Sono molte le facce dell’India che i film, la letteratura, la cronaca e allo stesso tempo i luoghi comuni ci riflettono. Anita Nair ha scelto, nei suoi libri, di narrare soprattutto le contraddizioni tra un paese dalla storia e dalla cultura millenaria e una nazione che la nuova economia e lo sviluppo delle tecnologie ha reso competitivo e vincente di fronte a un Occidente in declino.

Lo scarto brusco che la convivenza tra questi due aspetti genera è visibile soprattutto nella condizione femminile. La ricca nuova borghesia dell’India che si affaccia sul futuro imita l’Occidente nello stile di vita e negli atteggiamenti. La condizione femminile delle signore e delle ragazze della nuova India si sta lentamente occidentalizzando e a volte rinnega le proprie radici culturali. Il che, se è un bene per l’emancipazione della donna, non è sempre un bene per lo sradicamento che può produrre. Questo accade soprattutto in chi confonde la cultura occidentale con il progresso e la modernità. I manager rampanti, i businessmen che stanno trasformando il paese in una superpotenza economica. Non poca parte ha avuto in questo il dominio britannico e non vi sono dubbi che l’India, che ha creato la civiltà a cui l’Occidente molti millenni fa si è abbeverato, si trova a doversi liberare dai crismi di una cultura postcoloniale.

Ci sono tuttavia intellettuali, artisti, scrittori che proseguono sulla via che la Grande Madre India ha sempre percorso da millenni: inglobare e abbracciare ciò che proviene dall’esterno per amalgamarlo e accoglierlo trasformato.
Il conflitto tra antico e nuovo, tra queste due forze, genera, per dirlo con termine della fisica, una turbolenza.
In quasi tutti i suoi romanzi Anita Nair ha cercato di leggere questa turbolenza e gli effetti che essa provoca nel mondo femminile.
La particolarità di Anita Nair come scrittrice è quella di esplorare un microcosmo – il suo Kerala nativo – con mezzi sempre nuovi e diversi. In situazioni sempre diverse.
Ma, in questo ultimo romanzo – Cut like Wound nel titolo originale – che verrà presentato a Mantova al Festivaletteratura,  l’ambiente non è più la dimensione del villaggio ma, come in parte nel precedente, L’arte di dimenticare, è la megalopoli in cui lei stessa vive: Bangalore.

Il titolo originale, Cut like Wound, è un termine tecnico, usato in patologia  forense, “ferita lineare” in italiano, che sta a indicare quel tipo di lesione nitida e allungata inferta da un mezzo tagliente. Già il titolo originale indica che si tratta di un noir, quello che in inglese si chiama whodunit. C’è un ispettore, Gowda e il suo vice, Santosh. Il primo è un uomo di mezza età, burbero, che ha combattuto tutta la vita contro la corruzione e le ipocrisie e che per questo si trova ora ai margini. E’ uomo stanco, provato, con molti problemi personali  irrisolti, ma ha qualcosa di assolutamente speciale: il suo sesto senso. Infallibile. Santosh è giovane, pieno di entusiasmo, di ideali e ha fatto di Gowda il suo idolo. Poi c’è il mondo corrotto della politica, degli sfruttatori del popolo, di chi accumula enormi profitti grazie alla sua posizione di privilegio, ben rappresentato dal Consigliere, che vive in un palazzo quasi principesco e riceve visite seduto su una sorta di trono. Ma, collegato a quel mondo, ce n’è un altro meno visibile, ma non meno presente, quello dei bassifondi, dei piccoli delinquenti, dei quartieri degradati. E c’è un serial killer. E poi ci sono i dipinti di Raja Ravi Varma,  il prodigioso pittore ottocentesco le cui rappresentazioni di dei e di eroi, di fanciulle e di scene mitologiche sono le immagini che ne costituiscono un’iconografia ormai universale e che ha inventato la calendar art. E poi  ci sono gli hijra. 

Gli hijra, che in India chiamano anche eunuchi, sono uomini che si vestono da donna e si sentono profondamente donne. Il termine significa “colui che lascia la propria tribù”, perché molti di loro venivano rifiutati dalle famiglie di origine. Non sono eunuchi in senso stretto, perché molti conservano tutti gli attributi. Sono una vera e propria casta,  con complessi riti e una propria Dea Madre di origine prevedica, la cui presenza in India è attestata sin dai tempi più antichi e in testi quali il Mahabharatha, il Ramayana e il Kama Sutra. Non sono, come qualcuno erroneamente può credere, dei transessuali o dei travestiti nel senso che noi intendiamo, e non c’è nulla, assolutamente nulla in Occidente, a cui si possano paragonare. Gli hijra sono organizzati in comunità, o case in cui una guru, o Maestra anziana ha un ruolo dominante e di cui si riconosce l’autorità. Il numero stimato degli hijra in India è di circa 200.000.

Gli hijra, o chakka in lingua kannada, non hanno diritti e solo di recente è stato loro riconosciuto il diritto al voto. La società non li tratta bene, ma di recente vi sono dei movimenti per il riconoscimento dei loro diritti. Si guadagnano da vivere chiedendo offerte, anche in modo molto insistente, ai semafori, sui treni, nei luoghi pubblici o partecipando a feste, matrimoni ecc. perché la loro presenza è ritenuta di buon auspicio e foriera di fertilità e fortuna. Si vede infatti in loro la perfezione dell’unione tra maschile e femminile, la sacra unione cosmica di Shiva e Shakti che è il cuore del tantrismo. Oggi però molti si prostituiscono per sopravvivere, anche se non è questo ciò che la loro condizione per antica tradizione prevede. Tuttavia alcuni hanno fatto fortuna. Una è diventata una modella di successo, un’altra una donna d’affari importante e qualcuno si affaccia  persino in politica.

Ho compiuto un viaggio nel mondo incantato di Raja Ravi Varma, studiandone la vita, le tecniche pittoriche, i suoi soggiorni nel palazzo reale del suo mecenate, i contatti con l’arte occidentale, la sua prodigiosa produzione e la sua visionarietà. E ho acquistato, ovviamente online, perché da noi non si trova, un piccolo flaconcino di un intensissimo profumo chiamato Shamama,  che è una preziosa mistura di fiori, legni, cortecce e spezie in base di olio di sandalo, perché uno dei personaggi lo usa in un momento cruciale e volevo sapere quali emozioni olfattive il profumo gli desse.

Come l’ispettore Gowda, il mondo corrotto della politica, l’arte di Varma e il mondo misterioso degli hijra si mescoli in questo romanzo, con la presenza di un serial killer i cui efferati delitti sono legati da un filo d’aquilone, starà al lettore scoprire.

Ma, quali difficoltà si presentano a un traduttore nel momento in cui si trova immerso in un contesto che comprende un ordinamento di polizia del tutto diverso dal nostro, esami autoptici meticolosamente descritti in tutti i loro particolari più crudi e tecnici, la mentalità di una creatura così lontana dal nostro modo di vedere le cose quale può essere quello di un hijra? Ed eccomi così alle prese con i manuali e gli ordinamenti della polizia indiana e di quella italiana, a cercare di capire quale grado corrisponde a quale, per scoprire a volte che non esiste esatto corrispondente di un ruolo o di un grado, poiché gli ordinamenti dei corpi di polizia dei nostri due paesi differiscono in molti punti. Eccomi a studiare i gradi e le stellette sulle divise per trovare delle analogie.  Eccomi allora andare a compulsare manuali di patologia forense, testi di medicina legale, foto di lesioni e grafici. Eccomi immersa nelle quasi 20.000 foto dai colori meravigliosi del fotografo indiano Firoze Shakir, che da alcuni anni gira l’India documentando e raccontando la vita e le usanze di questa straordinaria comunità. Le potete trovare qui:

http://www.flickr.com/photos/firozeshakir/sets/72157601082804917/

Il lavoro di un traduttore è fatto di conoscenza. Spesso si imparano cose che mai avresti immaginato. Così, tra commissariati indiani, vicoli di Bangalore, l’arte di Varma, corruzione politica, hijra, patologia e psicologia forense, spero di aver reso il fascino di questa detective story avvincente.

(C) 2012 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Anita Nair e il mito – di Francesca Diano

  

Copertina originale dell’edizione Puffin Book

Pubblico questo saggio, che compare come introduzione all’edizione italiana di “Magical Indian Myths”  di Anita Nair da me curata.   La mia introduzione è stata molto apprezzata dalla stampa e dalla critica. 

ANITA NAIR E IL MITO

di Francesca Diano

 

Prefazione a

“La mia magica India”

di Anita Nair

 Roma 2009

 

 

 

 

Il mito è uno strumento di precisione, tagliente come un rasoio, profumato e profondo come le acque dell’oceano, vasto e complesso come l’intero cosmo, per proiettare una lama di luce nella tenebra dell’animo umano e della storia della nostra specie.

Il mito è la storia prima della storia, il suo tempo è il non-tempo. Quando tra uomini e dèi non v’era separazione. Quando la natura parlava all’uomo con parole che l’uomo intendeva.

Scelgo volutamente di usare il termine al singolare, perché per la mia pur modesta esperienza di innamorata di miti,  sono sempre più convinta che non vi sia alcuna separazione tra i patrimoni mitologici che le diverse culture ci hanno lasciato, come zolle tettoniche galleggianti su un magma ignoto.

Esiste il mito e le sue proteiformi manifestazioni, che si diramano nel tempo e nello spazio in infinite direzioni e gemmazioni, che tessono trame senza fine. E  segnano di sé ciascuna cultura, tanto che forse non è una cultura che crea i suoi miti, ma l’opposto.

Sorella del mito è la fiaba. O a dir meglio, figlia. Ché ne è generata in sfilacciature e brandelli, ma il cui fine è ugualmente nobile.

Il mito è cibo per uomini dal cuore di bambini. La fiaba è nutrimento per bambini il cui cuore sarà quello di uomini.

E da sempre pare che il compito di traghettare la memoria di questi due mondi apparentemente separati sia stato quasi ovunque  accuratamente ripartito tra i due sessi: narratori di miti sono gli uomini; narratrici di fiabe sono le donne. E mi piacerebbe avanzare un’ipotesi per questa divisione di ruoli, che assegna alle donne il ruolo di psicopompo nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.

In ogni momento liminale la donna è presente: la nascita, la morte. Sono donne le prefiche, sono le donne che preparano il defunto per il grande viaggio verso una nuova vita e ne accompagnano il passaggio con la lamentazione funebre ritualizzata. Che altro non è che la narrazione di una vita che, in quell’istante, si spoglia della sua dimensione individuale ed entra nel mito. Esce dal tempo umano per fondersi col divino.

La Grande DeaMadre dà la vita e dunque dà la morte. Ma la morte è trasformazione, passaggio da uno stato a un altro. E dunque dàla Vita.

È quindi femminile il compito di accompagnare il bambino sino alla soglia della sua trasformazione in adulto, nell’atto di morire all’infanzia e rinascere per la seconda volta, pronto ad entrare nella società degli uomini. Perché la fiaba non è altro che questo, “Vita: istruzioni per l’uso”.

Il mito dunque narra la nostra storia collettiva e anzi ancor prima che l’uomo fosse, conserva la memoria delle origini; la fiaba ci istruisce su come di quella storia entrare a far parte in modo protetto e sicuro.

Ma tutti  questi narratori, questi traghettatori della nostra identità, le cui voci, pur non tacendo, sono ormai silenziose, hanno un dono speciale che le accomuna, ed è l’abilità, l’arte di narrare.

Il dio degli antichi Celti, Oghmé, una sorta di Eracle celtico, ma anche dio dell’eloquenza e della parola, aveva catene d’oro che si dipartivano dalla sua lingua e letteralmente avvincevano chi l’ascoltava.

Dunque la narrazione non può essere separata dal suo narratore.

Ed ecco che una donna, una donna indiana, che sa usare le parole come catene d’oro nelle sue narrazioni, sceglie di raccontare ai bambini i miti dell’India.

Perché questo è nato come libro per bambini e non a caso è dedicato a Maitreya, suo figlio.

Per i bambini indiani, ai quali i nomi e le intricatissime vicende di quegli dei, di quei semidei,  di quei demoni e re mitici, di quegli animali divini non suonano affatto sconosciuti. E così è per qualunque indiano, piccolo o grande.

Qualche anno fa, una serie televisiva durata due anni e tratta dal Mahabharata, paralizzò l’intera India davanti agli schermi TV.

In India il mito, l’epopea, appassionano quanto le trame dei film di Bollywood, che non se ne discostano poi così tanto.

Donna dunque. E indiana. Che si assume il compito di tramandare ciò che è stato narrato a lei da sua madre, da sua nonna e dalla cultura che ha respirato, dal mondo in cui è nata,  parte di quello che è tra i più antichi e fecondi patrimoni di miti dell’umanità.

Ma in questa scelta, io credo, non entra in gioco solo la sua arte narrativa, che si riconosce dallo stile che le è proprio, diretto, tutto dialogo, poche descrizioni, ricco di colpi di scena, di ironia, poesia e dramma, quanto anche  la sua identità.

Anita Nair appartiene a un antico gruppo etnico, da tempo immemorabile  presente nel Kerala, che è lo stato dove è nata e dove torna spesso, quello dei Nair o Nayar, per tradizione  guerrieri, storici e viaggiatori. Una colta aristocrazia in uno degli stati indiani in cui di fatto l’alfabetizzazione è quasi totale.  Ma l’aspetto più singolare e interessante di questa  etnia dalle origini antiche e misteriose, è quello della discendenza matrilineare, che dà alla donna una posizione di grande potere e preminenza, sia all’interno della famiglia che del gruppo sociale.

I figli sono figli della madre, la figura maschile più importante all’interno della famiglia non è il padre, ma lo zio materno, la trasmissione del patrimonio è per via femminile, ecc. Una tradizione opposta a quella in genere presente nella cultura indiana, secondo cui il ruolo della donna, familiare e sociale, è assolutamente di sudditanza.

Dunque, per tradizione antica, spetta in qualche modo alla donna preservare e tramandare l’identità culturale e sociale del gruppo.

In questo Anita Nair, in un certo senso, non fa eccezione.

Nella sua premessa, Anita Nair specifica difatti  che il suo desiderio altri non è che quello di ritrovare la magia delle voci narranti che le hanno fatto amare questi miti e queste leggende ascoltate dalla madre, dalla nonna e più di recente dal maestro di danza Kathakali da lei incontrato in Kerala nel corso delle ricerche per la stesura del suo romanzo Padrona e amante.

Conosco l’opera di Anita Nair fin dagli inizi e ho della sua scrittura una visione privilegiata, come traduttrice e come lettrice. A lei mi legano  anche un’amicizia e un affetto  profondi.

Un traduttore che abbia la fortuna di seguire da sempre un autore, e ancor meglio fin dai suoi esordi, lo conosce dall’interno, ne segue i meccanismi del pensiero, ne impara la mappa mentale, ne vede l’evoluzione come nessun altro. Perché deve smontare quei meccanismi della lingua e del pensiero per ricostruire e rendere quello stile,  quella unicità. Deve dargli una voce straniera che sia all’autore familiare quanto la sua originaria.

Dunque ho imparato a conoscere anche la sua visione del mondo.

Le storie che Anita narra, storie di donne e di uomini, ma soprattutto di donne  nell’India che cambia, parrebbero lontane dal mondo della sfolgorante mitologia della sua terra.

Donne quasi sempre della media e alta borghesia,  le cui vite si scontrano con i sussulti del progresso, dei veloci cambiamenti sociali, delle tradizioni che non si vogliono o possono dimenticare.  Quello che racconta, con passione, delicatezza, ironia e un’acuminata capacità di andare al cuore delle cose, è un mondo in cui le trasformazioni sono velocissime e creano un senso di smarrimento. Storie la cui fine è con grande intuizione sempre aperta, in cui i suoi personaggi femminili devono fare i conti con le turbolenze create dallo scontro fra tradizione e innovazione.

Generalmente la tradizione è rappresentata dai personaggi maschili, mentre i personaggi femminili sono portatori di cambiamento e trasformazione. Uno scontro fra passato e futuro dunque, che non può avere una soluzione immediata o certa.

Ma il passato è sempre presente, in una sorta di contemporaneità del sentire, perché il Kerala in cui Anita Nair colloca tutte le sue storie, è un luogo ricolmo di incanto e bellezza, di magia, di vicende tratte dal Ramayana e dal Mahabharata  che i danzatori di Kathakali rappresentano davanti ai templi al tramonto, indossando i loro abbaglianti costumi. Ed è a quel passato mitico e magico che Anita Nair attinge.

In Un uomo migliore, la storia di una morte e di una rinascita spirituale è ambientata in un piccolo villaggio del Kerala, che diviene una sorta di microcosmo universale, dove una magica tecnica di guarigione, ispirata a un racconto puranico dà i suoi frutti. In Padrona e amante la vicenda amorosa dell’indiana Radha, moglie di Shyam e dell’americano Chris (i nomi rimandano agli dèi Radha e Krishna e a uno degli appellativi di Krishna, Shyamasundara, il Bello e l’Oscuro), si intrecciano con storie dalle coloriture di epopea e con la descrizione delle antichissime tecniche sacre  della danza Kathakali, che mette in scena i miti e i racconti epici.

Anita Nair rifiuta la definizione di “realismo magico”, che alcuni hanno avanzato per lo stile della sua scrittura e, dandole ragione, io lo definirei piuttosto “realismo mitico”.

Alla luce di queste premesse allora, non sarà difficile capire le ragioni di questo libro.

Il desiderio di rendere vividi e vitali i miti della sua terra trasformandoli in racconti ricchi di azione, di colpi di scena, di personaggi che parlano un linguaggio direi moderno e diretto per i piccoli lettori. Lettori che conoscono i miti della loro tradizione anche attraverso i fumetti e i cartoni animati. Tanto è presente il mito in India, che non teme di perdere forza o potenza mutando linguaggio.

Ma che questo libro sia indirizzato ai bambini non inganni, né faccia pensare a una lettura di tutto riposo, per quanto lieve e piacevole perché, sotto gli occhi dell’Occidente, il suo senso muta.

Il nostro cinismo, il nostro disincanto ci hanno fatto perdere la capacità di intendere il senso universale di quelle storie e tuttavia una nostalgia ci afferra, di ritrovare il linguaggio del mito, che ancora sussurra dall’abisso del tempo.

Ma per noi quel linguaggio non sarà più diretto. La luce del mito per noi sarà un lucore. Come la lucina nel bosco,  lontana lontana, che compare salvifica nelle fiabe. Dovremo dunque imparare ad attraversarlo quel bosco che ce ne separa.

Pensare di dedicare “qualche parola” alla mitologia indiana, o anche “qualche pagina”, in una prefazione può produrre un unico risultato: paralizzare il povero prefatore. Tanto più se questa, come me, non è un’indologa o una storica delle religioni, ma solo un’innamorata del mito.

Il fatto è che la mitologia indiana, la madre di tutte le mitologie, è forse uno dei patrimoni mitologici più sterminati, compatti e antichi  che vi siano.

Miti, leggende, racconti epici si trovano nel Ramayana, nel Mahabharata, nei Purana. Letteralmente centinaia di migliaia di pagine. Narrazioni di gesta e imprese di un numero immenso di divinità, maggiori e minori, di personaggi semidivini, di animali magici, di avatar, incarnazioni di un dio. Vicende che si diramano in infiniti rivoli, intrecci, mutazioni, senza soluzione di continuità. E tutto questo macrocosmo narrativo, dai mille simboli convoluti, dai significati spesso inafferrabili, nel suo complesso, i cui confini si perdono nell’ignoto, è l’immagine dell’intero universo.

Come era, come è e come sarà.

Tuttavia, in India, non esiste  una rigorosa separazione tra mito, leggenda e fiaba o, se esiste, è talmente sottile da non poterla discernere.

La fiaba, come noi la conosciamo,  è ciò che resta del mito, la sua trasformazione in racconto popolare e così è accaduto per noi in Occidente. Dove i miti sono solo materia di studio, ma non fanno parte più ormai della nostra vita quotidiana.[1] Ed è accaduto già da molto tempo.

In India non è così. E diversa è anche la concezione del tempo. Il tempo del mito, che inghiotte, trasformandoli nella sua stessa sostanza, anche avvenimenti storici, è il tempo del sacro. Un tempo circolare in cui non vi è un prima e un poi, ma tutto convive in un eterno presente e la narrazione delle vicende, che apparentemente si succedono le une alle altre, non segue un ordine cronologico, ma solo di causa-effetto, al di fuori del tempo e dello spazio.

Perché in India, così come nelle culture antiche, il mito è la storia. E questa percezione del tempo in India è ancora presente. La tradizione, con la sua ricchezza insostituibile è parte del quotidiano. Soprattutto nell’arte. Se si pensa che i musicisti e i danzatori in genere discendono da tradizioni familiari ininterrotte che possono risalire anche a seicento anni. Così come nella medicina. Patrimoni di conoscenza affidati alla trasmissione della teoria e della pratica.

Troppo lungo sarebbe e non utile in questa sede approfondire oltre questo discorso, ma ciò che è importante comprendere è che l’occhio e la mente con cui noi leggiamo questi racconti non può essere e non sarà mai quello con cui li legge un indiano, adulto o bambino che sia.

La maggior parte dei  miti che Anita Nair ha scelto per compilare questa raccolta sono tratti dai Purana, dal Mahabharata e dal Ramayana, ma con delle incursioni nei testi vedici.

La tradizione letteraria indiana comprende i 4 Veda con i relativi commentari (tra cui le Upanishad), che contengono inni, canti, riti e formule magiche. Questi testi sono noti come shruti, letteralmente “ciò che è stato udito”, perché furono rivelati in tempi immemorabili come suono attraverso l’orecchio ai rishi, sacri sacerdoti o veggenti primordiali, che a loro volta li hanno trasmessi oralmente ai sacerdoti brahmani e così passati di generazione in generazione. Il termine sanscrito  veda ha la stessa radice di video latino, dunque il suo senso è “veggenza”. Anche se furono rivelati attraverso il suono, poiché ciò che si vede si conosce. Dunque conoscenza. [2]

La smriti , letteralmente “ricordo”, è invece la tradizione orale e popolare di miti, leggende, poemi epici e comprende I Purana, il Mahabharata e il Ramayana.

Il Mahabharata è l’epopea di circa 100.000 versi in cui si narrano le vicende della lotta tra le famiglie imparentate dei Pandava e dei Kaurava per il trono. Sarà grazie all’aiuto di Krishna, auriga dei Pandava, che a questi arriderà la vittoria.

Ed è nel Mahabharata che compare la Bhagavad Gita, il Canto del Beato, il discorso di  Krishna ad Arjuna, in cui è affermato e spiegato il senso del Dharma.

Il Ramayana, composto da 27.000 versi,  narra la vita di Rama, avatar di Vishnu al pari di Krishna, dall’infanzia al suo ritorno nella città di Ayodhya.

I Purana costituiscono uno sterminato corpus  composto da 18 Purana maggiori (Maha Purana) e 18 minori (Upa Purana), la cui composizione è attribuita al mitico rishi Vyasa, o Vyasadeva. [3]

I Purana maggiori sono interamente dedicati alla Trimurti, la sacra trinità di Brahma, Vishnu e Shiva, a ciascuno dei quali sono riservati 6 Purana. Inoltre genealogie mitiche di sovrani, personaggi semidivini, asura (demoni)  e le loro vicende, che si intrecciano con quelle degli dèi.

Vi si narrano la vita, le gesta, i culti e i loro avatar, o incarnazioni. Nel Bhagavata Purana ad esempio, sono elencati i  Dasavatara, i 10 principali  avatar, le 10 incarnazioni di Vishnu: Matsya, il pesce; Kurma, la testuggine; Varaha, il cinghiale; Narasimha, l’uomo-leone; Vamana, il nano; Parashurama, Rama con la scure, l’abitante della foresta; Rama, il Signore del Regno di Ayodhya; Krishna; Balarama o Buddha; Kalki, il Tempo, colui che annienta la malvagità, che giungerà su un cavallo bianco alla fine del Kali yuga, l’età oscura, la nostra epoca, dominata da materialismo, avidità e cinismo, per riportare l’umanità a ritrovare la sua identità divina dopo una catastrofe purificatrice.

Ma non si tema, perché l’inizio del Kali yuga data dalla morte di Krishna, il 18 febbraio 3.102 a.C. e gli yuga, le ere secondo i Veda, durano molte centinaia migliaia di anni. Quest’ultima durerà poco meno di 430.000 anni. Dunque siamo appena agli inizi!

Una lettura interessante e di grande fascino è che questi 10 principali avatar di Vishnu indichino i dieci stadi evolutivi dell’umanità; dagli organismi viventi nel brodo primordiale (pesce), agli anfibi (testuggine), agli stadi non ancora del tutto umani (nano e uomo-leone) fino allo stadio più evoluto in cui l’umanità troverà finalmente la sua identità divina in un’Età dell’Oro.

Come si vedrà, tra i primi miti che Anita Nair narra, ve ne sono cinque dedicati ai primi cinque avatar di Vishnu. Sono quelli in cui Vishnu scende sulla terra in forma ancora non umana o semi-umana. Il dio Vishnu, il Conservatore, mantiene la stabilità della creazione e dell’ordine cosmico, contribuendo alla realizzazione della legge del Dharma [4].I suoi interventi, nei momenti in cui operano forze oscure e distruttive che tenderebbero a prevalere e distruggere quell’ordine, sono fondamentali perché si compia il Dharma. Ed ecco che in momenti di pericolo Vishnu discende sulla terra assumendo la forma necessaria e adatta.

La legge del Dharma richiede che non solo l’Universo, ma ciascun essere si conformi a quell’armonia che sola garantisce l’equilibrio dell’Esistente.

Forse, leggendo questi miti, non si potrà non pensare agli dei dell’Olimpo, risplendenti di luce, ma a volte capricciosi e irosi. Anche qui, dèi e re mitici, demoni, saggi rishi e avatar, si scontrano in lotte dettate da gelosie, egoismo, avidità.

Come nel mito “Come nacque il Lingam”, in cui Brahma e Vishnu litigano come bambini viziati per stabilire chi sia il vero creatore dell’Universo, incuranti che il loro dispettoso scontro rechi morte e distruzione tra gli uomini. Ed ecco: un’immagine da Guerre Stellari, da effetti speciali che nemmeno Spielberg. Emerge dall’oceano cosmico, tra esplosioni di fuoco e di lampi, una misteriosa roccia oscura, che cresce sino a proporzioni gigantesche. E cresce e cresce e cresce e poi si spacca…. E il Signore Shiva, in silenzio, sul suo trono, vi è dentro come in un tempio. La tremenda potenza del Lingam, simbolo ben più complesso e misterioso che di un semplice fallo umano, origine della vita, che è principio, ma allo stesso tempo fine, morte, trasformazione e rinascita.

Dunque è Shiva, il Distruttore, il vero creatore dell’Universo. Non Brahma, da cui tutto emana, non Vishnu, che protegge e mantiene, ma Colui che distrugge. Perché senza distruzione non v’è trasformazione e dove non v’è trasformazione è la morte di ogni cosa. Perché dove è la Finelì è anche l’Inizio. Shiva è infatti Adianta: inizio e fine.

Allora ecco che anche l’apparente disordine dei comportamenti divini, le liti, le diatribe, le rabbie e le vendette, tutto non è altro che un mezzo per far sì che il Dharma si affermi, chela Verità si riveli.

Questo insegnamento accomuna in India mito e fiaba. Questo intendono i bambini indiani leggendo i dialoghi vivaci, le descrizioni quasi sceneggiate dei miti come Anita Nair li racconta.

Il racconto che Anita Nair ha scelto come conclusivo, “Del perché Yama non poté ignorare Nachiketa”, forse è quello che, tra tutti, più disvela con quale disposizione,  background e intendimento un bambino indiano leggerà questi testi. Una disposizione che nessun bambino occidentale potrà mai avere.

La storia di Nachiketa, che narra dell’origine delle Upanishad, è la storia di un viaggio nell’aldilà e, allo stesso tempo, ricorda come i rishi appresero la shruti.

Come Buddha, Nachiketa è colpito dall’esistenza della morte e non ne comprende il senso. Per quanto chieda, nessuno sa dirgli con certezza se vi sia o meno una vita dopo la morte. Il bambino, che pure studia in una gurukula, una scuola retta da un Maestro, non trova risposta né dai maestri né dai compagni.

Le circostanze vogliono che Nachiketa raggiunga, per un sacrificio offerto da suo padre, l’Aldilà, dove incontrerà Yama, il dio della morte. Ed è Yama infine, colpito dalla sete di conoscenza di Nachiketa, che gli rivelerà come dono il supremo insegnamento sulla scelta che l’uomo ha nella vita; il saggio sceglie il percorso del bene e la realizzazione del Sé, lo stolto sceglie la facile via del piacere, che lo condurrà alla prigionia della ruota incessante  di morti e rinascite.

E da questa e le successive rivelazioni di Yama, ebbero origine così le Upanishad.

Questo tipo di insegnamento, trasmesso con queste parole apparirebbe davvero di difficile digestione per uno dei  nostri bambini, a cui tra l’altro non parliamo mai della morte. Sono le parole che molti adulti partiti dall’occidente si sono sentiti ripetere dai guru indiani che tanto piacciono alla nostra epoca disincantata.

Se un bambino indiano è in grado di comprendere un concetto per noi  tanto elusivo, chi tra i lettori indiani e quelli occidentali di questo libro sarà il vero bambino e chi il vero adulto?

 

 


[1] A questa osservazione fa eccezione l’Irlanda, dove, per molti versi, ho trovato singolari ma comprensibili analogie con la visione indiana del mito e la sua percezione. Se in Irlanda mitologia e folklore sono materia di studio scolastico e ovviamente accademico, tuttavia per un irlandese la propria identità è legata  in modo inscindibile alla tradizione orale come per nessun altro popolo in Europa.

[2] La stessa tradizione si ritrova intatta nella religiosità degli antichi Celti. La Conoscenza fu trasmessa in forma di suono emanato  ai druidi primordiali e da loro trasmessa oralmente attraverso le generazioni di druidi. Il termine druvid, sul cui significato non sempre si è d’accordo, ha comunque questa stessa radice vid- e il suo significato è “veggente”.

[3] Al brama rishi (saggio sacerdote di epoca mitica) Vyasa è attribuita la composizione dei Purana, del grande poema epico Mahabharata  e la trascrizione dei Veda, prima tramandati in forma orale.

[4] Dharma è un termine sanscrito che compare già nei Veda. Il suo significato è molteplice e assai complesso. Ciò che è Stabile, Fissato,  Legge, legge Naturale, Ordine Universale, è il concetto centrale della spiritualità e della filosofia hindu. Èla Verità Ultima, il senso delle cose, Dio.

Lo si intende sia sul piano individuale, come Legge Morale, dottrina morale dei diritti e dei doveri a cui ciascun individuo deve conformarsi, che sul piano universale. In quest’ultima accezione è  il Tao dei cinesi e il Lògos dei Greci.

Allontanarsi dal Dharma significa sconvolgere l’ordine delle cose, creare disarmonia, kaos. Dunque sofferenza.

Il Dharma è essenziale anche nei diversi stadi della vita umana, Artha, (i conseguimenti materiali)  Kama (il piacere sesnsuale)  e Moksha (la liberazione)

Nel Mahabharata è Krishna stesso a definirlo: “Il Dharma governa tutte le vicende che sono di questo mondo e fuori di questo mondo” (Mahabharata 12.110.11)

Ancora Krishna, nel Bhagavad Gita, dichiara di incarnarsi ogniqualvolta e come sia necessario per annientare le forze del Male e proteggere il Bene.

Non è un caso che alcune direzioni filosofiche hindu vedano in Cristo e Krishna profonde analogie, di funzione e di ruolo. Non ultimo persino nell’omofonia del nome.

 

Copyright © Francesca  Diano 2009

Tutti i diritti riservati. La copia anche parziale di questo articolo in ogni forma o con ogni mezzo è severamente vietata se non autorizzata a mezzo scritto dall’Autore.

Anita Nair, Cuore di Malabar e altre poesie. Tradotte da Francesca Diano

Anita Nair, Malabar Mind, Harper Collins India

 

Anita Nair, oltre ad essere una grande narratrice nota in tutto il mondo, tradotta in 28 lingue, è anche autrice di testi poetici, che sono stati raccolti e pubblicati per la prima volta nel 2002 col titolo di Malabar Mind (Cuore di Malabar) e l’anno scorso in una nuova edizione per i tipi di Harper Collins India.

Perché questo titolo? Nel testo Anita Nair lo spiega con queste parole: “Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione venne divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, ne’ compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tuttora come uno stato d’animo.” Dunque ho scelto di tradurre mind con cuore e non con mente, poiché quella che celebra Anita è la dimensione non duale della mente/cuore.

I quaranta testi, scritti nell’arco di una decina d’anni, esplorano un mondo che per l’autrice è stato, fin dagli inizi, un potente serbatoio di ispirazione, immaginazione, ricordo e amore, miscelati e cucinati sapientemente nella sua fucina/cucina. Il Kerala è la sua terra natale, dove torna spesso per ritrovare il legame profondo con una continuità mitica e storica a livello personale e non. Il Kerala, stato indiano tra i più alfabetizzati e socialmente progrediti, è però anche un luogo dove vige tuttora una tradizione matriarcale, dove il mito e le divinità prevediche parlano una lingua udibile.

La voce delle poetesse in India, sia in inglese che nelle lingue indiane, è molto presente e non smentisce una tradizione antica. Negli ultimi decenni nomi come quelli di Kamala Das (da me presentata in un precedente post), Eunice De Souza, Imtiaz Dharker, Sujatha Bhatt, Tara Patel, sono divenuti ben noti. I loro versi sono spesso ispirati alla poesia occidentale del ‘900, con un’attenzione radicale al ruolo e al sentire della donna e della donna indiana oggi.

I testi della Nair hanno essi pure, è vero, questo sapore naturalista, postmoderno, ma con qualcosa di diverso e di più. Anita Nair non dimentica mai, nemmeno per un istante, la sua origine, il suo legame con la terra natale, gli odori, i colori, i suoni, i racconti antichi. Ed è questo che fa la differenza.

NOTA: Ringrazio di tutto cuore Anita per aver dato un assenso entusiasta alla mia richiesta di pubblicare alcune mie traduzioni delle sue poesie per il lettore italiano. Il suo affetto e la sua ormai ultradecennale amicizia sono per me un dono prezioso.

Cuore di Malabar

Nei suoi occhi il lampo del folle.

“Ciao  Madras, ciao  demoni infernali

Tenetevi le vostre politicanti e le mosche malate.”

Il treno del Malabar ansa e ridacchia.

Guarda questa ragazza, il pazzo guarda,

Le sue curve son meloni maturi

Mi scusi, non so quello che penso,

Posso sfiorarle i piedi?

Per piacere

La mia follia svanirà

Con la tenera brezza.

Lasciatemi andare, non sono matto

Solo deprivato

Perché ho lasciato la grotta di smeraldo?

Il fiume Nila

Rive alte di ghiaia giallastra

Un tempo fioriva il triangolo d’odio

Chi adorava la vacca, chi odiava il maiale

Chi – capelli di sole – la vacca la mangiava.

Nessuno sa come accadde.

Mille uomini pigiati in un vagone

Trasportati e sballottati, soffocavano.

Quando apriron le porte,

Per il puzzo, dicono

La  gente vomitò  per miglia intorno.

In Malabar ancora non dimenticano.

Talvolta la brezza ha il lezzo del sangue.

Lo Zamorin[1] vide il proprio volto

In una scheggia di vetro.

Aprì le porte all’avidità coloniale.

Abbiamo tanto pepe,

Così tante le spezie.

Datele  in cambio per avere  specchi

Deve vivere l’uomo ignaro del suo volto?

Ora i nostri uomini percorrono i mari

Oltre la baia verso Speranza deserta

Su acque stagnanti salpano le donne

Zattere solitarie, filando fibre di cocco, tessendo sogni.

Zubeida, nata in una sudicia capanna

Ora è regina di un palazzo verde

Ogni giorno rivoli di succhi

Di frutta le scorrono sul mento

Che altro si vuole dalla vita? Chiede.

Geeta ha la voce del marito su cassetta

I bambini ogni tanto l’ascoltano

Venu, lontano cugino

Fa l’amore con lei mercoledì e venerdì

Saziando il desiderio e il bisogno di coccole

Le carezza la pelle.

Lei gli lecca le palpebre  e lo incita

A possederla in un’estasi ritmata.

Soltanto finché “lui” non torna a casa,

dice a Dio.

Malibar

Manibar

Mulibar

Munibar

Melibar

Minibar

Milibar

Minubar

Melibaria

Malabria *

Dove la pioggia sibila

L’eco di mille passi

Ciascuno a misurare un cerchio d’umidore.

Dalle grondaie stillano infiniti pensieri derelitti

Lo strombo delle tegole rivela travi a cosce spalancate.

La politica è uno stile di vita

Iscriviti a un partito

Per un’identità

Al Congresso o all’RSS

Ai comunisti o alla Lega Musulmana.

Qui vita ce n’è ancora

Un’aria quieta di serenità.

Nayadi dentro al fango che arriva alle ginocchia

Trattori e bufali a fargli da compagni.

Insieme osservano il tempo passar lento.

E come  si può essere appagati

Sapendo i tuoi diritti?

Militanti si vestono con vesti di insegnanti

La foresta nasconde cuori disincantati

Ad ogni istante incombe la pazzia.

Stesa nella  piscina verde e limpida

A bocca aperta a bere la rugiada,

La concubina del nonno ieri è morta.

Chi gli accenderà la lanterna? mi domando.

Mio padre è ritornato dai suoi vasti giri

Ha costruito una casa e ci ha messo i suoi libri.

Mia madre ama non pensare a nulla.

La grotta di smeraldo ti avvolge consolante.

L’uccello-diavolo piange: puh-ah, puh-ah.

Bacio il mio talismano di peli d’elefante.

Le palme da cocco fan frusciare le dita.

Dicono che il coraggio e la tenera brezza

Curino la pazzia.

Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione venne divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, ne’ compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tuttora come uno stato d’animo.

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[1] Saamoothiri, anglicizzato in Zamorin, era l’appellativo dei  Signori di etnia Nair che governavano il regno di Kozhikode (attuale Calicut, da non confondersi con Calcutta) che fu capitale del Distretto del Malabar. Nel 1498 lo Zamorin  Manavikraman Raja accolse l’esploratore portoghese  Vasco da Gama (N.d.T.)

*  Dal 522 d.C fino all’XI o XII secolo, il Malabar era chiamato anche con questi nomi

 

Malabar Mind

In his eyes, the lunatic gleam.
“Ta ta Madras, ta ta fiends of hell
Keep your lady politicians and diseased flies.”
The Malabar mail wheezes and chuckles,
Look at this girl, the lunatic stares,
Her curves are ripe melons
Pardon me, I know not what I think,
May I touch your feet?
Please
My madness will vanish
With the soft breeze.
Let me go, I am not mad
Only deprived
Why did I leave the emerald cave?

The River Nila
Sand banks rising yellow and gritty
Once flourished triangular hate
The cow worshippers, the pig haters
And the sunshine-haired cow eaters.
No one knows how it came about.
A thousand men piled into a carriage
Trundled and truckled, gasping for life.
When they opened the doors,
The stench, they say
Made people gag a mile away.
In Malabar, they cannot forget,
Sometimes the soft breeze smells of blood.

The Zamorin saw his face
On a piece of glass
Opened doors to colonial greed.
We have so much pepper,
So many spices.
Give it to them for mirrors
Should man live a stranger to his face?
Our men now sail the seas
Across the bay to the desert Hope
In the backwaters, women sail
Lonely rafts, spinning coir, weaving dreams.

Zubeida, creature of the grimy hovel
Queen now of a green mansion
Fish juices trickle down her chin every day
Is there more to life?  She asks.
Geeta has her husband’s voice on tape
The children listen to it now and then
Venu, distant cousin
Loves her on Wednesdays and Fridays
Satiating lust and a need to be held
He caresses her skin.
She licks his eyes and wills him
To take her in rhythmic ecstasy
It is only till ‘he’ comes home,
She tells God.

Malibar
Manibar
Mulibar
Munibar
Malibar
Melibar
Minibar
Milibar
Minubar
Melibaria
Malabria*
Where the rain hisses
Echoes of a thousand footsteps.
Each seeking to measure the girth of wetness.
Eaves drip countless forsaken thoughts
Tiles splay revealing parted rafter thighs.

Politics is a way of life
Belong to a party
For an identity
The Congress or the RSS
The Muslim League or the Communists.
There is still about life here
A quiet air of restfulness.
Nayadi knee deep in slush
Tractors and buffaloes his companions.
Together they watch time amble by.
How can man be content
When he knows his rights?
Militants dress in school teacher guises.
The forest hides disenchanted hearts
Madness threatens to erupt at any time.

Lying in the limpid green pool
Mouth open to catch the first dew drop.
Grandfather’s concubine died yesterday.
Who will light his lantern at night? I wonder.
Father came back from roaming the plains,
Built a home and settled his books.
Mother likes to think of nothing.
The emerald cave has a soothing clutch.
The devil bird weeps: Poo-ah, Poo-ah.
I kiss my elephant hair talisman.
Coconut palms rustle their fingers.
Courage and the soft breeze
Will cure madness, they say.

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Solitamente  un uomo, a volte un dio

 

Sappilo, donna

Mille soli s’avvolgono al mio braccio.

Marchio  di chi io sono

Solitamente un uomo, a volte un Dio.

Striscianti, predatori

Sento i tuoi occhi

Tracciare segni di tintura vermiglia, di curcuma e di riso

Squarciando la seta bruna della mia pelle.

Donna, sento il tuo tocco.

Macerie di luce:

Densità di una notte senza stelle.

Il mio indice divenuto pennello,

Lampada scintillante oscuro il mio colore.

Quando il tuo sguardo incontra il mio

Nell’arena d’amore ch’è lo specchio,

Mi tremano le mani,

I contorni si sfumano.

Donna, non sai quel che mi fai.

Donna, ho abbandonato la mia pelle.

Ho assaporato l’eternità.

Ed ora cesserò di essere.

Ma prima che tu scemi nel nulla,

Assaporo la linfa della palma da cocco.

Stringo la tazza di terracotta come fosse il tuo mento.

M’inumidisco le labbra alla tua bocca.

Bevo profondamente di questo desiderio proibito e mortale.

La  mia corona è intrecciata d’erba e divinità.

Labbra carnose, labbra bianche, lanugine nasconde la mia bocca d’adultero.

Tendo   l’arco di bambù.

E sollevo la lama scintillante.

Vibrano i tamburi a ridestare  il dio che s’è assopito.

Tremor di cavigliere  mentre l’uomo ch’è in me si ritrae.

Non sono più chi tu hai desiderato.

Sono il tuo protettore.

Il fiero dio Muthappan.[1]

Parla Muthappan:

Io sono il signore della giungla, il figlio dei vitigni torturati

Lesto di piede, leale sino in fondo.

Il cane m’accompagna,

Il cieco Thiruvappan è il mio compagno.

E  nei momenti oscuri di questo tempo

Sarò con te.

A  darti aiuto e consolazione.

A  proteggerti ed a sostentarti.

Guarda, con questa freccia

Che perfora l’occhio del cocco

Io distruggo ogni male

Che ti turbina intorno.

Spicco dal serto della speranza,

Frammenti  perché tu vi costruisca

Tutti i tuoi sogni.

Premo la mano sulla tua testa;

Che i tuoi nervi trasmettano il messaggio

Che mai io t’abbandonerò.

Tutto questo e altro ancora

Farò per te.

Ma prima dentro di me la sete

Spegnerò con latte ancora tepido.

Con il vino di palma che ribolle

Senza fermare il tempo.

Succhio dalla lunga canna di bronzo

Mastico un pezzo di pesce secco

Muthappan è soddisfatto;

Muthappan è felice.

Muthappan ha parlato.

Più non gli sono necessario.

La mia corona del potere è fatta d’erba vizza.

Scorre sulla mia fronte il sale del sudore.

Con dita che un tempo cercarono  perfezione,

Di dosso mi rimuovo la maschera del dio.

Donna, sono di nuovo chi io ero,

Un uomo con la pelle ed occhi

Che cercano i tuoi.

Donna, che al tuo desiderio il mio s’unisca.

Che la mia bocca  sia sigillo alla tua.

Che la mia fame bruci la tua pelle.

Perché ora mi sfuggi?

Perché senti l’odore di selvaggio?

Temi colui che fui?

Ascolta donna,

Io sono un uomo;

Solo talvolta un dio.

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[1] Muthappan, il cui nome letteralmente significa “zio maggiore del padre”, è il benevolo  Dio Cacciatore del Kerala. Il suo culto antichissimo  risale all’India prevedica. Il dio viene fisicamente  impersonato ogni giorno da un uomo che ne indossa i coloratissimi panni e i pesanti ornamenti, che ricordano i più antichi personaggi della danza Kathakali.. In quel momento l’uomo perde la sua natura umana e diventa il dio. Muthappan racchiude la doppia natura di Vishnu e Shiva. Il cane è il suo animale sacro. (N.d.T.)

*******************************************************

 

Possa tu dormire un milione di anni, Shiva

 

 I

Padrone dell’universo

Signore della distruzione,

Sono di fronte a te

Ma non ti temo.

Hai mai avvertito

Le ossa di tuo figlio pungerti il palmo?

Hai mai sentito

Il pianto perforante della fame?

II

Ho placato

Ormai le  richieste e il mio richiamo.

Ho cantato il tuo nome

Per milioni  di volte.

E tuttavia, certo ritorneranno i miei avi

Vampiri avidi dei resti della mia colpa.

Ché sanno che rinunziando a te

Rinunzio a loro.

III

Più non raccoglierò fiori di campo

A nascondere la tua nera tumescenza

Coi rossi petali della speranza

Che sbocciano, fioriscono e poi muoiono dentro questi cortili.

Non arderanno lampade, tuo occhio che tutto vede.

Non il tuo fiato di canfora strinerà le pareti.

Mai più io fingerò che tu esista.

I tuoi doni, soltanto cenere che mi strozza la gola.

IV

Per un’ultima volta

Mi sono immerso nella piscina verde.

Le lacrime degli uomini prescelti, come fui io, insozzate dal fango.

Per un’ultima volta ho retto il filo che a te mi lega.

E che nel dirti addio così  ti maledica:

Possa tu vivere prigioniero del tuo sonno.

E, quando sarò andato, nessuno ti risvegli

Mai più per te richiamo di campana.

************************************************

Un’impronta di Baga[1]

 

I

Fiammeggiante

una linea di giallo

dardeggiò.

Inquisendo

saggiando

l’abisso fiammeggiante.

I fianchi doloranti

le labbra gonfie.

Onde si sollevarono

prosciugano le fiamme

inghiottono il calore,

il seme tumultuoso.

Speranza.

Un desiderio muto

di creare

nutrire

un essere dorato

per un istante breve.

II

Polvere d’ossa calcinate

di qualche antico abisso.

Orlano  l’occhio dell’oceano

arginando le grandi lacrime di sale.

Non scompaiono

nemmeno se inondate

ed a volte sommerse

dalle onde.

Che mai cessano di tentare

la fuga.

Imprigionate

dentro insensati accoppiamenti,

chicco e chicco

e chicco e chicco

ciascuno separato

ciascuno indistinguibile

dall’altro.

Non ricordi.

Non sogni.

Non paure.

Non desideri.

Non pena.

Se gettati

pestati

o trascinati

da un’onda negligente

ancora sono intatti

ancora paghi.

III

Il sole in ritirata

lasciò che il panneggio

del letto dell’oceano

si levasse sempre più in alto

finché ciò

che rimase

fu una chiazza

a macchiare i cieli;

alcune nubi illividite

ricordi alla deriva

di una presenza

persa

ed uno strano vuoto

insopportabile.

Poi

dalle onde

un ponte emerse

tra la terra dei vivi

e la città dei morti.

Incrostato di corallo

di raggi d’oro

racchiuso tra le perle

e sotto pesci a fare serenate

e delfini a danzare.

Dal punto

in cui il sole stillava sangue

dilagava

fino alla punta dei tuoi piedi.

Calpestalo

se osi

dove  vivi e i morti s’uniscono.

Segreti che s’intrecciano

sogni

saggezza

speranza.

Sfiora una guancia

tocca un dito.

Cammina

in un tunnel del tempo.

Solo per un momento

un battito di palpebra

e poi non resta nulla.

IV

Olio d’anacardio.

Barche annerite.

Ricci di mare aculeati.

Ascelle rasate.

Orme sulla sabbia.

Panchine copulanti.

Cozze al vino bianco. Cozze masala. Coppa di conchiglia.

Moto. Vichinghi.

Hippy fatti plutocrati.

Cani addormentati.

Ombre lunghe.

Bambini nudi.

Potenza del vento.

Sale marino. Brezza marina. Mare che azzitta l’orizzonte.

Ascelle pelose.

Cani chiassosi.

Teste ondulanti.

Teli solitari.

Reti da pesca annodate.

Vecchi con voglia di morire.

Onde battenti. Onde arretranti. Onde volventi dal ventre d’oro.

Corvi in picchiata.

Ombelichi perfetti.

Ciabatte di plastica.

Venditori di ananas.

Pescatori che pescano la sabbia.

Sirene in sarong.

Sole stanco. Sole calante. Sole a sognare il mattino.

Due uomini su una roccia.

Scogliere incombenti.

Baia ricurva.

Nube che esplode.

Macchie di sale.

Oceano in una conchiglia intrappolato.

Spiaggia in ombra. Spiaggia coperta di salsedine. Spiaggia addormentata.

Mezzaluna del pube del cocco.

Faro sfavillante.

Mozziconi piegati.

Grugnir di maiale.

Nave fantasma.

Giocolieri.

Sospiro di mare. Sospiro di sabbia. Sospiro di sole.

*********************************************

Salve lascivia

 

L’avrei dovuta vedere la lascivia quand’è arrivata

Avrei dovuto saperlo a questo punto.

Poiché viene a trovarti

Scuotendo campanelle sulla porta

Profumata di sole, d’erba, di astuti desideri.

Poiché ti striscia una piuma sull’anima

e sommuove il tuo cuore catatonico

ed invia al tuo cervello piccole note ritmiche.

Poiché ti stringe fra le braccia

e soffoca le incertezze quotidiane.

E poi ti fissa negli occhi e ci si pianta.

Poiché nulla promette

e poi ti lascia andare alla deriva

a calcolare il tempo con un mucchietto crescente di “perché”.

Poiché in seguito finge di non esserci stata

e che tutto ciò ch’è accaduto altro non era che uno stato d’animo

che va dimenticato e gettato alle spalle.

____________________________

[1] Baga è una città di mare nello stato di Goa, famosa per  la sua spiaggia dalla sabbia bruna. (N.d.T.)

********************************************

Maschera  di bellezza

Con polvere di sandalo e di curcuma

Con yogurt inacidito

E gocce di speranza annaffiate d’acqua di rose

Preparo un volto nuovo e risplendente

Per  questa nuova me.

Con questa maschera esfolierò

 Il passato maculato di  “forse” giallastri

Penetrerò a raccogliere residui di rifiuto

Spianerò vecchi sentieri inutili

E asporterò ogni traccia di deboli elogi devastanti.

Traduzione di  Francesca Diano (C) 2012 Riproduzione Riservata 

(C) 2002 by Anita Nair per i testi originali.

Ma un recensore non dovrebbe conoscere la materia di cui parla?

Mi è capitato di leggere alcune interessanti recensioni di romanzi indiani tradotti in italiano, non firmate, o firmate solo col nome proprio, su di un sito dedicato al cinema indiano. In realtà l’ennesimo blog dedicato (e ti pareva) al cinema di Bollywood. Ben fatto, non c’è che dire. Peccato sia tutto anonimo, dato che nessun nome o firma sono in alcun modo rintracciabili su questo blog.

Detto per inciso, pensavo che, chi scrive una recensione, su qualunque argomento, dovesse firmarsi con nome e cognome, tanto per assumersi la responsabilità di ciò che mette per iscritto. Non è solo una simpatica abitudine, ma anche un atto di civiltà e professionalità, magari solo per risultare più credibili.

Anche perché su questo sito, si citano ampi stralci tratti da opere coperte da copyright e non credo sia sufficiente mettere le mani avanti e dichiarare: “se abbiamo violato il copyright, o se non abbiamo chiesto il permesso all’editore, ce ne scusiamo”!

Tra le varie, la recensione  di Un uomo migliore, di Anita Nair, che potete leggere qui  e, nello stesso sito, un’altra, quella di Nettare in un setaccio, di Kamala Markandaya, che potete leggere qui e ancora una recensione di La Stanza della Musica, di Namita Devidayal, che potete leggere qui.

Ho scelto queste recensioni perché riguardano romanzi di autrici indiane che conosco molto meglio di altre per vari motivi. Ovviamente Anita Nair perché sono la sua traduttrice italiana, ma la Markandaya perché avevo letto il suo romanzo di una bellezza che ti strappa il cuore, agli inizi degli anni 70, quando vivevo a Londra e il romanzo era un caso editoriale. Nectar in a sieve, il titolo originale,  dell’edizione ancora in mio possesso, è un romanzo che descrive, nello stile tipico di quella corrente di naturalismo narrativo che la letteratura indiana conobbe agli inizi del 900, la dimensione più tradizionale dell’India, quella rurale e del villaggio. Markandaya ha una scrittura di una delicatezza estrema, raffinatissima e lirica, eppure riesce a ricreare l’atmosfera apparentemente semplice di sentimenti primari, essenziali. Quasi primordiali. Ma non è solo questo, è stato anche il primo romanzo che ha rivelato una scrittrice indiana che scriveva in inglese all’Occidente.

Il romanzo conserva tutta la freschezza e la poesia e la forza che si trova in una scrittrice tra le più grandi che l’Italia abbia avuto e che ha dimenticato: Grazia Deledda.  Dunque, dare un giudizio come quello contenuto  nella recensione denota non solo cecità per la bellezza e la forza del romanzo, ma anche una limitata conoscenza sia della letteratura indiana che della cultura e della società indiane.

Analogo discorso va fatto per la recensione di Un uomo migliore, di cui ho già scritto ampiamente sul mio blog e di cui ho spiegato i profondi meccanismi e significati.

Dopo aver fatto degli appunti allo stile, come se proprio quel modulare lo  stile a seconda del personaggio (variando da registri drammatici a comici, a grotteschi a poetici e sognanti) non fosse la chiave di interpretazione dei singoli personaggi, Si arriva addirittura a dichiarare “alcune tappe rituali fanno sorridere”….  sorridere chi? Un’espressione davvero infelice, perché tradisce un atteggiamento di supponenza che parrebbe fuori luogo. Il significato semantico  di questo sorriso infatti è: guarda che ingenuona è questa Nair, i mezzucci letterari che usa sono infantili e io, dall’alto della mia conoscenza, non ci casco di sicuro.

A quali  tappe rituali (tappe rituali?) poi si riferisce?   Forse intendeva quell’intuizione geniale per cui Mukundan viene rinchiuso in una enorme giara per rivivere una sorta di ritorno all’utero. Credo che chi ha scritto questo non sappia molto di antichissimi riti, atavici, e della dimensione ancora intrisa di magia religiosa che permane in molte zone rurali del subcontinente indiano, specialmente nell’India meridionale, dove il Kerala si trova. I culti religiosi che vi si praticano non sono di tradizione hindu. Questa  non è l’India vedica, ma dravidica.

Per quanto riguarda La Stanza della Musica, che è un romanzo, almeno nella versione originale, che molto perde nella traduzione italiana, di folgorante bellezza, è ovvio che per apprezzarlo appieno sarebbe auspicabile sapere qualcosa di musica indiana classica e semiclassica. In questo caso, di  canto.  Magari non in modo superficiale. Magari saper apprezzare il diversissimo senso del tempo, musicale, ma anche interiore, dell’anima indiana, che la raffinatissima musica, narrata con altrettanto raffinatissimo linguaggio (poiché qui forma e idea si uniscono in una sintesi mirabile) racchiude.

Allora, ho trovato un po’ bizzarro che la nota “negativa” del recensore sia: “ci metterete più di un paio di giorni a finirlo”…

Lo spero bene, è un libro piuttosto corposo!

E questo mi ha aperto gli occhi! Se  la velocità di lettura di questo recensore anonimo è tale, forse per questo si perde le finezze, le sottigliezze, le sfumature di una letteratura che chiede tempo, amore e rispetto. E apertura mentale a ciò che è diverso da noi.

 

Ma quand’è che l’Italia uscirà da questo provincialismo che fa sì che tutti strillino alla meraviglia quando le mode arrivano da noi – in genere quando ormai sono quasi finite altrove? Quand’è che la gente si prenderà la briga di conoscere  gli argomenti di cui parla? Decenni fa proposi Nectar in a sieve, allora da noi sconosciuto (ovvio) e strapremiato ovunque nel mondo, a qualche editore. NON ERA INTERESSANTE. Chi voleva leggere un romanzo scritto in inglese da una donna indiana? Il massimo che si conosceva da noi era Tagore, e magari solo per sentito dire, perché aveva avuto il Nobel.

Ma non parliamo di Tagore anche oggi, per carità. Girano traduzioni che….

N.B. Il sito rende impossibile lasciare dei commenti se non si è membri del team, nessuno dei quali appare col proprio nome… capito?

Anita Nair – The better man

Anita Nair The Better Man. Italian edition translated by Francesca Diano. Guanda 2010

Anita Nair and Francesca Diano at the Turin Book Fair (Salone del Libro) 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

It has  recently been released a new Italian edition of The Better Man, (Un uomo migliore, Guanda, 2010)  the first novel by the Indian writer Anita Nair. It was this the work that introduced me to Anita Nair’s art and made me love her first as a writer and, later, as a dear friend.

Her first novel as I said, but not her first book. That was the short story collection Satyr of the Subway.  So, The Better Man is a transition between her first published work and the international bestseller Ladies Coupé. Still,  in this novel, all is already there: the magic, the elegance of her style, the depth of her writing, the fascination and the vastness of her literary world, even if compressed in a small Kerala village.

The story is set in the little, imaginary  village of Kaikurussi, in Kerala, the state where Nair was born and that permeates her poetic and evocative writing. In the past, Kerala was part of a region known as Malabar.

Malabar is no more but, like Anita Nair says, it is still a state of mind, a powerful feeling, arising from a longing for the past, a denial of the future, but also from a silent sense of unhappiness.

Kaikurussi is a village in the middle of nowhere, where  nothing remarkable is to be found, where  no great man was ever born, where even the road comes to an end, leading to nowhere. Just fields and hills. And souls.

In the first pages, the reader is directly addressed by Bhasi, the housepainter, speaking in the first person. He is the only character in the novel, whom we can connect with immediately, as a direct link to the heart of the narrative, and we are able to do so, thanks to this intimate relationship that his being an “I” sets right from the start.

In fact, Bhasi is the very heart of the plot, the deus ex machina, that will set off the many changes. So, he is, right from the start, an off-screen voice, the voice of the village conscience. Yet, he is inside the story, partaking of this double nature: a character and the motive; part of the village and an outsider. And this will be very clear at the end.

Bhasi has taken refuge in this far away place, running away from his past as a university lecturer and from a secret.  Hiding his very self from the world. Nobody knows about his past; to the village he is “One-screw-loose- Bhasi”. But he is a healer too. He heals crumbling walls and sore souls, aching bodies and rotting plasters. He knows herbs and techniques, he has his own bizarre methods, mixing fithotherapy, psycology, magic and homeopathy. And his desperate need to be needed, to be loved, to be accepted. This is why, in his obscure life, he feels that something great will happen one day, something that will give him “a reason to exist”. He’s waiting for it. And destiny will bring that reason to him: Mukundan.

Mukundan Nair is a man with folded wings, like the handkerchieves he meticously folds into eight parts. A man oppressed by endless fears and doubts, not well certain of who he is, crushed by a vicious, dictatorial father since he was a child.

He is a retired government official and is back to Kaikurussi because has no other place to go.

And the meeting of these two men, so different from each other, so necessary to each other, is an extraordinary meeting. The story of a deep healing and of a rebirth, of a spiritual healing and deep transformation, will go through a terrible betrayal: that of Mukundan, who will discover, in the end, that he is not better man than his father. In order to gain his place among the leading people of the small village, he deceives his friend and benefactor; he forces Bhasi to sell his house for almost nothing, so that the pompous and bossy Power House Ramakrishnan will build a useless Community Hall.

The fictious village of Kaikurussi, with its exraordinary characters, with the ghostly presences, where all the clash between the old and the new India creates subterranean currents of discontent and uneasiness, with its undercurrent of myths, magic and mystery, is actually all the world.

And, the end of the novel is no less suprising,  impressive and unexpected than the novel itself. The loosing of that knot, heavier than a boulder, requires a blast. A real one.

I’ve always thought that this explosion, this destruction of the Community Hall by hand of Mukundan, it was a symbolic explosion of a world suspended between past and present, unable to find an answer. Not an immediate one, not an easy one. So you can do only one thing: step out.

It is true, Mukundan destroys what had been Bhasi’s betrayal tangible and symbolic object. But, does he ask himself what will happen next?

Will then Mukundan find eventually the courage to break free from himself, to become a better man than his father? A man?

Anita Nair’s language is as light as it is powerful, as evocative as it is full of magic, ironic and humourous and full of drama. So limpid that you can see the darkness peeping behind.

I was given this novel to read 11 years ago, when Anita Nair was not yet the worldknown author she is now and still very young. I couldn’t believe that this mature and knowing portrait of the human soul could have been written by such a young writer. The emotion was very strong, right from page one. It was Anita Nair’s Italian debut, the book I love most.

Like it had happened for all her books, translating it was pure joy,a deep emotion and it seemed to me so easy, so natural, to find an Italian form that would render in full her style and voice. A voice that is now heard by milions of readers.

(C) Copyright by Francesca Diano

Politica editoriale italiana: fiabe e leggende sono out

T.C.Croker Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland 1825

Se esiste un patrimonio dell’umanità che, nonostante i tempi e gli avvenimenti, si è conservato intatto e intatto rimane il suo fascino, questo è l’immenso corpus delle fiabe, delle leggende, dei miti e della tradizione orale che ogni paese civile conserva con amore.

La tradizione orale, che a partire dal 19° sec. ha iniziato a scomparire nelle sue forme popolari, è il serbatoio della nostra identità, è il tesoro che custodisce le origini di chi siamo. Ed è stato il Nord Europa ad insegnarcelo.
Paesi in cui l’amore per la cultura e la tradizione sono la pietra angolare su cui fondare il futuro, lo sanno bene e spendono notevoli risorse per diffondere e conservare il loro prezioso patrimonio.
La mia esperienza di insegnamento all’università di Cork mi ha rivelato qualcosa sui giovani irlandesi che non avrei immaginato: la conoscenza che hanno dei miti e delle leggende della loro terra non è solo parte della loro cultura, ma è parte di loro stessi, vi si riconoscono.
L’amore che da sempre ho per il mito e le fiabe, per le leggende e i racconti orali, mi ha spinto a occuparmene ormai da decenni e non intendo smettere. Tanta è la gioia che ne traggo.
Per questo motivo, agli inizi degli anni ’80, proposi quella che era la raccolta di leggende irlandesi più importante, più antica e famosa. Non da noi. Da noi era sconosciuta, come il suo famosissimo autore. E questo molto prima che l’Irlanda divenisse “di moda”.
Ma, proprio perché l’editoria italiana non è interessata a ciò che non conosce, o è interessata solo a ciò che è “di moda”, mi ci vollero 15 anni per trovare l’editore che finalmente si decidesse a pubblicare questa meraviglia di libro. Quell’editore poi, ne ha fatte moltissime ristampe e ne ha vendute decine di migliaia di copie. Questo perché, nel frattempo, l’Irlanda era diventata “di moda”.
 
Bene, ho provato a proporre in questi giorni un altro testo, di uno degli autori più famosi al mondo (e anche da noi) di fiabe e leggende, ma un testo che, pur famosissimo in Europa e in America, è inedito da noi e aggiungerebbe molto alla conoscenza dell’argomento, anche perché è un testo rivoluzionario e, anche se dei primi dell’ ‘800,  batte una strada ancora poco esplorata. Un testo di una bellezza e piacevolezza uniche.
La mia esperienza trentennale di traduttrice, consulente editoriale e saggista dovrebbe essere una garanzia di serietà per chiunque. E non sono proprio una sconosciuta. Credo.
Il direttore editoriale dell’importantissimo editore a cui l’ho proposto, uno degli editori che ha fatto la storia della cultura italiana, dopo un mese che aveva ricevuto la mia mail e dopo alcune sollecitazioni, si è  degnato di rispondere.
Cosa ha risposto? Queste sono le sue parole:
” E’ un filone che abbiamo battuto per decenni, come ben sa, ma che poi abbiamo considerato esaurito o in esaurimento, anche in base al riscontro dei lettori.”
Dunque, questo signore, che si suppone debba possedere la cultura sufficiente per dirigere un settore molto importante di una casa editrice importantissima e storica, considera che il filone dei miti e delle leggende, che seguita tra l’altro a vendere moltissimo, non importa se ancora sconosciuto – dunque una grandissima novità editoriale –  e non importa se legato a un nome che ha fatto, anzi fondato la storia del folklore europeo, sia un “filone esaurito o in esaurimento”……
Tanto di cappello alla cultura di cui è rappresentante!
Quando, agli inizi degli anni 70, proponevo di tradurre una meravigliosa poetessa inglese, di nome Sylvia Plath, mi fu detto che non era interessante. Chi la conosceva?
Quando, negli anni 80, proposi di tradurre l’opera più misteriosa, più grande e geniale di Edgar Allan Poe, che nessuno da noi conosceva, “Eureka”, dissero che era troppo astrusa.
Quando, sempre negli anni 80, proposi Croker, mi dissero che le leggende irlandesi non avrebbero venduto (mai tradotto nulla del genere prima da noi).
Di recente mi sono sentita dire, nel proporre un grandissimo poeta irlandese vivente, più grande di Seamus Heaney, famoso e carico di premi ma mai tradotto da noi, che “è sconosciuto e la poesia non vende”.
Quando ho proposto un capolavoro della scrittura femminile indiana, ritenuto in India l’esempio più perfetto e bello di inglese letterario scritto da un autore indiano, oltre che assolutamente divertente, mi è stato risposto, essendo l’autrice morta qualche anno fa, “che è morta, dunque non può più scrivere altro”….
Ecco qual è la politica editoriale italiana. Che importa se tutto ciò che ho proposto poi ha venduto moltissimo? Che importa se alcuni di quegli autori poi sono diventati famosissimi? Che importa se uno ha “naso”? Che importa se si è dei traduttori che più volte hanno ricevuto menzioni d’onore in premi nazionali? Non sei nella cricca di “quelli che contano”.
Questa gente ottusa ti fa sentire una Cassandra a rovescio. Uno annuncia la fortuna e loro non ti danno alcun credito, a dispetto del fatto che numerosi esempi confermino da sempre che tu hai ragione. E, nonostante poi siano costantemente sbugiardati, seguitano a dire: “il filone è esaurito, non ci sono lettori, l’autore è morto, l’autore è vivo”.
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Carlo Diano “Giulietta” Un’anticipazione dell’Alcesti

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Il testo della poesia che viene qui dato di seguito e che mio padre Carlo Diano aveva pubblicato nel 1933 in una raccolta intitolata “L’acqua del tempo”, (Società Anonima Editrice Dante Alighieri) mi ha spinta a un’analisi più approfondita di quanto avessi fatto in passato, perché, rileggendolo di recente, mi sono resa conto di un aspetto assolutamente nuovo e importantissimo nel pensiero di Carlo Diano. Mi sono resa conto che in “Giulietta””, è contenuta già tutta la visione che, molti anni dopo, costituirà la sua rivoluzionaria lettura dell’Alcesti di Euripide, nel bellissimo saggio “Il senso dell’Alcesti” (In Saggezza e poetiche degli antichi, Neri Pozza, 1967).
La lunga nota  che ho posto di seguito a “Giulietta”, è una lettura mai data di questo testo e contiene una scoperta che nessuno aveva mai fatto in precedenza. Sono felice di averla fatta io.

GIULIETTA

da L’acqua del tempo, 1933

Poi che, gemendo, la sua bella forma
mortal lasciata, dileguò nel buio
della morte Giulietta, corse a un tratto
un veloce pel ciel rabbrividire.
Ella fuggia con angosciosa lena
cercando l’eternal piaggia e chiamava
in suon di pianto disperato il nome
del suo Romeo. D’accanto ombre infinite
ne agguagliavano il passo e le traea
diverso affanno dalla vita vana.
Ma nessuna l’udia, ché forse suono
non avea la sua voce, e greve ognuna
dei suoi giorni terreni il carco amaro
incalzava implacabile; ed andavano
cieche e sicure per l’estrema via,
come se già fin dalla prima luce
quella percorsa avessero in un sogno.

Giulietta andava e non sentiva più
rammarico del sole e non del bianco
gelido corpo, che d’amore i primi
dolci messaggi disgelato aveva
alle speranze sue timide e ignare,
ma sì una brama, un’assetata brama
senza riposo, più che nella vita,
d’un bene eterno, immobile, infinito,
cui già tremò sognando al primo sguardo,
allora, e al primo palpito d’amore,
e pianse ignote lacrime e soffrì
dell’esser suo e desiò morire.
Ed or più forte quel dolor la preme,
unico immenso, dileguando l’ombra
rosea del mondo e le parvenze infide:
dolore incoscio, silenzioso pianto
dell’essere, indicibile sospiro
dell’uno al tutto, dell’eterno al nulla:
primo sussulto della gemma anela
dentro lo scabro ramo, ultimo grido
del cuore stanco al turbinio del mondo.

Ed ecco giunse sulla sterminata
pianura e al pigro fiume. Ivi al traghetto
nave non era e non lume e non guida,
ma un ponte v’era, dove sempre in folla
traean l’anime rapide anelando
all’altra sponda, all’immutato oblio.
Come uno sciame d’api che al suo bugno
subita pioggia incalza, una sull’altra
ondante flutto svolano, e da lunge
altre ne arriva e trepide stridendo
contro l’arnia si premono e s’accalcano;
tale di qua dal ponte il nereggiante
stuolo mareggia, e via di là s’allarga
lento e stupito per l’inferna riva,
varcata l’acqua dell’oblio, la cupa
tacita eterna corrente del Lete.
Passò Giulietta. Ed ecco a lei fluiva
entro il cavo dell’anima una pace
grande. Come  nel ciel, quando la notte
cade e il muto crepuscolo s’imbianca,
nell’alta quiete un pallido stupore
riveste il mondo: or, sull’affanno e il pianto
era silenzio e l’anima posava
in un’azzurra tenebra di sogno.
Così movea, qual trepida falena,
lieve tra le vaganti ombre dei morti.

Erano mille e mille ombre, più vane
dell’aria immota sul notturno prato
di verde smalto, cui lontan cerchiava
una cerulea tenebra silente.
Mute vagavan, senza duol né gioia
Nei volti scialbi cerei stupiti:
madri che insonni pargoli invocavano
là nella vita derelitti e tristi;
canute fronti di mestizia impresse,
ombre cui già gravò gli anni più belli
di sue vane chimere il mondo vano;
visi soavi ove l’antico lume
di giovinezza traspariva a pena,
simile a fiore in limpide cilestri
profondità marine; oscure e torve
occhiaie aperte su maligni abissi,
gravi di bieche colpe e sozze brame,
inerte popolo che l’estrema luce
fermò per sempre; e qua e là solinghe
coppie d’amanti in un eterno amplesso,
stretti nell’immutabile mistero
del lor desio cui cementò la morte.
Tutto il dolore e la miseria e il pianto
e il male e i sogni e le speranze umane
impietrava nel pallido riflesso
dei morti volti una stupita quiete.

Romeo, laggiù, pallida fronte, intente,
pupille, immote schiuse labbra, invano
come in un grido – l’ultimo più forte,
fuggendo il sangue, in un nome soave –
sedea solingo, e a lui lieve da lungi
ecco Giulietta sul notturno prato,
Giulietta sola verso lui venire.
Come la cima discoscesa e nuda
contro l’azzurro, se al potente fiato
nuvoletta trascorra e l’inghirlandi,
copre pei fianchi un subito pallore,
fresco alle sitibonde ispide rocce;
così Romeo trascorse un lento moto,
come il ricordo d’un desio già spento,
e gli occhi opachi nelle occhiaie nere
corse un baglior, come di notte l’onda
sulla buia distesa ampia del mare.
Ma non si mosse: a lui venia Giulietta,
come portata nuvola dal vento:
vento di morte, vento era d’amore.
O gioie, o affanni contenuti un tempo
nel cuor segreto, o trepide parole
fatte di nulla, o labili carezze
degli istanti d’oblio, roseo fiorire
d’inaudite primavere, incanti
d’ignoti beni e subiti desii,
palpito d’onde dal perenne fiume
della vita placata or nell’immenso
eterno mare, ove rifluttua sola
la muta e lieve immagine d’un’ombra,
la breve, azzurra linea d’un sogno.
Venia Giulietta a lui, per sempre, e il volto
suo verginale rifiorìa una luce
candida opaca, quale nelle notti
dell’estate odorosa in fondo al cielo
sale da cupe azzurrità la luna;
quieto riflesso, ove non più s’infosca
ombra d’affanno, luminoso oblio
intorno al muto suo sguardo d’amore.

E su lui s’abbatté come una lenta
onda, per sempre, nell’eterna pace.

CARLO DIANO

NOTA di Francesca Diano

La fiaba tragica di Giulietta e Romeo, non diversamente da quella di Tristano e Isotta, da cui ha origine,  è immagine della visione che la società cavalleresca dell’Occidente medievale ha dell’amore. L’amour-passion, la cui tensione estrema non può risolversi che nella morte. Non solo perché la morte è il punto di rottura di un sentimento che si fa intollerabile per la propria intensità e impossibilità di essere vissuto, ma perché solo nella morte l’amante dà  all’amato prova della sua totale fedeltà. Fa dono di sé. Appunto, oltre la vita. Così come il cavaliere fa dono di sé alla sua Dama e Signora, provando il proprio valore in imprese eroiche, a lei dedicate, sfidando la morte.
Questa visione dell’amore, che appare in Occidente intorno al XII secolo, come il meraviglioso saggio L’amore e l’Occidente  di Denis De Rougemont analizza, viene da de Rougemont  definito “il mito della passione” ed egli ne ravvisa le origini nel mito di Tristano e Isotta, anche se le sue radici affondano in un tessuto ben più vasto: dal Manicheismo ai Catari, dalla Gnosi alla mitologia e alla religione celtica, con antichissime origini indiane, iraniche ed egiziane.
La matrice più forte però, per de Rougemont è quella dell’eresia catara, che al contempo trapela anche dai versi oscuri e a chiave dei poeti provenzali e stilnovisti, soprattutto in Guinizelli. La visione catara dell’amore è quella di una totale e assoluta sublimazione e negazione della materia, giungendo al rifiuto di ogni contatto fisico anche tra coniugi. L’amore più perfetto è l’amore puro e sublimato, la virtù suprema.
Verona è stata una delle roccaforti dell’eresia catara, contando gruppi nutritissimi di seguaci e di sicuro questo ha lasciato una traccia nella leggenda di Giulietta e Romeo che, letta sotto questa luce, svela risvolti di significato molto più vasto.

A parte il Paolo e la Francesca di Dante tuttavia, il mito dell’amore fino alla morte, ch’è anche specchio del sacrificio di Cristo, nelle versioni che ne dà l’Occidente medievale, si ferma alla soglia del passaggio finale.
Ciò che è importante è provare la propria fedeltà, il patto sigillato dall’offerta, che ha come beneficio l’immortalità della memoria. Non ciò che accade dopo.
L’Occidente cristiano non ammette l’amore se non sublimato e negato nelle sue forme materiali.
Dunque, solo Dante, che ben conosce tutto questo e al pari lo sublima, e tuttavia  non riesce a cancellare l’amore per il corpo di Beatrice, se non tentando di trasformarlo in un corpo mistico, rivede nell’unione inscindibile di Paolo e Francesca la propria. Questo è il senso della violenta sincope che lo coglie al termine del racconto di Francesca.
Nel mito classico di Orfeo ed Euridice la vicenda si rovescia. L’amante non può tollerare la morte dell’amata, non può trovare alcun sollievo nell’idea di una vita oltre la vita. Che nell’Ade non è che esistenza larvale. E quella morte la rifiuta.
Il mondo, non genericamente  pagano, ma più precisamente precristiano, non contempla un amore che non sia lo specchio del desiderio di tutto l’essere, che in tutto l’essere non si riversi, perché non concepisce separazione tra anima e corpo. Dunque, la morte di Euridice è anche la morte di Orfeo e della sua arte.
Orfeo non può non ritrovare Euridice, perché perderebbe se stesso. E difatti, nel voltarsi verso di lei, cioè nel non credere che davvero la morte sia vinta, nella mancanza di speranza e di fede nella promessa fattagli in nome della sua arte, perde Euridice. Cioè perde se stesso.
L’amore cristiano, da questo punto di vista, è salvifico. Vince la morte. Perché del corpo ne fa un nulla.

Nella favola di Giulietta però, come in quella di Tristano e Isotta, questa salvezza non c’è. Eros e thanatos si sono ormai saldati insieme nel tòpos, che tanta fortuna avrà in Occidente,  dell’amore-passione come amore-sofferenza.
Ricordo che, quando uscì il meraviglioso film Orfeo Negro, di Marcel Camus, dalla piéce teatrale di Vincius De Moraes, mio padre ne fu affascinato e commosso. Ne parlò a lungo. Nella versione di De Moraes, Orfeo ed Euridice muoiono entrambi, ed anzi è Orfeo che, per una terribile disattenzione, causa la morte di Euridice. In modo analogo alla favola classica.  Ma un bambino prende il posto di Orfeo che ogni mattina, con la sua musica magica faceva sorgere il sole e, pur esitante, inizia a suonare e il sole torna a sorgere. Mio padre si era commosso alla scena finale, quando i due bambini e la bambina cantano e danzano la samba, nell’esplosione della vita che continua. Della speranza che non muore.
Il finale del film ha un chiaro significato: l’amore, l’arte, la bellezza, non sono proprietà esclusiva di un solo uomo. Sono degli assoluti di cui gli uomini raccolgono il testimone, l’uno dopo l’altro. Se ne passano la consegna perché l’amore, come l’arte e la bellezza, non muore mai e vive indipendentemente dal fatto che vi sia chi lo accolga in sé o meno. Perché la sua origine è nella sfera del sacro.

La versione che Carlo Diano dà della favola di Romeo e Giulietta è, da tutti questi punti di vista, molto nuova.
Ciò che gli interessa è l’amore che li lega dopo la morte. Quello che accade tra i due amanti  in un mondo dei morti che è però l’Ade e non l’aldilà cristiano.
Non c’è nulla del mondo cristiano in questo luogo dove le anime vagano, in attesa di varcare il Lete,  già quasi dimentiche della vita appena abbandonata, sospese tra un mondo e un altro.
Giulietta cerca Romeo che, lontano e come immerso in uno stupore trasognato, pare non ricordare. A differenza di Giulietta. L’immobilità di Romeo, già preda di quella dimenticanza che gli Orfici vincevano, secondo le istruzioni date al defunto, non bevendo “alla fonte presso i cipressi”, ma a quella di Mnemosine, è la condizione che i defunti vivono nell’Ade. E quale potenza vince la morte? L’amore. È l’amore di Giulietta che lo riscuote, che lo riporta alla vita.
Che gli si abbatte addosso come un’onda. Come una scossa che inneschi nuovamente le funzioni vitali.  E non come frutto dell’istante. Ma per sempre.
La terra da cui Carlo Diano veniva, era stata uno dei centri più importanti dell’Orfismo e al mondo degli Orfici l’aveva iniziato il suo primo maestro del mondo antico, Carlo Felice Crispo, come lui vibonese, come lui perso nella visione abbacinante del loro passato ancestrale.
Dunque, questo scuotimento che travolge Romeo, e lo ridesta dalla dimenticanza, operato dalla potenza dell’amore di Giulietta, ha le radici in quel lontano mondo di iniziati.

Quando Carlo Diano scrisse questi versi, quel saggio sul significato dell’Alcesti, che avrebbe rivoluzionato il senso della favola narrata da Euripide, era ancora lontano. Eppure non posso non vedere già qui tutto quello che nell’Alcesti si sarebbe ai suoi occhi rivelato. Occhi di iniziato.
L’amore oltre la morte, l’amore come salvezza. L’amore come dono di vita e sacrificio di sé. Ma, come Diano spiega , il sacrificio di Alcesti che le assicura l’appellativo generalmente destinato agli eroi morti in battaglia, di àriste, rientra nelle regole di una società cavalleresca e aristocratica, quale descritta da Euripide, per quanto inusitato sia il conferirlo a una donna. La morte gloriosa ed eroica garantisce in questo modo l’onore della memoria.
Ma nell’Alcesti Diano vede ben altro. Vede un annuncio dell’amore del  Cristo. Che dà la propria vita non solo per tutta l’umanità, ma per ciascun individuo, perché la salvezza è sempre e solo individuale. È la storia di un’anima.
Alcesti non si sacrifica per Admeto, ma dà la sua vita in cambio di quella di Admeto. Per un gesto d’amore che non obbedisce a nessuna regola sociale o cavalleresca. Ma per puro e semplice amore. L’Alcesti di Euripide si conclude in apparenza in modo simile a quello della fiaba di Orfeo ed Euridice. Eracle, per ricompensare Admeto, che lo ha accolto come ospite nella sua casa e per delicatezza e rispetto gli ha tenuto celato il lutto, scende nell’Ade  e gli riporta Alcesti. O meglio, una donna velata, come velata era Euridice.
È Alcesti? Questo suggerirebbe il testo euripideo. Il corpo tornato in vita di Alcesti, come quello di Euridice, non ha ancora compiuto il passaggio tra il mondo dei morti e quello dei vivi, finché la convinzione che sia così non è totale. Orfeo non la possiede e perde Euridice, Admeto esita, poi cede alla speranza. Dunque, serve un ulteriore atto d’amore: il credere fermamente che l’amore compia il miracolo di riportare in vita l’amata. Un atto d’amore non limitato solo ad esplicarsi nei confronti dell’Altro, ma che superi i confini dell’Io, vi rinunci in parte, vincendo le resistenze dell’Ego che tutto trattiene e si protenda nell’Oltre. Un atto d’amore – e di speranza, quale virtù – che nell’istante stesso del suo porsi in atto, diviene amore universale e accresce, con la sua luce, la Luce, la Fonte, da cui la vita stessa proviene. Capace dunque di trasformare la morte in vita. In Vita.
La particolarissima e rivoluzionaria lettura che Diano dà dell’Alcesti, è dunque già presente in Giulietta. È Giulietta che, incapace di vivere senza Romeo, lo cerca nell’Ade e lo riporta alla vita. Lo travolge con l’onda di un amore immortale. Molti anni prima che venisse scritto Il senso dell’Alcesti.
Il concetto dell’amore che aveva Carlo Diano, e secondo il quale ha vissuto, era quello di una potenza capace di superare la morte, di una potenza capace, se necessario, di spingere a sacrificare la propria vita per quella dell’essere amato. A offrirgliela in dono. Perché questo era il dramma che aveva segnato tutta la sua vita.
Suo padre era morto quando lui aveva otto anni. Di una peritonite acuta. Ed era morto esattamente un anno dopo che sua moglie, la madre di mio padre, Caterina, aveva rischiato di morire per una febbre puerperale. Pare che, di fronte al letto di morte della moglie, mio nonno abbia pregato che la vita di mia nonna fosse risparmiata, offrendo in cambio la propria.
Questa tragedia, che lo aveva lasciato orfano bambino, ha segnato la vita di mio padre in modo incancellabile.
È dunque alla luce di questa esperienza fondante che la lettura che Carlo Diano ha dato dell’Alcesti, assolutamente nuova, si comprende in tutta la sua potenza.
“Ella (Alcesti) si sacrifica certo da donna che ha una tradizione ed è ‘prode’ ma lo fa per amore. ‘Non volli vivere divisa da te coi figli orfani’, dice al marito. E il giuramento che, contro ogni tradizione del costume greco, gli fa prestare davanti ai figli, impegnandolo a rimanerle fedele e a non sposare un’altra donna, non è se non la prova che ella lo ama e solo per amore gli ha fatto dono della vita.”
Dunque, quando Admeto tocca il fondo del dolore, capisce che “la scelta migliore l’ha fatta lei, perché per lui la vita senza Alcesti è peggiore della morte.”
È questa, dice Diano, la rivelazione che costituisce il culmine del dramma euripideo: la scoperta dell’amore,  che non è l’eros che i Greci conoscono e concepiscono per una donna.
“E’ qui che il sacrificio si rivela impossibile. Perché, se c’è l’amore, e la morte è la separazione per sempre dall’essere amato, o tutti e due devono morire, o nessuno dei due si può sacrificare per l’altro. ….
“E allora?
“Alcesti ha temuto di vivere, e Admeto non può sopravvivere. Allora non c’è che una soluzione, ed è che Alcesti risorga, e cioè che la morte non sia l’ultima linea delle cose, ma che nell’aldilà le anime si possano ritrovare  e ricompongano il nodo che le ha strette nella vita.
L’amore vuole la resurrezione.”
Il tragico equivoco che spinge Romeo a darsi la morte, perché la vita senza Giulietta è peggio della morte, e la terribile scelta di Giulietta, compiuta senza timore o esitazione, perché non potrebbe vivere senza Romeo e solo la morte può appunto ricomporre il nodo che li ha stretti in vita, si placa, nei versi di Carlo Diano, in una resurrezione che l’universo di Shakespeare non può contemplare, ma può avvenire grazie al miracolo dell’immortalità dell’amore. In un Aldilà che, deserto di angeli o dei, s’illumina dello sguardo di Giulietta, che cerca Romeo e lo accende della propria luce.

Come non vedere, in questi versi:

Venia Giulietta a lui, per sempre, e il volto
suo verginale rifiorìa una luce
candida opaca, quale nelle notti
dell’estate odorosa in fondo al cielo
sale da cupe azzurrità la luna;
quieto riflesso, ove non più s’infosca
ombra d’affanno, luminoso oblio
intorno al muto suo sguardo d’amore.

già tutta quella visione, chiara, limpida, già fatta immagine, che quasi venti anni dopo tornerà a schiudere a Carlo Diano “il senso dell’Alcesti”?

Francesca Diano

Carlo Diano Nota biografica.

Carlo Diano (1902 Vibo Valentia – 1974 Padova) è stato uno dei più brillanti e originali pensatori del ‘900 di fama mondiale. Grande grecista, filologo, filosofo, storico e traduttore dei classici greci (Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Epicuro, Eraclito, Epitteto), è stato anche poeta, compositore di musica, pittore e scultore. Uno di quei rari spiriti rinascimentali in cui la vastità del sapere si univa a un amore sconfinato per la conoscenza.
Allievo a Roma, dove si era laureato con una tesi su Leopardi, di Nicola Festa e Vittorio Rossi, conosce Giovanni Gentile, a cui lo legherà un affetto filiale profondo e ricambiato, tanto da commemorare pubblicamente il Maestro subito dopo il vile assassinio.
Fu lettore di italiano per molti anni nelle Università di Lund, Uppsala e Goeteborg in Svezia e a Copenhagen in Danimarca, dove imparò alla perfezione lo svedese e il danese, oltre a conoscere perfettamente il tedesco, il francese e l’inglese Nel 1950 fu chiamato dall’Università di Padova per ricoprire la cattedra di Letteratura Greca che era stata di Manara Valgimigli e dove rimase fino alla morte. A Padova fondò anche il Centro per la tradizione aristotelica nel Veneto.
I suoi interessi spaziavano dalle arti alle scienze matematiche e fisiche, dalla musica alla storia delle religioni, dall’antropologia alla sociologia. Le sue straordinarie conoscenze di filologia, storia,  filosofia e papirologia lo resero il maggior esperto dei testi di Epicuro ritrovati nella villa di Ercolano, di cui curò l’edizione e la traduzione.
Tra le numerosissime pubblicazioni, due soprattutto raccolgono gli aspetti più importanti del suo pensiero filosofico originale: Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte, in cui Diano analizza la cultura, il pensiero e l’arte dei Greci attraverso le due categorie della forma e dell’evento, che tuttavia si offrono anche come strumento di comprensione a tutto il pensiero umano.
Numerosissime le rappresentazioni teatrali delle sue traduzioni dei tragici greci.
Insignito di numerosissime onorificenze e premi, tra cui il Premio dei Lincei, ebbe profonde amicizie con Giorgio Pasquali, Sergio Bettini, Salvatore Quasimodo, Ugo Spirito, Giulio Carlo Argan, Carlo Bo, Bernard Berenson, Mircea Elide, Walter F. Otto, Silvio Ceccato, Gian Francesco Malipiero.

Copyright © by Francesca Diano
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Anita Nair – Un uomo migliore

Anita Nair Un uomo migliore traduzione di Francesca Diano. Editore Guanda 2011

E’ appena uscita, per i tipi di Guanda, una edizione del tutto nuova del primo romanzo di Anita Nair, Un uomo migliore, da me tradotto,  il romanzo che mi ha fatto scoprire e amare Anita. E’ stato il suo primo romanzo, precedente al bestseller internazionale Cuccette per Signora, ma che già contiene tutta la magia, l’eleganza, la profondità della sua scrittura, che ne hanno fatto una delle voci più amate e conosciute della narrativa indiana in lingua inglese.

La storia si svolge nel piccolo villaggio di Kaikurussi, un villaggio immaginario, nel Kerala, lo stato indiano in cui è nata Anita Nair e che un tempo faceva parte di una regione nota come Malabar.
Il Malabar è ormai scomparso, ma, come dice Anita, il Malabar è ancora uno stato dell’anima, un sentire, fatto di attaccamento al passato, di negazione del futuro, ma anche di scontento.
Kaikurussi è un villaggio in cui non c’è nulla, in mezzo al nulla, dove termina la strada, dove non è nato nessun personaggio di rilievo. Solo campi e colline.
La narrazione si apre con le parole di Bhasi il pittore, che parla in prima persona, come una sorta di voce fuori campo rispetto al resto della narrazione, in terza persona. Così come in prima persona Bhasi parlerà in tutto il romanzo. Come una sorta di coscienza.
Bhasi,  che alcuni nel villaggio in cui si è trasferito da qualche tempo, fuggendo da una vita di docente universitario, hanno soprannominato Bhasi lo Svitato, è l’imbianchino del villaggio.  Ma non è solo questo.
Bhasi restaura case, ma restaura anche anime e corpi sofferenti, usando un mix di cure di sua invenzione fatto di medicina omeopatica, di psicologia, di magia e fitoterapia. Tuttavia, in questa vita apparentemente semplice e serena che si è scelto,  sente che un compito grande lo attende, qualcosa che gli darà “un motivo per esistere”. Ne è in attesa. Ed ecco che il destino gli porta quel motivo: Mukundan.
Mukundan è un uomo ripiegato su se stesso, come i fazzoletti che ripiega con meticolosa precisione in otto parti, pieno di timori e incertezze, non ben certo di chi sia, soffocato da un vecchio padre terribile, che ha dominato tutta la sua vita e che ha frustrato ogni suo sogno. Mukundan torna in questo villaggio, da cui era fuggito per non tornare mai più, perchè nessun altro luogo ha al mondo dopo il suo pensionamento da una dignitosa carriera di funzionario governativo. Nessun altro rifugio.
E l’incontro tra questi due uomini così diversi, così necessari l’uno all’altro, è un incontro straordinario. La storia di una profonda guarigione e rinascita, di una guarigione spirituale attuata con metodi bizzarri e quasi magici, che passa anche attraverso un terribile tradimento. Quello di Mukundan che scopre tutto sommato, alla resa dei conti, di non essere un uomo migliore di suo padre.
L’immaginario villaggio di Kaikurussi, con i suoi incredibili personaggi, – indimenticabile la figura del vecchio padre terribile, un padre-padrone che ha un che di titanico – con le presenze del passato, con lo scontro tra la vecchia e la nuova India, col suo sottofondo di miti, di magia, di mistero, è in realtà tutto il mondo.
E la fine del romanzo, così incredibile, così sorprendente, scioglie quel nodo profondo che molti si portano dentro come un macigno.
Mukundan troverà la forza, la volontà di  diventare finalmente un uomo libero,  un uomo migliore di suo padre? Un uomo?
Il linguaggio è lieve quanto potente, evocativo quanto magico, ironico quanto drammatico, originale e limpido.
Mi sono trovata questo romanzo tra le mani poco più di 11 anni fa, quando Anita Nair era ancora da noi del tutto sconosciuta, non molto nota nel resto del mondo e poco più che una scrittrice esordiente, anche se aveva già pubblicato una raccolta di racconti, poi da me tradotta col titolo di Il satiro della sotterranea.  Ma, già dalle prime pagine, la scrittura mi parve di una forza e di una profondità straordinarie. La conoscenza dell’animo umano che questa giovane scrittrice indiana pareva possedere mi catturò e mi emozionò al punto che volli con tutta me stessa che venisse pubblicato e decisi che l’avrei tradotto io.
E’ stato il romanzo che ha segnato l’esordio italiano di Anita Nair, quello a cui sono più legata, grazie al quale è inziato un rapporto di stima e ammirazione, di grande affetto, di profonda intesa con Anita Nair.
Tradurlo è stato, come poi è avvenuto per tutte le sue opere, una gioia dalla prima parola all’ultima e mi è parso così facile, così naturale  trovare immediatamente lo stile italiano che rendesse  la sua scrittura e la sua voce.
Tutti i romanzi di Anita Nair hanno, nella struttura e nel linguaggio, nei personaggi e nello stile, un’originalità che rende la sua scrittura unica, ma questo è quello che amo di più e che mi è più caro. Perché mi ci sono ritrovata, perchè esplora profondità insondabili dell’animo umano, temi che sono alla radice della psiche, perché esplora, con un linguaggio liquido, ironico spesso, e molto limpido, le ombre che ogni uomo nasconde e teme.
E infine, perché l’avere, grazie ad esso, “scoperto” Anita Nair, me lo rende particolarmente caro, così come mi è cara Anita.
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Vidiadhar S. Naipaul a Mantova

Finalmente qualcuno ha messo a tacere la supponenza e l’ignoranza dei giornalisti, o sedicenti tali, che vanno in giro per i festival letterari a porre stupide domande agli scrittori. Di chi, solo perché viene affiancato a grandi autori, si sente in diritto di fare il bello e il cattivo tempo.

Forse la giornalista che pensava di mettersi in mostra facendo domande sciocche a V.S. Naipaul,  credeva di trovarsi di fronte a uno dei tanti venduti damerini e damerine della “letteratura” di casa nostra. Gente che non ha nulla da dire e che quel nulla lo dice oltretutto male. Disposti a tutto per un istante di cronaca.

Le domande, tutte volte a fargli esprimere forzatamente dei giudizi politici sull’Islam, sul terrorismo ecc. non hanno in alcun modo tenuto conto del fatto che Naipaul si è esposto in passato con coraggio su questi temi, ma poi, dati i rischi che ha capito di correre, ha deciso di tacerne. E il suo silenzio sull’argomento è, mi pare chiarissimo, molto più pesante ed esplicito di qualunque esternazione.

Ma questo non ha fermato la giornalista, nessun rispetto per la scelta di Naipaul. Si doveva per forza ottenere lo scoop. Lei ne sarebbe uscita come quella che l’aveva fatto sbottonare. Che brava!

Ma, nel caso di Naipaul, è caduta male. L’aristocratico scrittore non tollera la stupidità e l’ha dimostrato in infinite occasioni. Nonostante abbia sottolineato di essere uno scrittore e NON un politico, le domande non sono cambiate.

Dopo l’intervemto della moglie, la giornalista, con aria di condiscendenza e col tono di chi stia parlando a un cretino,  si è decisa a fargli una domanda da scrittore. “Ci parli della sua scrittura”… Come no?  Ma perché avrebbe dovuto rispondere a quel punto a una persona che, pochi istanti prima, aveva definito lui stesso “di vedute ristrette”? Naipaul stupido non è e ha ben capito l’atteggiamento con cui la domanda sulla sua scrittura gli veniva posta. Cioé senza rispetto e senza alcun interesse per la sua scrittura. Tanto per non perdere la faccia.

Dunque ha fatto non bene, ma  benissimo ad andarsene. Deve aver capito il livello della kermesse letteraria in cui si trovava. Il pubblico doveva prendersela con il poco tatto, con la grossezza dell’intervistatrice.

Anni fa mi capitò di essere inviata al festival di Mantova per conto di un quotidiano. Cosa ho visto? Ad una colazione con Joseph O’Connor, i giornalisti delle maggiori testate nazionali, incapaci di biascicare una sola parola di inglese o di capirlo,  pretendevano di fargli interviste e finì che  lo intervistai io, che comunque lo facevo per me,  traducendo in simultanea le risposte dello scrittore irlandese, che gli altri a quel punto annotavano alacremente.

In un incontro con Vikram Chandra, l’acclamato scrittore sardo di successo che lo affiancava nell’incontro e che avrebbe dovuto discutere con lui dei due bellissimi romanzi che Chandra aveva all’attivo, dimostrò di non aver letto una sola pagina di Chandra, ma soprattutto di non avere la più pallida idea della letteratura e cultura indiane, di non sapere di cosa si stesse parlando, con un effetto grottesco. Chandra, disgustato, lo guardava allibito.

Negli articoli che scrissi per il quotidiano riportai tutto questo, ma chissà perché non vennero pubblicati…

Tutto questo è l’ennesima prova  dell’approssimazione all’italiana, delle pessime figure che facciamo non solo in politica. C’è questa bizzarra idea che l’arroganza e l’ignoranza che da noi sono un biglietto da visita per la scalata al successo siano cose normali anche nel resto del mondo. Che ciò che accade in Italia in politica, economia, cultura, nel sociale, nel privato, sia il modo in cui va il mondo altrove.  Anche perché è questo che ci raccontano.

Non è vero! Siamo il terzo mondo d’Europa. In tutti i sensi.

Ma, quando poi le reazioni sono quelle dovute, se ne addossa la colpa non alla propria grossolanità e ignoranza, ma alla persona che ha reagito con sdegno o dignità a questo triste andazzo.

Difatti i quotidiani e le TV riportano la notizia della giusta reazione di Naipaul come l’ennesima prova del cattivo carattere del premio Nobel.

Non sarebbe ora di fare un po’ di sana autocritica?

Tradurre, un’appassionante arte. Intervista a Francesca Diano

Tradurre: un’appassionante arteIntervista a Francesca Diano per Librialice. di Valentina Acava Mmaka Ha una voce profonda e avvolgente che trasmette entusiasmo, ha il privilegio di conoscere tutti i retroscena di molti dei romanzi che nell’ultimo decennio abbiamo imparato ad apprezzare. Francesca Diano, studiosa di letteratura e tradizioni irlandesi e traduttrice di autori come Anita Nair, Themina Durrani, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Thomas Croker ci ha raccontato l’appassionante esperienza di essere traduttore.
È noto che in Italia il traduttore è una figura professionale che resta quasi sempre sullo sfondo. Raramente, salvo casi eccellenti, il suo nome appare in copertina, o viene citato dai recensori e giornalisti, eppure il traduttore ha un compito delicato e di grande responsabilità. Nella sua trasposizione da una lingua all’altra, può succedere, come ci racconta la Diano ”che una cattiva traduzione può uccidere una grande opera, così come una meravigliosa traduzione può rendere bella un’opera dallo stile zoppicante”.


Francesca, tu sei traduttrice dall’inglese, come è nata questa tua professione?
 

 

Come molte delle cose che accadono nella vita e hanno un seguito che non ti aspetti, sono diventata traduttrice “per caso”.
Io mi sono laureata in Storia dell’Arte. L’arte è sempre stata una mia grande passione, tanto che avrei voluto essere una pittrice. Il linguaggio delle immagini ha sempre avuto su di me un fascino molto profondo. Ma insieme all’arte, l’altra forma d’espressione che per me è stata determinante è quella della parola, scritta e parlata.
Per anni ho unito le due cose, occupandomi di critica d’arte e, nell’ambito di questi studi, è nata la mia prima traduzione; una corposa opera in tedesco sulla grammatica dell’arte, del padre della moderna critica d’arte, Alois Riegl.
Devo anche dire che sono figlia di un grande traduttore, che non era solo traduttore. Mio padre, Carlo Diano, filosofo, filologo e grande grecista, ha lasciato straordinarie traduzioni dei classici greci, ma anche di autori scandinavi. In questo senso posso dire di aver respirato l’arte del tradurre. Perché tradurre è un’arte.
Poi la mia lingua privilegiata è diventata l’inglese, soprattutto grazie agli anni da me passati a Londra, dove ho lavorato al Courtauld Institute e ho insegnato all’Istituto Italiano di Cultura. È stato proprio a Londra che il libro che ha cambiato la mia vita “mi ha trovata”.


Ci parli della tua formazione?

Della mia formazione ho in parte parlato. Ma devo aggiungere che non ho avuto una formazione molto lineare, perché una buona parte è nata dalla passione divorante per la lettura. Una lettura eclettica e forse anche caotica di libri d’ogni epoca, autore, argomento e stile, iniziata fin da bambina, attinti “a naso” dalla biblioteca di casa, che contava circa diecimila volumi, in cui figuravano tutte le letterature del mondo e argomenti d’ogni tipo. La biblioteca di un umanista con interessi scientifici.
Prima di diventare una fedele traduttrice di Neri Pozza, rapporto durato circa 10 anni, avevo collaborato con Fabbri e  la Cappelli, per cui avevo curato  la traduzione del testo dal tedesco di cui ho detto e con Corbo e Fiore una prima versione delle Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland, di Thomas Crofton Croker. A metà degli anni ’90, Neri Pozza cercava un esperto di arte, per tradurre un testo di commento alle tecniche artistiche di Giorgio Vasari e così si sono messi in contatto con me. Da allora ho seguitato a collaborare con loro, in modo sempre più attivo, sia come consulente editoriale che come traduttrice, ma ho poi interrotto il mio rapporto di collaborazione con Neri Pozza qualche anno fa per motivi su cui preferisco sorvolare.
Mi piace anche avere la possibilità di proporre degli autori e delle opere in cui credo, con la soddisfazione poi di vederli diventare dei successi editoriali. Così è avvenuto per Anita Nair, per Sudhir Kakar, per Thomas Crofton Croker, per Alka Saraogi, o Tehmina Durrani.


Come riesci a conciliare il tuo lavoro di traduttrice con quello di insegnante di storia e letteratura in un liceo artistico? Quest’ultima esperienza ti aiuta nella tua professione di traduttrice?

Anche se le due attività non sono tra loro correlate, in realtà tradurre e insegnare sono esattamente la stessa cosa. Si tratta sempre di un “tradere”, trasmettere, trasporre, tramandare. Per me, che sono così legata allo studio della tradizione, è un atteggiamento che fa parte della mia natura. La parola, scritta e parlata, come dicevo. Insegnare è uno dei compiti più nobili e più alti. Ma solo se lo si intende nel senso di educare, nel suo significato etimologico. Trarre fuori. Come la maieutica di Socrate o i suggerimenti di Krishnamurti per l’educazione dei giovani. Io credo che ciò che è necessario, a parte la trasmissione di conoscenze di base, sia proprio aiutare i giovani a liberare il proprio sé dalle incrostazioni che la società, la famiglia, la scuola rovesciano loro addosso. In questo modo, dall’esterno si depositano sulla psiche individuale tutta una serie di sovrastrutture inutili e spesso dannose, di preconcetti e credenze, che impediscono all’indole originaria di manifestarsi con le sue qualità e i suoi talenti. Questo non è trasmettere, ma tradire. Educare significa mettere in grado un’anima di conoscere se stessa. Renderla libera.
Alcuni anni fa ho organizzato un convegno a Padova dedicato a: “Mito, fiaba, leggenda, tradizione. “Tradire” il passato per salvare il futuro”, che partiva proprio da questo punto di vista.


Sei la voce italiana di Anita Nair, Susan Vreeland (La passione di Artemisia), Kushwant Singh (La compagnia delle donne) Geraldine Brooks (Annus Mirabilis). Che rapporto hai con gli autori che traduci? Secondo te è importante stabilire un contatto personale o c’è meno “libertà” rispetto al tradurre un autore defunto?

Il rapporto con gli autori è molto vario. In alcuni casi, come con Anita Nair, questo rapporto, iniziato timidamente per e-mail, è sfociato in un’amicizia profonda, emozionante, direi sororale. Lei è stata anche mia ospite alcune volte. Al punto che Anita mi ha fatto l’onore di dedicarmi la raccolta di racconti appena pubblicata, “Il satiro della sotterranea”. Questo direi è stato per me il più grande riconoscimento per il mio lavoro. Ci sono autori che si rendono conto benissimo di come una traduzione possa determinare il successo della loro opera o azzerarlo. Diciamo che i grandi scrittori lo sanno e hanno dunque con il loro traduttore un rapporto quasi “intimo”, di confessionale.
È una cosa bellissima allora, perché si entra nel processo creativo di un’opera e nei meccanismi che l’hanno fatta nascere. In altri casi – ma sono rari per fortuna – ci si limita a chiedere alcuni chiarimenti, quando sia necessario, perché non sempre l’autore colloquia col suo traduttore comprendendo che una buona traduzione può decretare il suo successo all’estero e risponde seccamente. L’idea in questo caso è che un traduttore sia una sorta di manovale meccanico o uno scrittore frustrato. Per fortuna non è così.
Non direi che ci sia meno libertà rispetto a un autore defunto, anzi. La presenza dell’autore può sciogliere molti dubbi. E poi, perché libertà? Il traduttore deve comunque rispettare al massimo la fedeltà al testo. Questa è la prima regola. Poi vorrei aggiungere una cosa. Per tradurre veramente bene un autore, si dovrebbe conoscere tutta l’opera di quell’autore. E in fondo tradurre è un po’ come disegnare dal vero. Un oggetto lo si conosce davvero bene solo quando lo si disegna. Così un’opera la si conosce davvero bene solo quando la si traduce, perché se ne devono smontare i meccanismi, per poi ricostruirli e renderli in un’altra lingua.


Quali sono le traduzioni a cui sei maggiormente legata?

Prima di tutto i “Racconti di fate e tradizioni irlandesi” di Thomas C.Croker poi tutti i libri di Anita Nair e di Sudhir Kakar. Nel primo caso perché questo è il libro che ha cambiato la mia vita. Mi ha aperto le porte della grande tradizione orale irlandese e del mondo dei miti celtici, ma mi ha fatto anche trovare una patria spirituale, un mondo antico e ricco. Ho sempre amato le fiabe e il mito e il raccontare e in Irlanda, dove ho vissuto poi un anno, ho trovato più di quanto avessi mai immaginato.
Per la Nair e Kakar, perché sono due grandissimi scrittori, molto diversi tra loro per sensibilità e formazione, ma entrambi capaci di rendere un mondo, un’atmosfera, una serie di personaggi, dando loro la vita. Ma a questo va anche aggiunto che il loro stile è fantastico e tradurli è la mia più grande gioia. Forse, le due migliori traduzioni che io abbia mai fatto sono proprio Un uomo migliore della Nair e L’ascesi del desiderio di Kakar. Un libro di una bellezza incredibile.


Ci sono degli autori che non hai tradotto ancora e che vorresti a tradurre? E perché?

Direi che mi piacerebbe tradurre Hermann Melville e Charles Dickens. Perché sono due scrittori che amo moltissimo e vorrei saper scrivere come loro. Ma soprattutto perché nelle loro pagine si avverte il respiro potente del Male e del Bene. L’eterna lotta dualistica che percorre tutta la storia umana. È un soggetto che mi affascina e questi due scrittori, in particolare, oltre ad affrontare un problema titanico, nel caso di Melville addirittura messianico, posseggono uno stile poderoso, michelangiolesco.
Nello stile mi piace la forza, la potenza di uno scrittore, la capacità di vedere la realtà da punti di vista inusuali. Poi, tra i poeti, mi piacerebbe tradurre Percy Bysshe Shelley, perché raggiunge le vette del sublime. Ma anche Friedrich Hölderlin e per lo stesso motivo.


A chi volesse intraprendere questa professione cosa consiglieresti. È necessaria una scuola specifica?

Per essere un buon traduttore, la cosa più ovvia è conoscere alla perfezione tanto la propria lingua che quella da cui si traduce. E ripeto: alla perfezione. Il che implica la cultura, le tradizioni, le usanze. Poi naturalmente, non sempre si conosce nello specifico un certo argomento e qui interviene la ricerca. Spesso questa è anche una parte appassionante, perché si scopre e si impara ciò che non si conosce. Io ho imparato così moltissime cose. Dunque ben vengano le scuole serie di traduzione, ma non sono sufficienti, perché poi è necessaria l’esperienza sul campo. Un buon traduttore di opere letterarie difficilmente è giovane a mio avviso. Non ultimo, un buon traduttore di letteratura o di poesia deve essere anche uno scrittore e un poeta. Chi volesse iniziare questa professione deve sapere che un duro lavoro lo attende. In questo senso, non è una scuola che può insegnare un talento. Perché di talento si tratta. Se poi parliamo di traduzioni d’altro tipo, certo il discorso è un po’ diverso.


Sulla professione del traduttore c’è molta “letteratura”, viene visto come un mestiere poco riconosciuto in Italia. Ti identifichi in questa problematica e cosa secondo te riuscirebbe a migliorare la visibilità del traduttore?

Che sia un mestiere poco riconosciuto in Italia è noto. È rarissimo che nelle recensioni compaia il nome del traduttore, a meno che l’opera non sia un grande classico o il traduttore un nome altisonante. Va però detto che vi sono delle eccezioni. Il quotidiano La Stampa ad esempio, che nel suo inserto del sabato, Tuttolibri, cita sempre il traduttore. Ma c’è da dire che anche dal punto di vista economico l’opera di un traduttore, che comporta molte competenze specifiche, non è particolarmente riconosciuta, tranne in rarissimi casi. Eppure una cattiva traduzione può uccidere una grande opera, così come una meravigliosa traduzione può rendere bella un’opera dallo stile zoppicante. Alla fine però, tutto dipende dal mestiere e dalla capacità di ciascuno. Esistono delle associazioni a livello nazionale, ma da quello che ho potuto vedere, in molti casi tutto si riduce a organizzare corsi costosissimi per giovani in cerca di uno sbocco. Immagino che si potrebbe istituire un albo e fissare delle retribuzioni minime standard, come per altre libere professioni.


Spesso il lettore che legge in traduzione non fa caso al nome del traduttore, credi che si percepisca pur non avendo letto lo stesso testo in lingua originale, la buona fattura di una traduzione? O questo è un privilegio riservato ai grandi lettori o scrittori?

È vero, e aggiungo che spesso non fa caso nemmeno alla traduzione. E questo è un peccato. Ma va detto che la traduzione ideale è quella in cui non si avverte che di traduzione si tratta. Chi legge deve avere il senso di leggere l’originale. Il che significa anche riproporre lo stile dell’autore, il suo ritmo narrativo, ove sia possibile le sfumature. In Italia abbiamo dei meravigliosi traduttori. Poi, per lo meno a me, può accadere di non riuscire più a leggere un libro tradotto, senza porre attenzione alla traduzione. Una vera a propria deformazione! Ma mi sforzo di disintossicarmi….


C’è chi sostiene che tradurre significa in qualche modo “riscrivere” un’opera, quanto conta la conoscenza del substrato culturale dell’autore per il successo di una traduzione?

Non sono d’accordo, tradurre non è riscrivere l’opera. Questo è tradire. Tradurre è trasporre. Da una lingua a un’altra e in questo senso può essere necessario trovare nella propria lingua sfumature o espressioni che meglio rendano il senso, magari non letterali, del testo. Ripeto che la traduzione ideale deve essere assolutamente fedele all’originale, ma allo stesso tempo dare l’idea di un originale nella nostra lingua. Ecco perché chi traduce narrativa o poesia deve essere anche uno scrittore o un poeta.
Per quanto riguarda la conoscenza del sostrato culturale, direi che è essenziale. Altrimenti non sai nemmeno di cosa si sta parlando e gli equivoci possono essere terribili o addirittura ridicoli. Faccio un esempio molto efficace, anche se non rientra nell’ambito di quanto stiamo dicendo. Tempo fa è arrivato in Italia un delizioso film irlandese, che in originale si intitolava Ned’s Wake, cioè la veglia funebre di Ned. E difatti tutto il film ruotava attorno a questo. In Irlanda la veglia funebre ha tutta una tradizione antichissima e densa di suggestioni. Anche oggetto di studi. Ebbene, il titolo è stato tradotto: Svegliati Ned! E non perché il titolo suonava bene, perché non ha alcun senso nella storia, ma per pura ignoranza. Forse il traduttore non aveva visto il film!
Nello specifico della letteratura anglo-indiana, fra cui ormai si annoverano molti dei miei autori, a parte una conoscenza di base della cultura indiana, ho la fortuna di avere una delle mie figlie, Marged, che è studiosa di hindi e di musica indiana e lei è stata ed è per me molto preziosa in questo senso, mentre l’altra mia figlia Eurwen, che è un’esperta botanica, mi soccorre in questo campo.


Tu sei anche una studiosa di fate e leggende irlandesi, come nasce questo interesse e come mai è un argomento poco conosciuto in Italia?

Il mio interesse per l’Irlanda, o meglio sarebbe dire, la mia storia d’amore con L’Irlanda, nasce a Londra. Ho vissuto in Inghilterra per alcuni anni negli anni ’70 e lì ho trovato questo libro antico e preziosissimo di leggende irlandesi. Dalla mia curiosità per la storia del libro, stranamente anonimo, e in seguito per il suo autore, Thomas C.Croker, sono nati i miei studi sul folklore e le tradizioni irlandesi. Croker è stato il pioniere, direi lo scopritore delle tradizioni folkloriche irlandesi e l’opera da me scoperta e tradotta, fu tradotta in tedesco dai fratelli Grimm, che divennero suoi amici.
Nel 1998 ho insegnato all’università di Cork per un anno e ho approfondito lì i miei studi. La meravigliosa storia di questo libro e di ciò che ha significato per me la racconto nel saggio che compare sia nell’edizione italiana che in quelle anastatiche americana e irlandese da me curate.
Per me l’Irlanda è diventata una patria spirituale. È una terra straordinaria, magica, di dolcezza struggente, ma anche forte e potente. Le tradizioni folkloriche sono molto ricche e radicate ancora oggi e gli irlandesi posseggono il più vasto archivio d’Europa in questo senso, avendo raccolto in modo sistematico, fin dall’indipendenza del paese, una quantità impressionante di materiale sul campo. Qui da noi si conosce solo un’infinitesima parte di questo tesoro prezioso e in genere mediata dalle mode. È un peccato. Io spero di poter tradurre alcune opere di grande bellezza, che sono certa affascinerebbero il pubblico italiano, come è stato per l’opera di Croker.


A cosa stai lavorando?
 
 

 

 

Al momento sto traducendo l’ultimo romanzo di Sudhir Kakar, che parla della straordinaria amicizia fra il Mahatma Gandhi e Madeline Slade, un’inglese che gli fu accanto per molti anni. Inoltre sto pazientemente portando avanti la traduzione delle poesie di Edgar Allan Poe e questa per me è una grande sfida, perché tradurre le poesie di Poe è pressoché impossibile!
Sto anche portando a termine una mia raccolta di racconti, a cui lavoro da tempo e un romanzo. Da sempre scrivo poesie.

Nota bio-bibliografica

Francesca Diano è nata a Roma e a da bambina si è trasferita a Padova. Si è laureata in Storia dell’Arte con Sergio Bettini e poi ha vissuto alcuni anni a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Institute e ha insegnato all’Istituto Italiano di Cultura, compiendo allo stesso tempo delle ricerche sulle miniature medievali italiane nei musei inglesi.
Tornata in Italia, negli anni ’80 ha iniziato a occuparsi di mostre, convegni e ha fatto parte di alcune associazioni culturali, organizzando concerti e manifestazioni, in collaborazione con istituzioni pubbliche e private. Ha collaborato con quotidiani e riviste culturali e scientifiche, scrivendo numerosi articoli e conducendo un’intensa attività di conferenziera. In questo stesso periodo ha iniziato a interessarsi di folklore irlandese e miti celtici, approfondendo poi le ricerche in Irlanda.
Nel 1998 ha insegnato per un anno all’University College di Cork, in Irlanda, dove ha tenuto anche alcuni corsi sull’arte italiana contemporanea e ha commemorato ufficialmente Thomas C. Croker nel bicentenario della nascita.
Dal 1996 ha collaborato per quasi 10 anni con la Neri Pozza come traduttrice e consulente editoriale, contribuendo attivamente a iniziare la serie di autori indiani che poi tanta fortuna ha avuto, una collaborazione che si è poi interrotta senza tanti rimpianti. Nel 2009 ha iniziato a collaborare con Guanda.

E’ scrittrice, poetessa e saggista.

Di Valentina Acava Mmaka

 


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