La quiete durante la tempesta

Leopold Schulz : Tempesta sul lago Tiberiade (1831) - Olio ...

Leopold Schulz, 1831. Tempesta sul lago di Tiberiade.

 

 Di tutte le immagini che ci sono venute o che ci sono state scaricate addosso in questi mesi – dolorose, spaventose, terrorizzanti, ipocrite, struggenti, crudeli, grottesche – di tutte, più di qualunque altra, perché così paradigmatica, mi è rimasta incisa negli occhi e nella mente quella di Papa Francesco, il 27 marzo. L’immensa piazza San Pietro vuota, al crepuscolo, sotto un cielo plumbeo, con la pioggia che rendeva lucenti selciato, colonne, marmi. Davanti alla facciata del Maderno, sul sagrato, era stato installato un baldacchino al centro del quale erano collocati una grande poltrona rossa e oro e un microfono. Sulla sinistra, un leggio con il Vangelo e un altro microfono. A un tratto, dal centro della piazza, si vede arrivare il Papa accompagnato da un sacerdote. Francesco appare stanco, invecchiato, cammina zoppicando, curvo sotto la pioggia. Con fatica sale i gradini che lo separano dallo scranno. Tutto è vuoto e assordante silenzio.

  L’evento è eccezionale, come tutto quello che sta succedendo da tempo. La sua portata è storica. Solo in secoli lontani la Chiesa invocava solennemente l’intervento divino per far cessare le terribili epidemie che uccidevano milioni e per cui non v’era cura. Ma in passato si tenevano processioni, preghiere collettive, raduni di fedeli. Oggi tutto avviene nel vuoto circoscritto dal perimetro del colonnato del Bernini, nell’assenza resa ancora più pregnante dalla piccola figura di un uomo vecchio, stanco e traballante. Il Papa pregherà per la fine della pandemia.

Il sacerdote legge un passo del Vangelo di Marco, quello dell’episodio della tempesta (Mc. 4, 35). “Venuta la sera”, così inizia. E poi, Gesù, sereno mentre la barca è sballottata dalle onde e i discepoli temono per la propria vita: “Perché avete paura? Non avete ancora voi fede?”

  Mi colpisce, durante la lunga omelia, che pure in sé sarebbe significativa e toccante se non fosse per il tono con cui viene letta, l’espressione smarrita di Francesco. La voce è flebile, non ha forza, oserei dire che non ha convinzione. Oserei persino dire che il suo aspetto è quello di un uomo vinto. Le sue parole cadono a terra e si confondono con le gocce di pioggia. Nel grigiore.

Il passo testamentario era ed è quanto mai appropriato e adeguato. Ma dov’era la potenza della fede che Gesù invocava, serenamente disteso nel fragile e spoglio guscio di una barchetta? Serenamente, ma con la serenità del forte. Dov’era la sicurezza che il suo Vicario dovrebbe trasmettere e che invece cozzava in tutta la sua tremante fragilità contro le immagini statiche dell’inutile grandiosità degli edifici, contro lo splendore dell’arte, la pompa e il potere mondano che i Papi del passato hanno voluto a dimostrazione del potere della Chiesa? Tutto è dissolto.

La Chiesa non si è nemmeno provata a protestare contro il divieto imposto ai fedeli di seguire una messa, di avere il conforto dello spirito, non meno importante, per coloro che credono, della salute del corpo, ha taciuto sull’orrore barbarico di funerali negati, di salme sottratte alle famiglie senza poter dare loro un ultimo saluto e fatte sparire nella cremazione. Ha taciuto quando un poliziotto ha fatto irruzione armato in una chiesa interrompendo la messa celebrata da un sacerdote – quello sì coraggioso – pur nel totale rispetto delle misure di  sicurezza. Il Papa ha taciuto. La Chiesa ha taciuto. Da sola si è imbavagliata. Ha seguito le regole. Una Chiesa che si è autofondata sulle parole e sugli atti di uno dei maggiori rivoluzionari della storia.

Voglio precisare che, per quanto mi riguarda, la Chiesa non è altro che una struttura di potere rafforzato nei secoli; non mi piace, è ben lontana dalla rivoluzione che il Cristo aveva segnato, non affido il mio sentimento della trascendenza, il mio senso del Sacro, che pure sono profondi, a un’istituzione che ha perpetrato orrori e si è macchiata di terribili crimini nel corso della sua storia. Ma è un simbolo. Lo è comunque. E se riduci un simbolo a vuota forma, ne cancelli ogni significato e non senza danni collaterali.

  Ecco, quell’immagine di Piazza San Pietro incredibilmente, e certo inconsapevolmente, simbolica, mi ha colpita in modo profondo perché è il compendio di tutto ciò che stiamo vivendo, e dell’epoca in cui stiamo vivendo. A che si ricordi, mai nella sua storia, l’uomo si è trovato globalmente privato all’improvviso di tutti i propri diritti, della propria dignità, degli affetti, della socialità in nome del profitto e del potere assoluto di pochi. Le maschere – quelle vere – sono cadute e dietro non c’è che il vuoto.

  Penso alla splendida poesia del grande poeta irlandese James Harpur, Mito modificato in cui si narra di come San Patrizio scacciò i serpenti dall’Irlanda:

La serpe stava immobile, l’essenza

Di generazioni di serpi compressa

In ciascun atomo di nervi e muscoli;

Le verdi spire oleose scintillanti

Con l’asciuttezza del colore a smalto.

Il santo sereno, sangue caldo

Si piegò e versò gocce d’acqua santa

Finché come forcuto spasmo di saetta

La serpe, crocefissa, sputò e risputò fuori

Il vangelo con sibili e veleno,

Vibrando come un fioretto la lingua cieca,

Distaccata la testa dalla coda

Dal peso abnorme di solida carne.

Uscendo dalla pelle, iniziò a tremare,

E poi sfrecciò attraverso le felci

Che crepitarono come pioggia su un’inferriata viva.

Ovunque andasse i serpenti svanivano:

Lui scagliava una croce,

Loro guizzavano in tane di volpe.

Lui schioccava le dita,

Loro sgusciavano fra le crepe di lapidi.

Diceva “Abracadabra”

E loro si scioglievano diventando miraggi.

Ma mentre il santo gettava via i sandali

Le serpi si fecero strada a morsi sottoterra,

E s’incontrarono, e serpe mangiò serpe

Finché un solo serpente, pregno dei propri succhi,

Il dorso incrostato dei colli dell’Irlanda

Ristette immobile.

Ed ora sta in attesa,

S’ingrossa sotto l’esile pelle del Nuovo Testamento,

Attendendo che i santi su San Pietro

Crollino uno ad uno,

Come tante oche ritte in fila al tirassegno.

È bastato un virus, un’entità biologica parassitaria, di cui del resto ancora oggi si sa ben poco – per quanto se ne dica – a far emergere la verità, a sollevare il velo sull’inconsistenza della società che l’Occidente ha costruito e che non ha più anima. Dunque facilmente manipolabile. Una società che somiglia, da molti punti di vista, a un virus. Da alcuni secoli, persa la sua anima, si sta nutrendo ed è cresciuta predando risorse ed esseri umani, approvvigionandosene in terre più ricche in nome del profitto. Per giustificare questa attività predatoria ha creato il mito dell’inferiorità delle creature di cui si è nutrita. Ha violentato la natura, ha dimenticato che l’uomo è parte della natura, senza la quale non esisterebbe. L’immensa hybris con cui ha compiuto tutto questo, ha ridotto l’Occidente e i paesi occidentalizzati a un mero ammasso di mercanti, di merci e di consumatori. Merce essi stessi.

Il mito dello sviluppo economico e tecnologico senza limiti si è sgretolato. Ma come sa bene chiunque si interessi di simboli, spesso se ne mantiene la forma, il guscio, per svuotarlo e sostituirlo con un nuovo significato e farlo accettare in modo apparentemente indolore e fluido. Se la religione in Occidente ha perso il suo vigore, oggi vediamo la scienza e la tecnologia assurte a rango di religione, con i loro sacerdoti, con i loro luoghi di culto, con i loro dogmi, mettendo in discussione i quali si diventa eretici di fronte ai nuovi tribunali di una nuova inquisizione. Proprio questa violenta tacitazione di ogni dissenso rende sospetto il potere cieco e assoluto che la cosiddetta scienza vorrebbe imporre. Quella che oggi viene spacciata per Scienza, ma che della vera scienza, figlia del dubbio e del costante superamento dei risultati raggiunti, che si nutre di ipotesi e di incertezze, di confronti e collaborazione, ha ormai ben poco, essendo stata trasformata in un blocco granitico di assoluti che si spaccia per Verità, scienza non è.

Dimentico del passato, cieco al presente, proiettato verso un futuro virtuale in cui il mostruoso potere economico di pochi assicurerà loro il dominio del globo sulla pelle dei molti che lo alimenteranno passivamente, l’Occidente e i paesi occidentalizzati hanno resecato ogni contatto con la propria cultura e la propria spiritualità. Ma anche con la realtà.

“Se perdi la tua cultura e le tue tradizioni, perdi la tua anima”, ha detto una donna indiana. È la grande illusione. Condannati a vivere nel presente di un’illusoria immobilità della storia, in cui eravamo convinti che tutto potesse rimanere sempre come lo conosciamo, la storia ci si è rovesciata addosso. Soprusi, epidemie, ingiustizie, sfruttamento, ribellioni, annullamento dei diritti umani, oppressione, li abbiamo creduti – ce li hanno fatti credere – lontani da noi, se non nel tempo, certo nello spazio. Non ci riguardavano. Ammaliati da un benessere reale per pochi, ma precario per i molti, ci siamo cullati nell’idea che tutto questo fosse uno stato immutabile delle cose, che oltre 70 anni di pace e crescita economica in Occidente potessero costituire un traguardo da mantenere ad libitum.

Non era così. Quel serpente sotterraneo, nascosto, pregno dei propri succhi di cui parla Harpur, era rimasto in attesa e ora mostra il suo muso sinistro e appuntito.

Persino al passaggio della morte è stata negata la sacralità del rito e degli affetti. Corpi sottratti, ancora vivi, ai parenti, una volta morti, portati di notte a cremare senza che i familiari potessero congedarsene con amore. Ci siamo dimenticati di Antigone, che obbedì alla legge della pietà e non del potere.

Ed è questo quello di cui parlo: la dimenticanza. In nome di una minaccia globale, di un’epidemia, o pandemia come vogliono, anche quell’esile legame che l’Occidente manteneva con le proprie radici culturali, spirituali, etiche, con il proprio passato, che lo teneva saldo in sé stesso, si è dissolto. Tutto s’è sgretolato.

Dalla finestra che si apre sul giardino, vedo una luna quasi piena e orgogliosa del proprio scintillìo. Illumina gli alberi e i tetti silenziosi delle case. Ricordo che, quando ero piccola, mia madre mi aveva insegnato un rito gentile – uno dei rarissimi bei ricordi che mi vengono da lei – che aveva appreso a sua volta dalle contadine delle montagne abruzzesi quando era bambina: l’inchino alla luna. Tenendo in mano una monetina, alla luce della luna piena, si esprime un desiderio e si fanno tre inchini all’astro scintillante. Ora ho scoperto che questo antichissimo rito di adorazione dell’astro ritorna quasi identico anche in molte altre tradizioni folkloriche. È un legame che amo conservare con le mie ave sconosciute.

In questi mesi di arresti domiciliari, il passato torna a farsi sentire con molta forza. Amo il passato, il lontano passato e ho sempre cercato, nella mia vita, radici lontane di chi io sia, non solo e non tanto come persona, ma come essere umano. Dunque i miti, le tradizioni folkloriche, la storia, l’archeologia, le religioni. Ma questo passato, quello che in questo periodo riemerge, è quello dei miei ricordi, degli incontri, delle persone e dei momenti che costituiscono la mia storia. Forse perché sono ormai una donna che un tempo si sarebbe definita anziana, anche se non me ne accorgo, e i ricordi sono le ghiande che per tanti anni ho raccolto come provvista per l’inverno. Non li cerco, si presentano e mi rendono felice. Non sono tutti belli, perché la mia vita è stata una lunga battaglia, ma, come diceva mio figlio quando era ancora fra noi: “Anche i ricordi dolorosi sono belli”.

La memoria di volti, momenti, luoghi, discorsi, paesaggi, che affiora non sollecitata, mi dà un senso di continuità e solidità. Mi fa sentire radicata e forse la psiche, nella sua saggezza, sa che è questo ciò di cui ho bisogno. Di cui tutti abbiamo bisogno. Di sapere chi siamo. Di sentirsi radicati nel caos devastante in cui sono state fatte precipitare le vite degli uomini da gente incapace di gestire quel che sta succedendo, ma molto capace di alimentare terrore e paura per raggiungere i propri scopi.

Così tutti dovremmo, ora più che mai, mantenere saldamente il nostro legame non solo con i nostri ricordi, che ci danno la dimensione di chi noi siamo e ci dicono da dove veniamo, ma con il nostro passato. Perché, nella tradizione antica, Mnemosine aveva due facce: l’una rivolta al passato e l’altra rivolta al futuro. E l’uno non è possibile senza l’altro. Tutti dovremmo, pur sul guscio di noce che è la nostra barchetta sballottata dalle onde della tempesta, rimanere ben saldi in noi stessi e non cedere alla tentazione della paura. E forse, quel sonno cui serenamente il Cristo si lasciava andare durante la tempesta, dovrebbe esserci d’ispirazione. Non è il sonno di chi si rifugia nell’oblio, obnubila la coscienza e si rifiuta di mantenere desta la propria consapevolezza, non è il “sonno della ragione” di Goya, che genera mostri. Un sonno così simile alla morte; no, è il sonno di chi affronta con la forza della serenità e della speranza anche un momento apparentemente drammatico e non si lascia travolgere dalla confusione e dalla disperazione generale. Il sonno sereno di chi non teme, non cede agli inganni della Maya e non ha perduto sé stesso. Non lasciamoci sradicare, non perdiamo la memoria. Non perdiamo noi stessi.

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