Mi piacciono i poeti-narratori e i poeti-filosofi. Mi piacciono i poeti che, con una lingua che la vita ha filtrato attraverso il setaccio dell’esperienza e della sete di conoscenza, della cultura e della curiosità, dell’esplorazione di sé stessi attraverso il mondo, esprimono quel che hanno lasciato decantare dentro di sé come enorme quantità di materiale e ne ri-narrano la quintessenza. Mi piacciono i poeti che hanno una poetica e una visione del mondo da cui spiccare il volo, capaci di lasciarsele alle spalle senza paura del vuoto. Mi piacciono i poeti la cui lingua, come la loro voce, è chiara, limpida, musicalissima, (dove poesia senza musica?) spoglia di ridicoli orpelli, termini obsoleti cercati sul dizionario e barocchismi, che son buoni solo per i poeti wannabe e solamente servono a mascherare l’assenza di pensiero e di idea e un deserto di sordità poetica. Capaci di una lingua raffinatissima e colta e scolpita. Mi piacciono i poeti che non hanno bisogno di volgarità, modernità a tutti i costi, finti sperimentalismi vecchi come il mondo, perché la vera novità è quella dello sguardo che hanno sul mondo e su sé stessi; libero, non legato a mode, a trend, a scuole, e che sanno rendere il Passato Presente, eppure sanno uscire dal presente. Bisogna essere grandi per essere limpidi e chiari. Il che non significa semplici.
Dunque ringrazio Salvatore Martino, grande poeta, grande attore di teatro, uomo coltissimo, mente profonda, figlia del mondo mediterraneo ma anche di molto altro, che mi ha permesso di pubblicare alcuni suoi inediti. Gliene sono grata.
Francesca Diano
Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009). La metamorfosi del buio, (2012) Cinquantanni di poesia – 1963-2012 (2015) Ha ottenuto numerosi riconoscimenti: i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli à stato conferito il “Davide di Michelangelo”, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento – Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio.
È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura «Belmondo». Dal 2002 al 2010, con la direzione di Sergio Campailla e insieme a Fabio Pierangeli, ha condotto un laboratorio di scrittura creativa poetica presso l’Università Roma Tre.
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I testi che in questo ordine si succedono rispettano la cronologia nella quale sono nati, così da registrare lo scorrere del mio pensiero, delle mie emozioni, nell’arco di un tempo disegnato forse in combutta col mio dàimon. Le tematiche quindi non hanno uno svolgimento ravvicinato tra di loro ma disegnano frequenti ritorni come un’avventura circolare, che si svolge nel circuito che dal profondo trascina la mia presunta creatività. Questi miei versi scandiscono gli archetipi, i simboli, le metafore che da sempre hanno costituito la linfa della mia poesia: il viaggio, la casa, l’Altro, Dio,lo specchio, la maschera, il sogno,la barca, i compagni, la dimenticanza, il giardino, gli dei, il fiume, i ritratti, e soprattutto la steep darkness, l’abisso di cui parla Nietsche, o quello rammentato con terribili parole da Rilke: l’abisso tra noi e Dio è pieno del buio di Dio, e quando qualcuno lo prova deve calarsi e ululare in quel baratro, più necessario che valicarlo. Credo che l’avvicinarsi dell’evento mi consegni uno sguardo tranquillo a disegnare questa meditatio certamente monotona e ossessiva, che scivola verso un viaggio che tutti ci appartiene.
Salvatore Martino
Manoscritto trovato nella sabbia
Con il mondo vero abbiamo
abolito anche il mondo apparente
F. Nietzche : Crepuscolo degli idoli
Qualcuno forse io stesso
aveva abbandonato parte di questi versi
perché fossero trascritti nella sabbia
cancellati per sempre
Non riempivano pagine di un libro
sostavano nel limbo di un’attesa
lontani dalla luce e dal pensiero
Ma il caso che guida ogni mistero
e azzera l’impulso della tua ragione
ha guidato un mattino la mia mano
a togliere il pacciume dalle ortensie
e ingiallite dal vento e dall’umidità
sono riaffiorate quelle carte
Così mi hanno costretto a rivedere
quei versi le cadenze quei pensieri
le immagini che un tempo avevo inciso
mentre nascevano altri versi
inchiodati sulla carta che il dàimom
dettava da un luogo imprecisato
Chissà se risvegliarle queste morte parole
può essere un inganno un’illusione
o l’ultima concessione declinata
al gioco affascinante della sorte.
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La tranquilla ossessione dell’oblio
Se mai potessi ritrovare
il letale disegno della solitudine
il grido stampato nell’addome
e coniugare il tempo racchiuso
dal cerchio dell’inganno
e domandare al Caso d’intercedere
presso il comando delle tenebre
per una una dilazione
che permetta alla rabbia di tornare
tra la catena e il piede
in un frammento di cielo
o nel tremore della terra
il tracciato obliquo delle stelle
e intessere un colloquio coi pianeti
perché la cenere possa dilagare
e il controllo dell’aria nei polmoni
obbedisca a una legge di soffocamento
a questo tormento escatologico
segnato nella pietra
che tutti ci addormenta nel risveglio
per obbligare il Fato
a scendere a patti con la verità.
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Dove ci conduce questo fiume
di pietre levigate?
Dove corteggiano le sue rive
famiglie di uccelli predatori
che fiondano il corpo dentro la corrente
in un banchetto frenetico di pesci?
Privo di zattera o di barca ci trascina
verso un arrivo sconosciuto
che invano ti ostini a ricercare
e le rive sorridono al tuo passo
occhieggiano i topi divertiti
i corpi usciti dai loro nascondigli
Possiede la sabbia
un’iscrizione mutevole col vento
in un idioma che un tempo avevi coniugato
come un sorriso tra le labbra
un respiro del tuo Fato.
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Ennio Calabria, Patologia della luce. Acrilico su tela. 2012.
Patologie della luce **
Se nel racconto dell’anima intuissi
una dissonanza del respiro
dall’ossessione della tua diversità
un brivido disceso ad acquietare i morti
soggiogasse il tuo spirito
e un caotico inganno contrassegnasse
il tempo della tua condanna
e il silenzio che segna il tuo vagare
toccasse i vertici della dissoluzione
e un suono allucinato di campane
tracciasse l’unico nome che ti corrisponde
Siederai sul fosso che genera la luce
dove si accecano i contrasti
nel cavo delle nostre miserie
e il numero che invoca la tua fine
sarà scagliato contro la tua bocca
per fermarsi tra l’addome e il cuore
mentre il sangue rappreso
gioca sulle tue ginocchia
segnate da un cammino
di astratta penitenza
verso quella Montagna dell’Oscuro
dove il discorso si disperde
e l’eco si trascina senza suono
e l’Uomo resta solo
ingannato dalle sue parole
Lui già presago
del Monte altro che lo aspetta
pronto a raccogliere il suo grido
l’accusa inascoltata verso il Padre
Delusa da questo povero discorso
la gente cominciava a sfollare
di una storia diversa si illudeva
la domanda rimaneva inespressa
il Messia tanto invocato
oppure un ciarlatano vagabondo?
La luce del tramonto
cancellava la promessa e il rito
e la voce del Rabbi
quasi un sordo respiro
Beati gli ultimi
perché saranno ultimi
alla consumazione del giorno.
** Titolo di un quadro di Ennio Calabria ( Acrilico su tela 2012 )
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Nel giorno settantasei di compleanno
Si aggrumano i pensieri
che incagliano
il nostro passaggio sulla luna
un fiume di memorie
ha sedotto nel tempo la tua vita
E se una sera
colpito dal tramonto sul mare
non so se giallo o arancio
forse tendeva al viola
potrai decidere di affrontare
quella soglia indicata dal destino
discendere nel gorgo meridiano
dove potrai concedere alle stelle di tacere
al cuore dell’oceano di annegare il tuo viaggio
e se una sera
gli olmi le querce i rododendri
declinassero anch’essi
un girotondo di domande
contro le grate della tua prigione
Si fletteranno dentro il cielo
responsi indecifrabili
saliti un giorno
che il vento non smetteva di tacere
lungo i crinali della montagna a Delfi
o fu nella Tuscia non ricordo
ai piedi del mitico Soratte
dove avevi fissato la tua casa
quell’oscuro colloquio con la morte?
Nel fondo di questa logica illusione
potrai dipingere il tuo autoritratto
salito dall’acqua dello stagno
o evaso dallo specchio
in quel tracciato speculare all’Altro
che inchioda i tuoi mattini
Dove siamo caduti?
In quale spazio alberga
questo bieco assalire delle cose
il nostro scheletro di sabbia?
Quando una sera infinita dell’estate
incontreremo l’immagine salita dal suo fiume
forse potremo riconoscere
lo spazio e il tempo il numero
che ci hanno lanciati in questa mischia
senza bagagli e treni
in una geometria dell’impossibile
un teorema che avrà dimenticato
le sue incognite le sue promesse soluzioni.
(C)by Salvatore Martino 2018 RIPRODUZIONE RISERVATA
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