Giorgio Linguaglossa. Su Francesca Diano da “Dopo il Novecento”

Giorgio Linguaglossa. Dopo il Novecento.  2013 Società Editrice Fiorentina

Giorgio Linguaglossa. Dopo il Novecento. 2013 Società Editrice Fiorentina

 

Ringrazio Giorgio Linguaglossa, critico militante fra i più noti in Italia, per avermi voluta includere fra le voci degne di nota nella poesia italiana contemporanea, nel suo nuovissimo saggio Dopo il Novecento (2013, Società Editrice Fiorentina) che fa seguito ai precedenti saggi, La nuova poesia modernista italiana. Edilazio (2010) e nel 2011 Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) Edilazio. Da Antonella Anedda ad Andrea Zanzotto, passando, tra gli altri,  per Attilio Bertolucci, Franco Buffoni, Laura Canciani, Giorgio Caproni, Patrizia Cavalli e poi Milo De Angelis, Franco Fortini, Mario Luzi, Dante Maffìa, Aldo Nove, Cesare Ruffato, Vittorio Sereni e Patrizia Valduga (per non nominarne che alcuni da lui analizzati. Linguaglossa traccia un quadro vastissimo e acutissimo della poesia italiana del XXI secolo.

Per avermi inclusa nella sua analisi, sono estremamente grata a Giorgio Linguaglossa, che non ho ancora avuto la fortuna di conoscere di persona. Per questo desidero riportare parte di quanto dice a proposito della mia poesia.

 

“In un’altra poetessa, Francesca Diano, si rinnova una ricostruzione di vicende mitiche e di personaggi emblematici, indagati nel momento della decisione anticipatrice della morte. La Diano scava paesaggi nel mito che sono un Um-Weg, una via indiretta, contorta; percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi intorno, l’Umweg non è un Irrweg (falsa strada) e nemmeno un Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco), ma occorre compiere tutte le traiettorie necessarie perché la “dritta via” è non più percorribile; come dice Wittgenstein, è “permanentemente chiusa”. Non c’è più alcuna strada maestosa e tranquilla, costellata dai cipressi della speculazione e del poetato, che indichi la via che possa condurre alla “cosa stessa”. Quella cosa  da sempre nascosta alla vista ed è soltanto con lo scavare cunicoli sotterranei che noi contemporanei possiamo giungere a una diversa ricostruzione del significato delle “cose”. Nella poesia della Diano non c’è più la purezza dello sguardo restaurativo, ma è un guardare dis-locante dentro le cose e dal di fuori.” Op. cit. p 24  

 

“In quella (la poesia) di Francesca Diano invece il discorso poetico parte da un atto di allontanamento dal “reale”. Ne Il Minotauro e in Congedi, apparsi su Moltinpoesia nel 2012, il “soggetto” ha cessato di funzionare come il legislatore dell’atto poetico: è invece centrale l’atto dello straniamento dall’ “io”, dagli oggetti e dalla Storia. E’ mutata la topologia del simbolico e dell’immaginario. Il Minotauro segna uno dei punti di maggiore complessificazione del discorso poetico dell’ultimo decennio ottenuta mediante un ribaltamento dell’ermeneutica del mito del Minotauro. Il discorso poetico viene costruito come intreccio e sovrapposizione tra il discorso segreto e il discorso manifesto, capovolgimento ermeneutico tra il significato tramandatoci dalla tradizione e il nuovo significato nato da un atto di riflessione critica.” Op. cit pp27-28

 

(C) 2013 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Séamus Heaney – Digging. Scavando. Traduzione di Francesca Diano

Séamus Heaney

Séamus Heaney

Séamus Heaney (1939 – 2013) era l’Irlanda. E’ l’Irlanda, perché i poeti non cessando di essere quando si conclude il loro passaggio sulla terra, non conoscono passato. Per chi li conosceva soltanto dalle loro parole, la loro voce seguita a parlare con la stessa chiarezza, e forse anche con forza maggiore.  Heaney è stato un poeta civile, perché un irlandese non può prescindere, nella ricerca della propria identità,  dalla storia sanguinosa della sua terra, ma la sua poesia attinge profusamente anche dalla tradizione e dal mito, perché un irlandese non dimentica mai che la storia è mito e che ogni irlandese è figlio di quel mito.

Nel 1966, Seamus Heaney pubblica la sua prima raccolta,  Death of a Naturalist, che segna il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, alla consapevolezza della sua scelta di essere uno scrittore. La prima poesia di quella raccolta è Digging. Le sue radici, lo scopo della sua vita, il senso della sua poesia, sono tutti già presenti e chiari nella sua mente. La penna è un’arma, un grimaldello, uno strumento con cui scavare per trovare “la buona torba”, come suo padre scavava la terra per le patate e suo nonno le torbiere. E patate e torba hanno significato la vita per gli irlandesi più poveri. Per dissotterrare la verità più profonda dell’essere uomo. Quella che gli antichi Celti chiamavano “la verità di un uomo”. Ed è per questo che ho scelto una sua foto che risale a circa quel periodo. Dai tratti del viso emerge la stessa determinazione di cui parla la poesia. La bocca è risoluta, ma non perde una morbidezza malinconica.

Il solo modo che ho per ringraziarlo di quello che ha significato per me e per moltissimi altri, è di tradurla.

SCAVANDO 1966  

Tra il mio indice e il pollice

E’ acquattata la penna; a proprio agio come una pistola.

Sotto la mia finestra un netto suono stridulo

Quando la vanga affonda nel terreno ghiaioso:

Mio padre sta scavando. Guardo giù

Finché la sua groppa tesa piegata fra le aiuole

Riemerge  indietro di vent’anni

China ritmicamente su solchi di patate

Dove stava scavando.

Il ruvido scarpone posato sul vangile, il manico

Contro l’interno del ginocchio che gli faceva da robusta leva.

Sradicava le cime, affondando con forza la lama lucida

Per sparpagliare le patate nuove che noi raccoglievamo

Amando quella fresca saldezza tra le mani.

Per Dio, la vanga il vecchio la sapeva usare,

Proprio come il suo vecchio.

Mio nonno poteva tagliare più torba in un sol giorno

Di chiunque altro nella torbiera di Toner.

Una volta gli portai una bottiglia di latte

Malamente tappata con della carta. Si drizzò

Per bere, subito poi tornò a darci dentro

Incidendo e tagliando in modo netto, lanciandosi

Le zolle alle spalle, scavando più e più a fondo

Per la buona torba. Scavando.

L’odore freddo di terriccio di patate, lo schiocco poltiglioso

Della torba bagnata, le nette recisioni di una lama

Attraverso radici vive mi tornano alla mente.

Ma io non possiedo vanghe per tener dietro a uomini così.

Tra il mio indice e il pollice

E’ acquattata la penna.

Con quella io scaverò.

Digging

  Between my finger and my thumb

  The squat pen rests; as snug as a gun.

Under my window a clean rasping sound 

When the spade sinks into gravelly ground: 

My father, digging. I look down

Till his straining rump among the flowerbeds 

Bends low, comes up twenty years away 

Stooping in rhythm through potato drills 

Where he was digging.

The coarse boot nestled on the lug, the shaft 

Against the inside knee was levered firmly. 

He rooted out tall tops, buried the bright edge deep 

To scatter new potatoes that we picked 

Loving their cool hardness in our hands.

By God, the old man could handle a spade, 

Just like his old man.

My grandfather could cut more turf in a day 

Than any other man on Toner’s bog. 

Once I carried him milk in a bottle 

Corked sloppily with paper. He straightened up 

To drink it, then fell to right away 

Nicking and slicing neatly, heaving sods 

Over his shoulder, digging down and down 

For the good turf. Digging.

The cold smell of potato mold, the squelch and slap 

Of soggy peat, the curt cuts of an edge 

Through living roots awaken in my head. 

But I’ve no spade to follow men like them.

Between my finger and my thumb 

The squat pen rests. 

I’ll dig with it.

(C) 2013 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA