L’universo e gli anelli – una poesia inedita di Ubaldo de Robertis

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Pubblico commossa la magnifica poesia inedita che Ubaldo de Robertis mi ha generosamente inviato (un corso intensivo di cosmologia)  e, che in un certo senso, è la sua autorevole risposta alla mia Fisiologia delle comete,   https://emiliashop.wordpress.com/2014/11/28/fisiologia-delle-comete-physiology-of-comets-francesca-diano/    come mi fa l’onore di accennare citando il mio nome. Tuttavia c’è una sostanziale differenza: lui è uno scienziato di professione, oltre che un poeta di grande valore e sensibilità. Dunque parla da esperto. Eppure, anche se io sono una profana della fisica e dell’astronomia, una cosa ci unisce, ed è la consapevolezza che nelle leggi della Natura tutto è poesia. Come lui giustamente ha detto: “racconto e cosmologia hanno molto in comune”, perché in effetti il linguaggio della poesia a volte è il più adatto a narrare ciò che sfugge per la sua immensità. La perfetta bellezza degli equilibri, delle forze, delle energie, tutto ciò che è fuori di noi e di cui siamo parte, è anche dentro di noi. La contemplazione dell’universo è la contemplazione della nostra unicità, perché abbiamo ricevuto il dono del pensiero ordinatore e conoscitore. L’armonia dei colori, dei suoni e dei silenzi che ritmano la sostanza dell’universo, noi la distruggiamo quotidianamente perché spesso incapaci di vederla, incapaci di distinguere le relazioni che tutto collegano e uniscono. Vaghiamo come i dormienti di Eraclito, senza sollevare gli occhi al cielo o immergerli dentro noi stessi. L’occhio del poeta non è diverso da quello dello scienziato e a volte coincidono. A ricordarci che sì, anche noi siamo: “Atomi di spazio, cammini chiusi,/ la perfezione sferica di anelli / che intessono, con altri, ariose reti / di relazioni per dar vita allo spazio tempo”

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L’Universo e gli anelli

Atomi di spazio, cammini chiusi,

la perfezione sferica di anelli

che intessono, con altri, ariose reti

di relazioni per dar vita allo spazio tempo,

con la sua curvatura inverosimile,

finché una nana bianca, stella degenere,

evanescente, volle dare la prova

inconfutabile che la superficie

dell’universo è curva, conseguenza

della massa dei corpi celesti contenuti,

fune che si flette sotto il peso del funambolo.

Il cosmo è tutto un fremito, un gran vibrare.

La bellezza di suoni e colori, plurime

risonanze, tonali ambiguità.

Aperto è il suono che dal silenzio

perviene. Il silenzio appartiene

al suono. L’insieme dei possibili

suoni, neutro bigio, è una forma

di silenzio. grigio bianco, che il candore

difende, è il connubio di tutti i colori.

Colore è cadenza di luce. Dall’esigua

frequenza sorge il rosso, al viola la preminenza.

L’alta ciclicità giova all’energia. Il suono

chiama, il colore, sorretto da luce ed ombre,

risponde, domina ben oltre il sistema solare,

imperversa il rosso di Antares, gigante,

e di Betelgeuse, disperatamente in fase terminale.

Lo sfolgorante bianco di Sirio e di Vega,

più fulgente del Sole, in un Universo dove

primeggia il nero- grigio dello spazio vuoto

fra galassia e galassia. Dai padiglioni del mondo

ascoltava Pitagora, il lungimirante, quel concerto

di colori e suoni, con i suoi numerici rapporti,

archetipi della forma, onde che fuggono lungo

corde tese vibranti, come quelle di un violino.

Quale uomo ha avuto altrettanta influenza

nel campo del pensiero? Dante, il divino,

sicuramente ha percepito il suono delle sfere,

riconosciuto come un atto della mente:

l’armonia che temperi e discerni. 

Sulle spalle dei giganti è salito Newton

con il suo corteo di colori e di luce

per vedere più avanti, e raccontare il mondo,

dove dal nulla affiorano particelle, scompaiono

con le loro stranezze, irraggiungibili, nemmeno

fossero raggi di astri sperduti nel loro moto.

L’azzurro profondo è un vuoto che molto

ha da elargire. Si animano processi, strutture,

turbamenti per le inedite forme, la realtà

concreta si manifesta da questa scaturigine.

Sfocata è la visione di appannati mondi,

lontani. L’intenzione non è di annullare

la distanza, piegarsi al disordine, alla casualità,

ma riconoscerle. Nel contempo nuovi varchi

si schiudono verso l’invisibile, ai confini

dei luoghi dell’assenza. E sempre ci sorprende

ogni concezione inquietante dell’Universo.

Ma che cosa guida la realtà? Domandare!

Le domande ci abitano misteriosamente.

Domandare! Domandare sempre, e di nuovo.

Avrebbe voluto, Pound, che le onde fredde

della sua mente fluttuassero, che il mondo

si inaridisse come una foglia morta, e fosse

spazzato via per ritrovare, sola, quella donna.

Ma qui, oltre all’intelletto, a fluttuare

sono campi quantistici, lo spazio interstellare.

E’ questo dimenarsi di quanti che elegge

particelle onde quark/i veri mattoni del mondo/

Le loro danze, i loro incontri, non avranno

lo stesso fascino di Francesca, ma sono

anch’esse una mousikè, cornice di bellezza,

di assoluta verità. Poco altro inaridisce oltre

alla foglia morta, se non l’uomo dentro

al labirinto dell’esistenza, la fedeltà disperata

al pianeta. Smarrite, alla fine, le proprie ceneri

come polveri cosmiche minute, grigio scure.

Pure espressioni di esigenza interiore le tele

di Kandinskij incendiano i sensi oltrepassando

i limiti, le singole percezioni. il pensiero

si addentra nell’Universo stellare per leggervi

l’animazione che ci sfugge, per condividerne

l’irrefrenabile pulsare.

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Ubaldo de Robertis è nato a Falerone (FM) nel 1942 e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore, 2014. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente nei blogs di poesia e critica letteraria, Imperfetta Ellisse, e Alla volta di Leucade. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: P. Balestriere, F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, A. Spagnuolo, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi.

E’ autore di saggi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), e L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria) e vincitore di numerosissimi premi nazionali di poesia.

 

(C)2015 by Ubaldo de Robertis RIPRODUZIONE RISERVATA

Nel cimitero dell’Abbazia di Aghadoe – da La Strega Bianca di Francesca Diano

Abbazia di Aghadoe, VII-VIII sec.

Ora il paesaggio si allargava in un mare di colline verdi, morbide. La strada in salita era ombreggiata da piante d’ogni specie.

Arrivarono presso la sommità di una collina, da dove si poteva godere la visione incantata dei tre laghi di Killarney. In alto, sulla sua cima, proprio di rimpetto al Lough Lean, stavano le rovine dell’Abbazia  di Aghadoe, immersa tra i fiori e circondata da un cimitero, dove grandi pietre tombali, un po’ sghembe, indicavano i nomi di anime innumerevoli. La bellezza era leggera e luminosa, come l’acqua del grande lago punteggiato di isole e carico di leggende.

L’aspetto trascurato del cimitero le fece credere che non fosse più in uso da molto tempo. Ma si sbagliava.

<<Oh, no. E’ ancora perfettamente in uso. Ma dopo che abbiamo seppellito i nostri morti non li andiamo più a trovare in cimitero. Perché non sono lì>>, le spiegò Jane.

<<In questa terra>> le aveva detto Aileen nella sua prima visita, <<tutto il processo dell’elaborazione del lutto, la follia della perdita, la ricomposizione dell’ordine sociale sconvolto dalla morte, si concentrano sui riti di passaggio che sono la wake, la veglia funebre irlandese, e il caoìne, la lamentazione funebre, riti antichissimi che, in un modo o in un altro, anche se in forme ormai molto semplificate, ancora sussistono in tutte le classi sociali. Una volta compiuto il rito di passaggio in modo sicuro e protetto, tanto per il defunto che per la comunità, lo strappo è ricomposto e il lutto è concluso. Non il dolore per la perdita di una persona cara, certo. Quello è umano, ma da noi sono sconosciute quelle forme patologiche di lutto che attanagliano la civiltà occidentale.>>

Nessun cimitero irlandese è triste. Le tombe sono amplissime. Lo spazio non manca. L’atmosfera è quella di un parco naturale.  Perché  la morte non esiste. Per gli irlandesi, non diversamente dal passato, la morte è solo un “altrove”, come lo era per i loro antenati.

I vivi e i morti convivono in una dimensione che non ha un confine certo e nessuno teme uno stato naturale più della vita stessa, perché è la vita vera. In questa visione il cristianesimo non c’entra. <<E’ l’antica visione celtica>>, aveva seguitato Aileen quella sera nella sua cucina. <<La vita è bella, va vissuta, amata. Ma è solo uno stato passeggero. L’interferenza dell’Altro Mondo è costante e la comunione tra i vivi e i morti naturale.>>

Per questo motivo Jane le propose di fare uno spuntino in quel bellissimo cimitero, affacciato sulla vallata con i tre laghi, accanto alle pietre rosa e grigie dell’antica abbazia.

<<Ma scherzi?>> le chiese Sofia meravigliata. Doveva avere un’espressione assai stupita e preoccupata perché, con un sorriso dolcissimo Jane le disse che non c’era davvero nulla di strano.

<<La morte, per noi, è una cosa talmente naturale. Non vedi come tutto è così bello e pieno di pace? Per noi la morte fa parte della natura. E qui siamo in mezzo alla natura>>. Le stesse parole di Aileen. Jane non era una studiosa di antiche tradizioni, ma come tutti su quell’isola, le viveva come le fossero connaturate. Perché le erano connaturate.

Solo allora, nonostante avesse sempre pensato lo stesso e avesse avuto una consuetudine familiare con la morte da sempre, si rese conto dei  condizionamenti di cui siamo carichi.

<<Ora ho capito, Jane>>, le disse. <<Ho capito perché le prefiche che cantano il compianto funebre qui sono solo donne. In realtà la morte è un parto e come in un parto, in cui attraverso la morte si nasce alla vera vita, è la donna che porta il fardello del dolore. E accompagna il travaglio. Perché è lei che dà la vita… e dunque la morte e dunque la Vita. Come la Dea. La trasformazione attraverso il passaggio da uno stato all’altro. Come la natura coi suoi cicli…>> Non sapeva da dove le venisse questa chiarezza così improvvisa e limpida. Jane la guardò con un sorriso così antico, così….familiare, che aveva la dolcezza dell’erba appena nata.

In fondo, non sarebbe stato come celebrare la sua nuova vita, la sua morte e rinascita, con l’antica usanza di un banchetto funebre? Avrebbe festeggiato il trapasso dei suoi avi nell’abbraccio di un paesaggio incantato, mangiando i  biscotti e bevendo il  tè, seduta su quelle pietre, di fronte a quelle acque, quelle nuvole e quelle colline, a quel mare d’erba mosso in onde dal vento di maggio, guardando dall’alto il lago da cui nel mito il buon re O’Donoghue emerge col suo fastoso corteo ogni Primo di Maggio. Accanto a quei loro antichi padri e antiche madri comuni fatti di materia sottile lei, per la prima volta, comprese il vero senso della Comunione dei Santi. I vivi e i morti, uniti nell’amore, nella bellezza e in una dimensione che non ha spazio ne’ tempo.

Il luogo era una fucina di incantesimi. Strinse la mano di Jane, commossa. – Tu sei una di noi –  le diceva il suo sguardo. Era una di loro.

La sensazione di essere impastata di quella terra, di quelle piante, di quelle acque, di quelle pietre era ormai così forte, che raccolse una primula da una tomba e versò nel piccolo spazio vuoto del terreno un po’ di tè e qualche briciola di biscotto. – Agli dei dell’isola, alle antiche madri, agli antichi padri, alle energie della terra –  disse mentalmente, compiendo l’offerta rituale.

Era felice. Compiutamente felice. Ora aveva una terra a cui tornare, una madre che l’amava e la accoglieva con amore incondizionato, amici che la comprendevano. Aveva un tesoro che avrebbe condiviso con chi era stato meno fortunato di lei. Aveva una vita piena di mistero e di magia. Colma di tutta la bellezza dell’invisibile.

La vita è unica, in tutte le sue forme e in tutte le sue manifestazioni. Ormai lo aveva capito e lo doveva soprattutto a Jane, dividendo il loro cibo con i loro padri e le loro madri fatti luce. Una comunione con lo spirito del tempo, fatto eternità.

E allora non ci fu più nemmeno il paesaggio fisico di fronte ai suoi occhi, ma una plaga luminosa, dove tutto si disfaceva nello splendore di una luce assoluta.

Da La Strega Bianca

(C) 2010 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA