Due agosto- racconto di Francesca Diano

Questo testo è comparso in Il nostro due agosto (nero): 44 racconti sulla strage di Bologna, raccolti e curati da Luca Martini, 2014, Antonio Tombolini Editore.

Mi colpisce il fatto che vi parlai anche del crollo del ponte di Lima, narrato nel romanzo di Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey. 

 

Mark Rothko. Blue green and brown. 1952

 

Cosa decide il nostro destino? Un’inezia. A volte proprio solo una banalità. Lo si chiami caso, fato, o Dio, spesso la differenza fra la vita e la morte non è che un’inezia. O tale è la forma che assume.

<<Pronto? Ah ecco, per fortuna ci sei. Scusami se ti chiamo a quest’ora.>>

<<Ciao, allora ti aspetto domani? A che ora arrivi?>> mi chiede.

<<No, ti chiamo appunto per questo. Avevo pensato di prendere un treno in mattinata e arrivare verso le 10,30 – 11, ma purtroppo ho avuto un contrattempo coi bambini e devo rimandare per forza. Vedo per l’inizio della settimana prossima. Ti chiedo scusa, ma davvero mi è impossibile.>>

La mattina dopo, sabato 2 agosto, sarei dovuta andare a Bologna, per parlare con la persona cui stavo telefonando  del libro che avevo finito di tradurre e che il suo editore, con cui mi aveva messa in contatto, pensava di pubblicare.

La memoria, soprattutto quando si tratta di avvenimenti traumatici, è un giocoliere bizzarro e ora non ricordo più quale fosse il motivo preciso per cui rinunciai ad andare incontro, pur senza saperlo, alla devastazione e forse alla morte. Fu per un problema che riguardava i miei bambini, questo lo ricordo. Forse si erano ammalati, o forse chi avrebbe dovuto stare con loro, all’ultimo momento mi disse che non poteva. Ma io, alla stazione di Bologna, quella mattina del 2 agosto non mi ci trovai.

Guardavo invece incredula, stordita, le immagini trasmesse dai telegiornali. Solo qualche ingenuo poteva davvero credere, nell’Italia di quel tempo, che si fosse trattato dell’esplosione di una caldaia, come all’inizio avevano voluto far credere. Era chiaramente un atto di bieca imbecillità. Gli atti di terrorismo sono delle imbecillità, se possibile ancora più della guerra, che lo è all’ennesima potenza. Perché oltretutto sono agiti da vigliacchi.

In inglese, l’espressione che si usa per indicare una catastrofe naturale è suggestiva: act of God, azione divina, atto di Dio, perché è qualcosa di ineluttabile. Ma stragi, guerre, carneficine, sono atti dell’uomo.  Atti voluti, programmati, contemplati come utili a un qualche fine, che poi è sempre frutto della parte più primitiva, meno evoluta dell’umanità. Gli attentati terroristici però non hanno altro fine che creare appunto terrore, caos, insicurezza, incertezza. Senza che i responsabili mostrino la loro faccia immonda. Dunque doppiamente vigliacchi.  E fu sulla vigliaccheria di quel gesto che – guardando le immagini delle macerie, della sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime – mi immaginai al loro posto. E tremai. Fra quei corpi straziati poteva esserci il mio. Fra quei parenti, i miei figli.

Quella che chiamiamo Storia è la griglia su cui si modellano le nostre vite.  Una griglia su cui, perlopiù, non abbiamo alcun controllo, se non quello della consapevolezza delle nostre azioni e del nostro pensiero.

Quando qualcosa di tragico ci accade, molti si chiedono: perché proprio a me? Più raro è porsi la stessa domanda se l’evento è felice, come se la buona fortuna fosse un diritto; quasi vivessimo la tragedia, la cattiva sorte, come un’ingiusta negazione di quel diritto. Eppure il grande regista della Storia, come della storia, la nostra, è il caso. La tyche, la chiamavano i Greci. O così almeno appare. Un inanellarsi di accadimenti, di circostanze fortuite, di svolte, che conduce, come un percorso necessario, a quell’istante, a quell’evento. O ce ne allontana. Perché il caso diviene destino, il mio destino, solo nell’istante in cui determina la mia esistenza. Oppure, per i credenti, è un Destino segnato dall’alto, da un’Entità superiore, o ancora, il percorso di consapevolezza e di evoluzione dell’anima.

In un grandissimo romanzo di Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey, lo scrittore prende spunto da un evento storico che effettivamente si verificò in Perù il 20 luglio 1714, dunque esattamente trecento anni fa, quando il grande ponte di liane, costruito dagli incas, che sovrastava un orrido lungo la strada che collegava Lima a Cuzco, si ruppe e alcuni, che lo stavano attraversando proprio in quel momento, vi persero la vita.

Wilder immagina che su quel ponte passassero in quel momento cinque persone, di diverso stato sociale e di diversa origine e nazionalità. Un frate francescano che assiste alla tragedia, Frate  Ginepro, colpito dalla coincidenza della contemporanea presenza di quelle persone tra loro sconosciute, decide di ricostruirne  le vite, per capire quali eventi le avessero condotte lì in quel momento, a quell’appuntamento col fato. Perché, per quelli che solo per caso si erano trovati insieme, il qui e ora avesse segnato luogo e ora della morte. E Frate Ginepro scopre un filo conduttore di quelle vite, il filo che le aveva condotte a trovarsi su quel ponte in quell’istante. Non prima. Non poi.

Noi non sapremo mai se qualcosa abbia accomunato le vittime di Bologna. Sappiamo, come lo sappiamo per le vittime dell’11 settembre, e di tutti gli atti dettati dall’insensatezza del terrorismo, che un qualche motivo, determinante o meno, importante o meno per loro, aveva guidato quelle persone in uno stesso luogo. A condividere la morte. Possiamo chiamarlo fato o caso.

Ma destino, o caso, è anche quello che ha allontanato da quello stesso luogo chi altrimenti avrebbe dovuto esserci. Come le vittime di un disastro aereo, o di un naufragio, da cui si salva chi, per qualche coincidenza, magari ritenuta lì per lì sfortunata, considerata forse una seccatura, non si è trovato con loro.

Cosa regge il filo della vita?

I primi di agosto del 1974, incinta del mio primo figlio, mi trovavo a Roma, a casa dei miei nonni. Era un’estate molto calda e con mio marito decidemmo di andare qualche giorno in Alto Adige. Ero all’ottavo mese e mi pareva di non poter tollerare un giorno di più quel caldo torrido, volevo partire anche rischiando di fare il viaggio in piedi, ma capivo che era più sensato assicurarmi, nella mia condizione, un posto a sedere. Si doveva dunque prenotare. I primi di agosto i treni erano pieni e non fu possibile prenotare se non per il 5. Io avrei voluto partire il 4 e, nonostante insistessimo in tutti i modi alla biglietteria della stazione di Roma perché si trovasse un posto libero, non fu possibile. Non sarebbe nato mio figlio, né sarebbero nate le mie figlie. Perché il treno che avremmo dovuto prendere era l’Italicus, su cui quella notte morirono dodici persone. Nove italiani e tre stranieri.

Tutti, come Edipo, siamo figli della tyche. Figli della fortuna, o del caso. O degli dei. Io sono anche figlia dei miei figli.

 

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