A UdaiJi
Non le era mai accaduto di vedere – e vedere, aveva pensato, era il verbo più adatto – un cantante simile a Guruji. Il Maestro.
Ripensò alla prima volta che aveva ascoltato un concerto di musica classica indostana: sitar e tabla. Era giovane, sposata da poco. Avevano lasciato Londra, dove suo marito non avrebbe avuto alcun futuro, almeno non quello che avrebbero preteso le sue sfrenate ma ingiustificate ambizioni, per finire in una piccola città di provincia. Fu lì che conobbero un indiano, mediocre insegnante d’inglese, ma ottimo tablista che, quando dall’estero arrivava qualche amico sitarista, organizzava un concerto in casa per gli amici.
Quel primo incontro con una musica tanto diversa da quella che le era nota l’aveva stregata; le sue sonorità, la bellezza degli strumenti, il dialogo costante tra i musicisti attraverso i gesti e gli sguardi, quel poter modulare ancora le note una volta emesse dal sitar e il loro rincorrersi nell’aria, subito raggiunte e avvolte dal fluire di nuove note, in un complesso intreccio sonoro, l’avevano incantata. Anche la figura della sua giovane moglie norvegese, che appariva circonfusa di luce, la pelle lattea, i capelli biondissimi, vestita di una sari di seta bianca e oro, aveva contribuito alla magia. A quell’epoca era ancora totalmente digiuna di quell’arte.
Negli anni successivi aveva acquistato molti long-playing di famosi flautisti e sitaristi e le varie case in cui era vissuta avevano spesso risuonato di quella musica.
La sensibilità che ne aveva acquisita l’aveva spinta a seguire e ascoltare, quando ne aveva avuta l’occasione, cantanti e musicisti indiani fra i più grandi; l’orecchio s’era affinato e, pur rimanendo una semplice appassionata, aveva imparato qualcosa di più. A quell’epoca l’Occidente si limitava a identificare la musica indiana con il sitar, ignorando del tutto il ruolo centrale, preponderante ed essenziale che vi ha il canto, i suoi molti stili e i diversi Gharana e ignorando anche la differenza fra la musica indostana, dell’India del nord, e quella carnatica, propria dell’India del sud. L’arte di quei cantanti l’aveva profondamente toccata e commossa, ma ora, questa particolare esperienza era qualcosa di totalmente diverso.
Mentre Guruji cantava in modo sublime il Dhrupad, l’antico stile classico, austero e solenne, accompagnato dagli strumentisti, con le mani modulava, quasi plasmava i suoni, come a nessuno aveva mai visto fare. Quasi i suoni avessero una consistenza materiale.
Guruji stava rendendo visibile l’invisibile.
Via via che le note emergevano dalla sua gola e dalle labbra, dall’intero suo essere e si fondevano con l’aria che lo circondava, sembrava raccogliere con i palmi una sostanza vivente, volgendola e modellandola in forme fluttuanti.
Guruji era uno dei più grandi cantanti viventi di Dhrupad, lui era il Dhrupad, e si era sentita una privilegiata nel poterlo ascoltare dal vivo.
Durante l’alap, la parte iniziale che introduce il raga, con il lento crescendo dell’improvvisazione melodica che prevede solo l’uso della voce senza l’accompagnamento degli strumenti, riusciva davvero a visualizzare lente onde danzanti di suoni, quasi fossero costituenti di una qualche sostanza luminosa e traslucida che lui manipolava con le mani e le dita. La raccoglieva, la dilatava fra i palmi, poi la comprimeva in forme rotondeggianti o allungate. Ancora, quando il suono si levava verso l’alto, lo riprendeva dal sommo della testa, persuadendolo dolcemente a rifluire in basso, verso il centro del suo stesso essere.
La forma è luminosa, i suoi contorni vibrano nella luce, poiché quella luminosità altro non è che la sua visibilità, che è la sua vera essenza, aveva detto un filosofo. E ora lei stava vedendo galleggianti forme ruotare intorno a lui come pianeti intorno alla loro stella.
Lì, davanti ai suoi occhi, Guruji stava creando una nuova realtà sonora di esistenza. E allora, per la prima volta, comprese il significato di quanto ogni cosmogonia tramanda, che l’universo è stato creato dal suono, che la materia è emanazione di un originale suono primordiale, che il suono è energia che, vibrando, diviene materia e in essa per sempre vibra. Che suono e materia sono di un’unica e medesima natura.
Ad occhi chiusi, o sollevati verso l’alto, Guruji modellava con gesti solenni il suono basso, profondo e oscuro che gli si andava lentamente formando dentro, al centro del corpo, eppure, sembrava lo stesse traendo dal cuore ardente e segreto della terra, da quel sole nero che si dice vi pulsi al centro. Vi si immergeva, lasciando che il flusso sonoro permeasse ogni suo atomo, ogni molecola e fibra, poi lo convogliava a penetrare la sua carne e le sue ossa, fino a raggiungere la cavità risonante della bocca e il limite della labbra. Lo lasciava libero di emergere e ancora lo raccoglieva con gesti ieratici, come stesse compiendo un rito sacro. Lo prendeva con le dita, lo sollevava, lo carezzava, creando nuovi mondi invisibili, fatti di turbinii ritmici e di armonia.
Guruji stava cantando il Raga Yaman. Uno dei raga fondamentali e più solenni nella tradizione della musica indostana. Un raga della sera.
Quella sera fu testimone del miracolo della creazione, riprodotto e rappresentato da un sommo artista, erede di un’antica tradizione musicale, di centinaia di Guru, che nel fluire dei secoli avevano ininterrottamente trasmesso ai loro discepoli il tesoro inestimabile della loro conoscenza. E tuttavia non era solo una tradizione artistica, ma celava in sé un sapere esoterico, poiché dai suoi gesti, dalle particolari qualità della sua vocalità, da quella sua nobile compostezza, ma soprattutto da ciò che tutto questo evocava, trapelava una conoscenza segreta che doveva aver ricevuto, insieme agli insegnamenti, dal suo Guru. Poiché questo avviene di fatto ai livelli più elevati della tradizione musicale indiana. Nella trasmissione orale e diretta dell’arte, il Maestro elegge uno speciale discepolo cui affidare la Tradizione che egli stesso incarna e, con essa, gli insegnamenti segreti che ne sono alla base, che non possono essere rivelati a tutti.
Aveva avuto la sensazione precisa e distinta di percepire un vago barlume, quasi un diafano riflesso, di quella dimensione iniziatica, delle sue profondità e vastità evocate dal canto. Aveva sognato? Oppure il miracolo di quella voce che l’aveva totalmente catturata, era così potente da trascinarla, oltre lo spazio e il tempo, indietro fino all’origine di tutte le cose? Fino a quella dimensione in cui tutto si crea e che tutto contiene?
Dopo il concerto, erano andati a cena insieme a Guruji e al suo tablista. A tavola s’era seduta di fronte a lui. Era un uomo bello, di una bellezza antica, elegante e composta. Nonostante la sua fama, aveva in sé la gentilezza e la semplicità delle anime grandi, cui mai manca una punta di tenera ironia.
Racconti della sua famiglia in India e delle sue tournée internazionali si alternavano ad aneddoti sui grandi musicisti viventi e del passato, e attraverso le sue parole ogni cosa prendeva vita. Ogni cosa era armonia.
Mentre Guruji parlava, lei aveva sentito aleggiare nell’aria un profumo incantevole, discreto, non troppo dolce, lievemente speziato e muschiato, con un vago sentore di pepe e tuttavia morbido e opulento.
<<Che profumo delizioso>>, non poté evitare di dire.
<<Intende questo?>>, chiese Guruji avvicinando il polso al suo naso.
<<Sì, proprio questo!>> esclamò. <<Che aroma sublime.>>
Allora Guruji trasse dalla tasca del kurta di seta gialla una scatolina argentata, contenente una boccettina dal tappo dorato in cui scintillava un olio color dell’oro vecchio. Gliela porse. Lei l’aprì con delicatezza e, quasi con reverenza, ne annusò il contenuto. Il profumo di Guruji…
Ondate di sensazioni raggiunsero le sue narici, attivando recettori e penetrando sino al cervello, e la trascinarono in un luogo di felicità e appagamento. E, tutto d’un tratto, si trovò nuovamente avvolta dai suoni di quella musica sublime, dalla materia morbida, luminosa e traslucida, dalle forme che Guruji aveva evocato e plasmato sul palco nella semioscurità del teatro.
<<Può tenerlo, se le piace>>, le aveva detto con un sorriso gentile.
<<Davvero? Dice davvero?>> Non poteva credere. Era un dono generoso, e ancor più generoso perché spontaneo. Nella commozione, non trovò quasi parole per dirgli grazie.
A casa, fece delle ricerche online sul negozio, il cui nome era stampato a rilievo sulla piccola etichetta. L’olio aromatico proveniva dalla più antica bottega di profumi di Delhi, che si trovava infatti a Old Delhi, fondata nel 1816, dove, in uno spazio angusto, stipato fino all’inverosimile di boccette di vetro e cristallo molato d’ogni forma e dimensione, i maestri profumieri creavano artigianalmente i meravigliosi attar, profumi a base oleosa, ottenuti dalla distillazione in alambicchi di rame di petali di fiori. Da secoli e secoli i maestri profumieri indiani viaggiavano da un villaggio all’altro, seguendo le fioriture, distillando a vapore, attraverso un lungo e delicato procedimento, i preziosi olii essenziali, cui possono essere aggiunti legni preziosissimi, come l’oud, il Legno degli Dèi, e spezie e resine aromatiche, creando combinazioni uniche destinate a imperatori Mughal, re e principi.
Nei duecento anni della loro storia, i creatori di profumi del negozio di Old Delhi avevano preparato, e ancora preparavano, esclusivi attar per reali e aristocratici, per alte personalità, per miliardari e collezionisti e per appassionati e, seguendo l’antica tradizione, si tramandavano a voce e con la pratica i segreti della loro arte, invisibile regno di sogni aromatici.
Gli accordi d’ogni profumo, le combinazioni degli olii, delle essenze, le note di fondo, di cuore e di testa, l’esclusiva impronta olfattiva, l’aroma volatile eppure persistente che sprigionavano e che si modulava combinandosi con l’odore di ciascuna pelle, seguivano delle regole nate dall’esperienza secolare tramandata nella pratica, non meno di quanto accadesse nella musica. Note musicali e note olfattive, accordi sonori e accordi odorosi, manifestazioni diverse di un Tutto che tutto in sé comprende.
Il prezioso attar di Guruji era stato creato appositamente per lui e, ogni qualvolta lo apriva e ne inalava l’aroma (le era memoria troppo preziosa per indossarlo) evocava in lei quella stessa estasi che aveva sperimentato durante il concerto. Seguendo gli effluvi profumati che emanavano dalla fiala, si trovava nuovamente proiettata in quell’universo musicale in cui l’invisibile diveniva visibile, in cui il suono si metamorfizzava in una materia luminosa e traslucida dai riflessi d’arcobaleno, in cui visione, udito, olfatto, memoria e immaginazione si fondevano a creare una sostanza liquescente, una sostanza d’oro fluido, il cui profumo era l’essenza stessa dell’arte unica di Guruji.
Espresse il desiderio di poter ascoltare ancora una volta il Raga Yaman. Allungò la mano a prendere la boccettina che, una sera di tanti decenni prima, Guruji le aveva donato e che teneva sempre accanto a sé. La quantità dell’attar non era diminuita, se non in modo impercettibile e l’intensità della fragranza non s’era persa. Chiese che gliel’aprissero. L’avvicinò alle narici, poi, con dita malferme, se ne fece cadere qualche goccia sul petto. Inalò profondamente. Chiuse gli occhi.
Ecco nuovamente Guruji, avvolto dalla luce, plasmare con gesti solenni il suono basso, profondo e oscuro che gli si andava lentamente formando dentro, al centro del corpo, traendolo dal cuore ardente e segreto della terra, da quel sole nero che si dice vi pulsi al centro. Lo lasciava libero di emergere e ancora lo raccoglieva con gesti ieratici, come stesse compiendo un rito sacro. Lo prendeva, lo sollevava, lo carezzava, creando nuovi mondi invisibili, fatti di turbinii ritmici e di armonia. Flussi di morbida luce pulsante dai mille colori, riflessi iridati, si sprigionavano dalle sue dita per poi avvolgersi in ampie spirali di luminosità sonore.
Con lui vi si immerse, lasciando che il flusso di armonici permeasse ogni suo atomo, ogni molecola e fibra, per convogliarlo a penetrare la sua carne e le sue ossa. In esso finalmente si dissolse. Avvertì gli atomi che formavano il suo corpo separarsi e proiettarsi in mille direzioni, viaggiare liberi e velocissimi verso quell’Oltre senza confini, per tornare all’origine. Allora fu pura gioia, puro Essere.
Pandit Uday Bhawalkar Raag Yaman
(C)2023 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA
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