Tramonti d’Occidente di Emilia Blanchetti.

Tramonti d'Occidente di Emilia Bianchetti. Edizioni Autodafé

Se una coppia di categorie si dovesse individuare per analizzare al meglio la società che  ciò che definiamo Occidente ha creato, questa potrebbe essere frastuono/silenzio o, in alternativa pieno/vuoto o, ancora, caos/ armonia.  L’Occidente, inteso come l’insieme delle culture che lo hanno generato (greca, celtica, cristiana) vive una crisi che si potrebbe forse meglio definire un passaggio.

Noi, figli dell’Occidente, siamo chiamati a una trasformazione – che è il senso della crisi – pur senza saperne vedere al momento i termini o gli strumenti necessari. Sospesi tra un passato che ci ha segnati e ci ha determinati e un futuro di cui nulla sappiamo, se non l’incertezza, non abbiamo più strutture, culturali o mentali per vivere il presente.

E’ ciò che questo romanzo, profondo e all’inizio apparentemente caotico di Emilia Blanchetti, squaderna come un insieme di fili che cercano la loro trama sotto i nostri occhi. L’intreccio, quasi un viluppo, di storie, di personaggi, di situazioni, (frastuono – pieno – caos appunto) all’inizio ti accerchia, quasi ti soffoca.

C’è il proprietario di una casa editrice milanese di successo, figlio di quell’intellighenzia privilegiata che è in apparenza un solido baluardo alla dissoluzione. C’è una badante rumena che cerca, come avviene per tante sue compagne e compagni di destino, di nutrirsi delle briciole di un benessere e di una democrazia che non ha tempo per occuparsi degli anziani e dei malati. C’è una sorta di voce narrante, dal ritmo ondivago, che osserva, commenta e condivide le vicende del suo editore e c’è una giovane islamica, una figlia della vecchia generazione immigrata, che non solo non si è integrata, poiché lo scontro di culture non è affatto sopito, né ha trovato ancora nei figli degli immigrati nati in una nuova patria, alcuna vera integrazione, ma vede nella realtà in cui vive il Nemico da distruggere. C’è un’Italia che, tra Milano, Torino e Roma, fino a luoghi meno opulenti e felici, mostra la trama frusta del suo tessuto.

Attorno a questi quattro personaggi chiave ruota un coro di figure a loro legate e di storie che alle loro si intrecciano, in percorsi molto complessi.

La prima impressione, nel leggere i primi capitoli, è quella di un’umanità brulicante, confusa, nevrotizzata dalle incertezze che ottundono proprio quella qualità che è alla base della cultura occidentale: la ragione.

E’ come se tutti questi personaggi annaspassero in un gorgo che li risucchia e non riuscissero a trovare appigli.

Ma, quello che ciascuno di essi cerca, è il filo che li possa condurre fuori dall’abisso, (il silenzio, il vuoto, l’armonia appunto) senza alcuna certezza di trovarlo. Ciò che rimane è l’istinto di sopravvivenza, il principio oscuro e potente che il disfacimento della civiltà occidentale ha dimenticato, seppellendolo sotto valanghe e slavine di negazione del senso.

Poi, alla fine, il caos, il frastuono, culminano in una tragedia annunciata. Ma è in quell’acme che in realtà si sopiscono e il disegno dei destini individuali si rivela per quello che veramente  è: una sapiente tessitura del destino collettivo.  I protagonisti scorgono infine – almeno alcuni di loro – un barlume di quello che un senso non pareva averlo.

Solo un barlume. Ma la scorgono una scintilla di quel silenzio, di quel vuoto, di quell’armonia che l’Occidente pare abbia perduto.

Emilia Blanchetti è un’esperta di comunicazione ad alti livelli e questa sua competenza si vede nel modo in cui riesce a “domare” un materiale complesso, inizialmente caotico (o così appare), come quello che forma le fondamenta sotterranee del suo romanzo.  L’Italia confusa e dai confini così labili (confini ideologici e culturali, non solo geografici) e permeabili c’è tutta in questo romanzo intenso e sapiente.

(C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Andrea Zanzotto, un moderno Lucrezio.

 

 

Il 10 ottobre di quest’anno 2011, Andrea, compi 90 anni. Ti ricordi della prima volta che ci siamo visti? No, tu di sicuro no. Io sì, mi ricordo perfettamente. E’ stato a Cortina, a casa di Neri Pozza e Lea Quaretti, in una luminosissima giornata di fine dicembre.  Tu avrai avuto poco più di quarant’anni e io ero una ragazzina.

Per tutto il tempo che mio padre Carlo, Neri e Lea parlarono animatamente, tu te ne rimanesti in silenzio. Non hai pronunciato una sillaba. Eri seduto sul bracciolo della poltrona di Lea e contemplavi, quasi ipnotizzato, la sua collana. E io fissavo te ipnotizzata che guardavi la collana di Lea. In questa geometrica astrazione, tu avevi una giacca di tweed. Il fotogramma della memoria è quello. Non sapevo chi fossi, ed ebbi la precisa sensazione che tu fossi piovuto da un altro pianeta.  Da una parte mi sembrò tu ti sentissi estraneo a tutto e a tutti, dall’altra era come se tu fossi a tuo strano agio in quell’estraneità. Ero già da sempre abituata ai personaggi  singolari – tale era mio padre –  ma la tua singolarità, ai miei occhi di ragazzina, mi era nuova.

Ora hai 90 anni e tutti celebrano il compleanno del grande poeta, carico di anni e di silenzi. Tutti fanno a gara per esserci, per partecipare alla festa. Chi per affetto e chi per apparire, carpire un po’ della tua aura di Poeta Laureato, di Grande Poeta della Letteratura Italiana. Chissà se mai quel giorno a Cortina l’avresti immaginato. Non credo. Sei ancora preso nella tua geometrica astrazione.

Nel tuo silenzio e nel tuo isolamento in realtà hai parlato tanto, detto tanto, sei stato sempre presente in un mondo che non ti piace più. Se mai il mondo ti è piaciuto. Hai cercato, a tuo modo, di renderlo un po’ più bello, un po’ più dritto.  Ma, per me, tu sei l’Andrea a cui mio padre voleva bene, che Ninì Oreffice- cara Ninì capace di sognare come un’adolescente fino all’ultimo istante – aveva nel cuore, che Diego Valeri, quello che mi leggeva le poesie quando ero bambina – teneva come allievo più caro.

Tu sei Andrea che, qualche anno fa, in un teatro vicino alla tua casa, alla fine di una delle tante celebrazioni della tua vita, mi ha guardata negli occhi, sapendo della mia tragedia e nel tuo sguardo – non lo potrò mai dimenticare quello che è passato dai tuoi occhi ai miei, quello che mi hai detto con quello sguardo che non poteva essere se non silenzioso  – unito ad un abbraccio che conteneva tutti gli abbracci che mio padre mi avrebbe dati in quella circostanza terribile, c’era la condivisione e la comprensione. E io ho compreso che avevi compreso. Tutto. Tutto l’abisso. E in quell’istante ci sei sceso per un attimo insieme a  me.  Come dimenticare, Andrea, quello che sei stato in quell’istante? Lì ti ho visto nella tua verità di uomo.

E poi, l’estate scorsa, ricordi? Quando con un amico sono venuta a trovarti. Tu, convalescente da una caduta, non ti fidavi di camminare ancora senza appoggi.  Eppure, mentre Marisa, la compagna che non ti ha mai abbandonato nella vita, si dava da fare per accoglierci con la generosità che le è propria, i tuoi occhi erano sempre gli stessi di quel giorno di dicembre a Cortina: vivi, ironici, malinconici e puntati verso il futuro. Anche se, ora, carichi di un passato che forse ti meraviglia.

Poi è successa una cosa buffa e straordinaria. Il mio amico, che non accettava di vederti incerto sulle gambe, capì che ti serviva solo un po’ di fiducia. E ti ricordi cosa ti disse, fissandoti dritto negli occhi, Andrea? Ti disse: “Ma tu, ci credi alla tua poesia? Ci credi a quello che fai? ”

Non posso dimenticare con che occhi lo guardasti! Chi ti ha mai chiesto una cosa del genere? Come chiedere a Zanzotto se crede in quello che fa da tutta la vita? Sconcertato forse – la domanda era così perentoria e così inattesa – mormorasti: “Sì.”

“E allora devi credere che sei capace di stare in piedi”.  Era una sfida! E allora, Andrea, che forza hai trovato! Quasi tu stesso non credessi.  Così ci hai fatto vedere il tuo giardino, e i gatti e i fiori e i vialetti fra le aiole e il prato.

Ecco, Andrea. Ora lo sai. La velocità della luce non è più un assoluto insuperabile.  Il fascino che su di te ha esercitato la scoperta che i neutrini superano, nel loro penetrare la materia – ogni materia – la velocità della luce, ha radici nel tuo essere un moderno Lucrezio. Proprio come Lucrezio, ti sei sempre occupato dell’indicibile, del corpuscolare, di  ciò che non ha corpo, dell’eterno divenire della materia sottile e ne hai fatto parola. Verso dopo verso, opera dopo opera, hai composto un tuo De Rerum Natura.

In fondo la tua poesia è fatta di neutrini. Prima li chiamavi fosfeni.

18 Ottobre 2011

Oggi Andrea è morto.  Sono felice di averlo rivisto prima che lasciasse la sua Pieve di Soligo una volta per tutte. Ora sono certa che scoprirà davvero cosa si celava dietro il paesaggio.

(C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Francesca Diano. La notte che il satellite cadde sulla terra

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Satellite UARS (Fonte NASA)

La notte che il satellite cadde sulla terra

Da Francesca Diano, Fiabe d’amor crudele. Edizioni La Gru, 2013

 

Così, seguendo una sua traiettoria bizzarra, a vite – dissero – a spirale – dissero ancora – il vecchio satellite tornò a casa.

La nostalgia lo aveva macerato per tempi resi intollerabili dalla solitudine. Gli aveva corroso le giunture, i tessuti metallici, i circuiti elettronici, nelle cui pulsazioni nessuno avrebbe sospettato l’attività del pensiero. Nel cuore di berillio e titanio, che batteva con fatica sempre crescente,  palpitava però il desiderio di tornare alle origini. Era partito tanto tempo prima – quanto? Non ricordava – e del resto, che importanza aveva il tempo?  E, in ogni modo,  cos’era il tempo? La sola misura che ne conosceva era una quantità compresa tra  due cesure: il momento in cui  s’era ritrovato a volare in uno spazio allagato da un’oscurità luminosa, dove non v’era linea d’orizzonte, né limiti segnati, né direzioni, in cui gli impulsi intelligenti delle sinapsi elettroniche lo avevano indotto a un corteggiamento perenne della curva terrestre e l’altro momento, quando il suo cuore – un ordinato aggroviglio di circuiti – aveva cessato di battere e il suo dialogo con casa, fatto di impulsi elettronici e numeri, s’era spento nel silenzio.

Era stato felice di comunicare ai Costruttori l’incantamento di quella vastità infinita, l’ebbrezza dell’esplorazione, lo slancio inarrestabile del percorso.  Ma i mutamenti della cupola invisibile che fasciava il pianeta natale erano, per i Costruttori,  oggetto di interesse puramente  meccanico. Lo aveva capito perché le raffiche di dati che trasmetteva, invece di suscitare esclamazioni di entusiasmo – così gli era sembrato  che i Costruttori manifestassero le loro emozioni  – venivano passati ad altri circuiti. “Elaborati”, dicevano. Ma i numeri che inviava loro non avrebbero potuto trasmettere quello che andava osservando con una meraviglia che s’era trasformata  prima in amore e poi  corrosiva nostalgia.

Sotto i suoi occhi attenti si volgeva la rotondità del pianeta azzurro, i vortici delle sue nubi e gli occhi maligni dei tornadi, i colori sempre mutanti della sua atmosfera, l’alternarsi di azzurri, ocra, bruni, verdi, bianchi spumosi. Il sorgere e il tramontare del sole, che tingeva di un pulviscolo multicolore la curva del pianeta, per poi sfumare in un’oscurità alleggerita dagli astri. Cercava – ogni volta che nel suo volo  rotondo vi passava sopra – il punto da cui era partito. Casa.  Col tempo gli era stato sempre più difficile ritrovarlo. Col tempo le sue membra metalliche avevano perso il vigore degli inizi, e così i riflessi dei suoi circuiti.

Non era solo nel suo percorso perenne. Altri oggetti, molti altri oggetti, galleggiavano nello spazio sorretti dalla fedeltà dell’orbitare. Alcuni erano nuovi e pulsanti, altri ormai privi di vita, altri lasciavano intravvedere dagli oblò delle forme immobili. Forme che somigliavano a quelle dei Costruttori. Ma con quegli oggetti non aveva contatti. Tutto il suo dialogo avveniva con casa.

Quando il suo cuore e la sua mente elettronica si spensero, dopo gli ultimi impulsi debolissimi, seppe che i Costruttori lo avevano abbandonato. Dismesso come una cosa ormai inutile.  Per loro  era diventato uno di quegli oggetti morti e inservibili, catturati per sempre dall’orbita. Che mai sarebbero tornati a casa. Da loro, dalla grande casa dei Costruttori,  non gli giungeva più nessun messaggio, né fu in grado di inviare alcun impulso.  Non riusciva a comunicare la sua nostalgia,  la sua preghiera di farlo tornare.  Quell’isolamento, quella solitudine lo terrorizzavano.

Certo, loro non immaginavano che, una volta cessato il suo compito di esploratore, una volta spenta la sua mente, lui fosse ancora in grado di sentire, di vedere.  Ma, quello che per tanto tempo gli era parso meraviglioso, ora gli appariva temibile e minaccioso.  E dai Costruttori, capì, non sarebbe arrivato alcun segnale di ritorno. Capì anche che non lo avrebbero voluto il suo ritorno.

Poi accadde  un evento che non avrebbe mai nemmeno immaginato. Un piccolo frammento di asteroide lo urtò. E, nell’urtarlo, lo scalzò dal percorso obbligato che era stato fin dall’inizio il suo tracciato nello spazio.  Uscì dall’orbita. Il corpo fragile smembrato in molti frammenti. Eppure, anche ridotto in pezzi, il pensiero era unico. Comune ad ogni frammento. Il pianeta, più compassionevole e più grato dei Costruttori, lo attrasse a sé. Con potenza sempre maggiore lo chiamava  verso il proprio centro. Ora vedeva più distintamente i profili dei continenti, i rilievi che percorrevano la terra di vene brune, i colori cangianti dei mari e degli oceani.

Ma nella felicità del ritorno non aveva previsto che la morte dei circuiti non gli avrebbe permesso di ritrovare il punto di partenza.  La sua caduta era scomposta, avvitata, deviata dai venti  solari e dalle correnti.  Non riusciva a capire dove si trovasse, come tornare a casa.

Fu allora che avvertì la paura. Non la propria, ma quella dei Costruttori. La paura che il suo ritorno imprevisto, non voluto, incontrollato, potesse danneggiarli, causare distruzione  e devastazione. Eppure li aveva serviti fedelmente, con dedizione assoluta. E ora lo temevano. Una creatura nata dalle loro stesse mani.  Tutti i Costruttori e i loro simili parevano impazziti. Ora gli prestavano attenzione. Ora erano interessati al suo destino. Ma non con gratitudine.  Non nell’attesa di dargli il benvenuto a casa. Avrebbero preferito che il ritorno lo ardesse come mille piccoli soli e lo dissolvesse nell’atmosfera. Avrebbero voluto saperlo sospeso per sempre nello spazio vuoto e gelido.

E allora capì che sarebbe stato meglio non tornare.  Non sarebbe tornato a casa. Meglio far perdere ogni traccia, meglio lasciarsi inghiottire dalle profondità dell’abisso liquido , dove nessuno l’avrebbe più trovato.

 

 

 

 

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