Intervista a Giorgio Linguaglossa a cura di Matteo Chiavarone

 

Giuseppe Pedota, Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea (2012, CFR Editrice)

 

Pubblico volentieri sul mio blog l’intervista che Giorgio Linguaglossa ha rilasciato a Matteo Chiavarone.

Nel suo lungo percorso di conoscenza e analisi della poesia italiana moderna e contemporanea, Linguaglossa, critico militante, poeta lui stesso e autore di saggi dal linguaggio graffiante,  onesto e diretto,  svincolato dalle tante patrie fratrie, ha offerto gli strumenti per una visione più limpida  della produzione poetica italiana.  Non  servile e non asservita alle dinamiche del potere letterario ed  editoriale. 

 La sua è dunque, e ovviamente deve esserlo, una critica dissacrante in molti casi. Ma è una dissacrazione che spalanca porte e finestre di una stanza angusta e polverosa, dove si respirava a fatica. Con lui si può essere o meno in accordo, ma gli si deve riconoscere il coraggio di porsi al di fuori e di farlo con strumenti critici ed ermeneutici solidi, efficaci, mai scontati.

Francesca Diano

Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea di Giuseppe Pedota (CFR, Piateda, 2012 pp. 120 € 13,00).

Intervistiamo Giorgio Linguaglossa, curatore della collana di saggistica della casa editrice CFR che ha appena pubblicato il volume Dopo il moderno. Saggi sulla poesia contemporanea, raccolta degli appunti critici di Giuseppe Pedota, composti dal 2005 al 2010.

Buongiorno, grazie per l’intervista. «Dopo il Moderno»: di che si tratta? Perché riproporre questi testi di Giuseppe Pedota?

 

L’ho già raccontato: tanto tempo fa, a metà degli anni Novanta con il «Manifesto della nuova poesia metafisica» uscito sul quadrimestrale di letteratura «Poiesis» nel 1995 (altra rivista auto finanziata dal sottoscritto), io e Giuseppe Pedota abbiamo stipulato un patto con noi stessi, cioè che avremmo scritto (a torto o a ragione) quello che pensavamo dei libri di poesia che leggevamo.  In quel torno di anni però ci siamo resi conto che non potevamo semplicemente scrivere delle poesie senza impegnarci anche sul terreno di una «nuova critica» (militante), perché quella «nuova critica» avrebbe anche chiarito i legami  che la collegavano alla «nuova poesia» degli anni Novanta.  E così è accaduto che «Poiesis» è stata il terreno di cultura di una nuova sensibilità e una palestra della «nuova critica». Ebbene, a distanza di venti anni si può dire che io e Giuseppe Pedota siamo rimasti degli isolati. Siamo stati sconfitti? Può darsi, anzi sicuramente siamo stati sconfitti ma ci sono anche delle vittorie di Pirro, non tutte le vittorie portano dei vantaggi né tutte le sconfitte solo svantaggi. La vittoria del minimalismo romano-milanese era ampiamente prevista. È stata una vittoria incontrastata. È stata una valanga che ha travolto e seppellito ogni resistenza del pensiero critico. Ma oggi, a distanza di venti anni, possiamo seriamente affermare che la vittoria del minimalismo romano-milanese corrisponda ai reali «valori» della poesia italiana?  L’intento di Pedota è stato appunto quello di aver posto in discussione il dogma secondo cui quello che fanno gli Uffici stampa dei grandi editori rispecchi i reali valori della poesia italiana. Per certo, Pedota è rimasto fedele a se stesso, non si è mai pentito di quell’antico patto di fedeltà che aveva stipulato con se stesso.

 

Chi è per lei Giuseppe Pedota? Che rapporto aveva con questo artista così poliedrico e anticonformista?

All’epoca, parlo alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe Pedota era un intellettuale disorganico e isolato, un pittore che aveva smesso di dipingere quadri da almeno un ventennio e un poeta che aveva cessato di scrivere poesie da almeno un ventennio quando ci siamo incontrati e conosciuti per il tramite di un poeta romano, Leopoldo Attolico. Ritengo che il lavoro di critico e di poeta di Giuseppe Pedota abbia un valore inestimabile per i giovani e per chi voglia davvero capire che cosa accadeva (ed è accaduto) dietro e sotto la superficie patinata della collana bianca dell’Einaudi che pubblicava i testi dei minimalisti (da Patrizia Cavalli a Valerio Magrelli e adesso i post-minimalisti come la Gualtieri). Dal punto di vista della collana bianca dell’Einaudi Pedota è un autore dimenticato e rimosso? Io ritengo che la poesia e gli scritti critici di Pedota parlino una lingua molto chiara e cristallina. C’è stato anche qualcuno che ha tentato di dimenticare in fretta dicendo che in questi ultimi trenta anni non c’è stato nulla di nuovo nella poesia italiana (Maurizio Cucchi). Ovviamente, le cose non stanno così.  Lo ripeto ancora una volta, né io né Pedota siamo nati con la camicia di «critico» ma ci siamo  sforzati di pensare come «critici» perché ritenevamo che i tempi richiedessero da noi un impegno «critico» che non potevamo deludere né eludere, pena la nostra capitolazione intellettuale (ed etica, che poi è la stessa cosa). Lo sforzo critico del libro di Pedota è diretto verso i giovani (non contro i giovani), sono i giovani che debbono ereditare l’esempio e le tesi dei suoi lavori critici, sono i giovani che devono ricevere il testimone. Il messaggio di Giuseppe Pedota è rivolto ai più giovani affinché essi riprendano a pensare con la propria testa e non si facciano intimidire dalla minaccia del castigo dell’isolamento (diretto e/o indiretto) o altro. Ritengo che anche in letteratura occorra avere coraggio, il coraggio delle proprie idee, altrimenti si finisce tutti nella melassa epigonica di coloro che scrivono come vogliono gli Ottimati. Se io, e altri come me, Ennio Abate, Giuseppe Pedota facciamo della critica è perché questo è un lavoro che riteniamo ineludibile, necessario.
Certo, anch’io ho dovuto pagare un certo prezzo per questa mia libertà di critico. Degli esempi? Bene ve lo dirò: ho proposto negli ultimi tempi dei miei scritti a LE PAROLE E LE COSE a LA NAZIONE INDIANA e a LA POESIA E LO SPIRITO che sono stati passati sotto silenzio; alcune riviste come «L’immaginazione» si sono rifiutate, a priori, di recensire libri che avevo scritto io perché, è stato detto, avevo osato criticare autori come Cacciatore e Sanguineti. E la lista potrebbe continuare. Ma nel nostro povero paese tutto ciò è diventato normale: non c’è più la censura del regime ma c’è la censura degli epigoni degli epigoni che è occhiuta e salace quant’altri mai.

 

Per chi è stato scritto questo libro? Qual è il suo pubblico ideale?

 

Il pubblico ideale del libro di Pedota sono i giovani, coloro che vogliono capire qualcosa della storia d’Italia attraverso la storia della poesia contemporanea.  

 

Che cosa si intende per “moderno” parlando di poesia?

 

Oggi, nel Moderno dispiegato parlare di poesia o di «critica militante» rasenta la blasfemia. La tesi forte da cui parte Pedota è che negli anni Sessanta la poesia italiana ha imboccato la via del «riformismo moderato» inaugurata da autori come Giovanni Giudici con La vita in versi (1965) e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani, ed ha camminato per quella via accumulando un ritardo storico rispetto alle esperienze poetiche che intanto si erano fatte (e si facevano) in altri paesi. La verità è un’altra, la spina dorsale della poesia del secondo Novecento è costituita da poeti come franco Fortini, Angelo Maria Ripellino e Helle Busacca. E mi chiedo: è consentito capovolgere le «verità» acquisite? È lecito porsi delle domande? È lecito chiedersi  come è accaduto che in Italia si sia instaurato un consenso (un conformismo di facciata) su un tipo di poesia assolutamente elitaria scritta per i professori di linguistica e di glottologia come quella di Zanzotto? E perché questo è accaduto? Come è accaduto che un poeta intraducibile e incomprensibile con il suo sperimentalismo idiolettico è stato recepito come il maggior poeta italiano? Il libro di Pedota si pone delle domande, domande inquietanti, domande scomode. Pedota legge la poesia di Antonio Riccardi, di Maurizio Cucchi, di Mario Benedetti e si chiede: come mai il «reale» sfugge dalle mani degli esistenzialisti milanesi che vorrebbero catturarlo? C’è una spiegazione a questo fenomeno? E Pedota si pone la domanda finale: Il «reale» sfugge alla poesia italiana? E perché? Perché la poesia di Milo De Angelis dopo il suo brillante esordio con Somiglianze del 1980 si è accartocciata su se stessa? E si è isterilita in giochi sintattici e in inversioni di immagini? E Pedota si chiede: perché la poesia dei minimalisti romano-milanesi è diventata una congerie di commenti a luoghi comuni e luogo comune essa stessa? E Pedota si chiede: vogliamo voltare pagina? Vogliamo chiudere, e per sempre, il libro del minimalismo? Domande legittime, mi sembra.
Che Pedota sia un eretico? Ma eretico di che, di quale ortodossia? E chi l’ha stabilita l’ortodossia? Io penso molto semplicemente che Pedota sia un critico che pensa il proprio oggetto: il Moderno, o meglio, ciò che è accaduto nel Dopo il Moderno. Pedota non è mai stato interessato a far da sponda a questo o a quello, i suoi non sono «giudizi» tribunalizi, lui non è un giudice monocratico che emette sentenze, è un essere pensante che esprime valutazioni e argomentazioni.
A mio avviso, un libro come quello di Giuseppe Pedota, se fossimo in un paese serio, intendo se fossimo in un consesso di intellettuali credibili, dovrebbe essere analizzato e discusso; e invece nulla di tutto ciò. È per questo che io ritengo che in Italia gli effetti devastanti della «stagnazione economica, spirituale e stilistica» si propagano a macchia d’olio su tutti gli aspetti della vita associata. Perché? vogliamo dirlo? La poesia è una attività pubblica, che si fa in privato ma si esercita in pubblico. Ma, ovviamente, il luogo pubblico della poesia non coincide con quello del mercato.

 

Questo volume è una carrellata di poeti, più o meno conosciuti. Chi di loro ha avuto meno successo di quello che meritava?

Poeti come Giorgia Stecher (di cui ricordo Altre foto per Album del 1996), Maria Rosaria Madonna (con Stige del 1992), Maria Marchesi (con L’occhio dell’ala del 2003 e Evitare il contatto con la luce del 2005), Chiara Moimas (con L’Angelo della morte e altre poesie del 2003), Laura Canciani (con L’aquila svolata del 1983 e Il contagio dell’acqua del 2010), Dante Maffìa (del quale basti ricordare Il leone non mangia l’erba del 1975, Lo specchio della mente del 2000 e La Biblioteca d’Alessandria del 2006), Luigi Manzi (con Mele rosse del 2004), oltre che lo scrivente, sono tutti autori sotto valutati, direi non solo per svista e incuria ma per una assenza di pensiero critico indipendente.

Peraltro, occorre distinguere il successo editoriale da quello dei lettori e da quello della critica. Il primo è nullo o quasi; il secondo evanescente e illusorio, nel senso che la critica della poesia contemporanea è affondata in un birc à brac pseudo critico letterario, in un gergo tra lo ieratico e lo ierofanico.

 

Riprendo una domanda che sta alla base del saggio finale. C’è una crisi della ragione poetica?

 

È in atto da almeno trenta anni una Crisi della ragione poetica. È incontrovertibile.

La poesia delle nuove generazioni impiega l’arma dell’ironia, fa le capriole, assume pose attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico; l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa di possesso d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato, socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime, assonanze interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il «gioco» tra presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita mistificazione del poeta di corte. Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina». Sono gli indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno. Mentre l’eterna Arcadia italica si esprime «nella lingua della clericatura», nella lingua di uso pragmatico (sempre più periferica e marginale) suonando il plettro delle viandanze turistiche, la migliore poesia dei giovani dell’ultima generazione preferisce esprimersi nell’idioma della propria marginalità assoluta, marginalità linguistica e stilistica che è stata scacciata dai circuiti della produzione-consumo (quel coacervo di superconformismo di una sottoclericatura destinata al servizio di corte): la marginalità della merce riciclata e riutilizzata dell’epoca della stagnazione stilistica.

La gran parte della odierna poesia oggi in voga (una sorta di sub-derivazione del minimalismo), con tanto di sublime nel sub-jectum, scrive in un super latino della comunità internazionale qual è diventato il gergo poetico in Europa (di cui l’italiano è una sub componente gergale). Ma, è ovvio, qui siamo ancora (e sempre) sul vascello di una poesia leggera, che va a gonfie vele sopra la superficie dei linguaggi neutralizzati del Dopo il Moderno: srotolando questo linguaggio come un tappeto ci si accorge che ci sono cibi precotti, già confezionati, da esportazione: non c’è profondità, non c’è spessore, non ci sono più limiti. La leggerezza rimbalza sulla superficie, non ne affronta cause ed effetti drammatici, non c’è indagine della superficialità fino a indagarne e metterne a nudo le profondità.
Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può. C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso lo stile lapidario; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi neutralizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.

 

Cosa ne pensa lei della situazione della poesia oggi? Quanto sta influendo, in bene e in male, la rete nei processi naturali di una forma d’arte tanto complessa quanto la poesia?

 

«Sì, la scacchiera va buttata per aria», sono d’accordo con Ivan Pozzoni e Francesca Tuscano, forse la rete può servire ma occorrerebbe una miccia come quella che ha innescato la catena delle rivoluzioni maghrebine  ma per far ciò occorre un «pensiero critico», occorre riscrivere le «regole minime» per la lettura di una poesia. Lei mi chiede qual è la prima delle regole minime? Le rispondo: l’onestà intellettuale (molto più importante di quella monetaria). Lei mi chiede che cos’è un «pensiero critico»? Le rispondo: sembra di parlare di ircocervi in scatola! Dove si trova? Negli Almanacchi? Nelle innumerevoli Antologie auto promozionali? Nelle riviste auto promozionali?
Sì, dobbiamo uscire anche dal pathos dell’autenticità del pensiero militante (ormai storicamente tramontato) e prendere atto che il mondo della chiacchiera letteraria è consustanziale al mondo della chiacchiera poetica; nella misura in cui la poesia È FUORI MERCATO, essa, la poesia corrente è anche fuori della storia, abita il presente, il presenzialismo, la fugace visibilità, la performance; è diventata fluida, liquida, elusiva, esclusiva; il senza-espressione (o l’intensificazione forsennata dell’espressione) tende a prevalere sulla formulazione di un discorso poetico organizzato sulla finalità della conoscenza dell’oggetto.
Non mi meraviglia che la poesia corrente sia finita FUORI MERCATO; se ciò è accaduto è perché il livello qualitativo della poesia corrente (quella proposta dai Grandi Editori) è stata ed è terribilmente basso. Si pubblica per ragioni di contiguità, di affinità e di visibilità accademico-mediatica. Ma andando per questa via in discesa, abbassando sempre di più il livello qualitativo della poesia proposta, si è giunti al punto di non ritorno: non è più possibile scendere più in basso, abbiamo toccato il punto più basso dagli inizi del Novecento, ed i lettori si sono rivolti altrove. Inoltre, la poesia corrente è sempre più idiolettica, auto esasperata, impreziosita di ologrammi e di fantasmi, posticcia, falsa come una moneta falsa e la puoi sentire dal tinnire fesso della sua materia. In queste condizioni che fare?
Pubblichiamo di meno. Anzi, come qualche tempo fa scrisse Luigi Manzi, non pubblichiamo affatto, facciamo una serrata di 10 anni non pubblicando alcun libro di poesia! Sarebbe già qualcosa. Ma, ovviamente da solo questo non basta. E bisogna ritornare a mettere in onda un «pensiero critico» applicato alla poesia. Non c’è altra strada, credo.

 

Nella foto, Giorgio Linguaglossa

P.O.D. La clausola da non accettare mai

The Printing of Books
Agli inizi dell’anno scorso è capitato a mia figlia di dover stampare due o tre copie di un suo lavoro scientifico e poiché sapeva di siti americani che offrono questo servizio per una cifra molto ragionevole, se ne è interessata. La stampa della sua tesi infatti era stata piuttosto costosa e non aveva senso spendere di nuovo quei soldi. Abbiamo valutato siti come Lulu che si presentano come POD (Print on Demand), cioè stampa su richiesta, o su necessità stampano anche una sola copia per pochi euro e rilasciano un codice ISBN.

Questo tipo di stampa digitale infatti è molto più conveniente, rispetto all’offset, se si ha necessità di un numero molto limitato di copie, diciamo quattro o cinque, o anche di una sola. All’estero è usato diffusamente per pubblicare opere accademiche o persino da editori che non desiderano tenere troppe copie in magazzino di opere magari di pregio ma di non grande diffusione e dunque a bassa tiratura. Nulla di strano quindi.
Poi ci siamo accorte che esisteva una versione italiana di questi siti americani e che la spedizione sarebbe stata più rapida. Parlo de ilmiolibro.it.

Me ne sono interessata, perché anche io avevo necessità di stampare qualche copia di un mio lavoro e ho scoperto un intero mondo. Il sito, che appartiene al gruppo L’Espresso, e ha come slogan la massima “Se l’hai scritto va stampato”, offriva questo servizio di stampa, ma con una serie di servizi editoriali supplementari, sia gratuiti che a pagamento.

Gratuiti erano un profilo con tanto di foto e telegrafico curriculum, una sinossi dell’opera, un certo numero di pagine di anteprima della stessa leggibili pubblicamente e la possibilità di recensire e votare opere altrui. In questo ultimo caso, la recensione veniva inserita in homepage con il profilo del recensore e l’accesso diretto alle sue opere. Dunque un modo di offrire visibilità sia al recensore che al recensito. Inoltre, sulla homepage comparivano continuamente i nuovi autori iscritti e le nuove opere.
A pagamento invece era il servizio di vendita dell’opera, nel senso che l’autore poteva, oltre a ordinare anche solo una copia del testo per sé, metterlo in vendita pubblicamente sul sito. In questo caso il sito versava all’autore una cifra che è il prezzo di copertina fissato dall’autore meno il prezzo di stampa e una percentuale trattenuta per ogni copia venduta che mi pare vada da 0,8 a 0,36 centesimi. A pagamento  era l’inserimento dell’opera in Feltrinelli.it, dove dunque si poteva vendere il libro o si poteva anche ordinarlo di persona presso una libreria Feltrinelli. A pagamento (non pochi spiccioli) anche la pubblicità dell’opera presso i siti del Gruppo Editoriale L’Espresso.Ovviamente, per stampare (e non pubblicare, come qualcuno, dato l’impianto dell’intera operazione, potrebbe erroneamente intendere) un testo qualunque, tutto il lavoro di impaginazione va fatto dall’autore usando un template da loro offerto. Ma se non si è esperti di questo tipo di cose, il risultato è orripilante e illeggibile. Inoltre è necessario fare l’editing da sé e tutto questo può andar bene se uno è del mestiere (come nel mio caso), ma non se non si ha la più pallida idea di cosa sia un editing e una correzione di bozze. Motivo per cui  si può leggere di tutto  nelle anteprime delle opere in vetrina. Errori grammaticali e sintattici, storie assurde, struttura e stile assenti… ma, a dire la verità, anche alcune buone cose, in particolare se gli autori sono comunque già del mestiere. Insomma, di tutto. Al contempo sono presenti molti testi di taglio accademico o tecnico che vengono messi in vendita da docenti per i loro corsi, sia universitari che di vario altro tipo e in genere sono ben fatti.

C’è da dire che non vedo nulla di male nello stamparsi da soli cose che si sono scritte, se si ha la consapevolezza che solo di stampa si tratta e non di pubblicazione con un editore. Il sito gioca un po’ con questa ambiguità.

Dunque, chi è già un autore, con esperienza e capacità di scrittura, stamperà per pochi euro anche solo una copia del proprio lavoro, e potrà metterlo in vendita, se lo vuole mettere in vendita,  come meglio crede senza investire nulla di più, perché non avrà problemi di copie da acquistare e lasciare invendute. Diverso è il caso di chi ritenga di poter diventare o essere scrittore solo vedendo stampato ciò che ha scritto senza alcuna competenza o esperienza.
Dunque, qualcosa di  ben lontano dal “se l’hai scritto va stampato”.
Visto però lo sviluppo che una tale cosa può avere nel nostro paese di santi, navigatori e poeti, nell’operazione entra anche la Scuola Holden, come si legge dal seguente annuncio del sito:«Tanti strumenti che rendono la tua opera sempre più qualificata: corsi di scrittura e valutazione testi in collaborazione con Scuola Holden, oltre 10.000 foto dall’archivio fotografico Corbis per rendere la tua copertina ancora più bella, preziosi suggerimenti per promuovere il tuo libro. E in più, la possibilità di aggiornare la tua opera in tempo reale, perché il tuo libro cambia con te.»

La Scuola Holden ha scoperto una miniera d’oro dunque, poiché offre alla pletora di gente, convinta che basti il “Se l’hai scritto va stampato” a diventare scrittori (magari con risultati improponibili), corsi di scrittura che potranno aprirsi a un mercato assai maggiore di potenziali “scrittori”, oltre a servizi di editing e valutazione. Tutte cose che esulerebbero da un semplice servizio di POD e si avvicinerebbero di più a quelle agenzie che pullulano sul web, che offrono servizi di lettura, editing, valutazione testi e contatti con editori, mascherate da agenzie letterarie.

Per incentivare l’affluenza, sono stati organizzati dei concorsi e una serie di iniziative con la pubblicazione come premio o la segnalazione della Holden.

C’è da dire che ilmiolibro.it non offriva fino a poco tempo fa il codice ISBN (particolare di cui mi sono resa conto più tardi) e dunque in teoria non sarebbe stato  possibile mettere in vendita il libro stampato, né sul sito, né su altri siti del Gruppo L’Espresso, come loro dicevano. Ma questo, sul sito, si guardavano bene dal fartelo sapere! Evidentemente di recente si sono accorti che questa cosa non era sfuggita a molti e di recente si sono attrezzati a offrire a pagamento, ovviamente, un codice ISBN. Tuttavia, chi volesse acquistare tale codice (che chiunque  può acquistare a sole €45 più IVA sul sito ISBN stesso) e non è iscritto (a pagamento) al servizio di inclusione sul sito de LaFeltrinelli, deve pagare  per entrambi. Il costo è di €79 più IVA.  Non si può scegliere di acquistare solo il codice ISBN.

Insomma, l’atteggiamento poco chiaro che fa credere come un semplice lavoro di stampa trasformi chi scrive in uno scrittore, nasce da tutta una serie ricchissima di eventi, iniziative, offerte, dichiarazioni, appelli, tra cui questa dichiarazione che si commenta da sé:

«Ilmiolibro è uno strumento per pubblicare un libro alternativo e rivoluzionario rispetto al ricorso ad un editore. Permette ad un autore di pubblicare un libro, restando titolare del copyright ed averne il pieno controllo creativo. Permette margini di guadagno ampiamente al di sopra della media del mercato editoriale. Permette a un autore di confrontarsi con i lettori come quasi mai accade nell’editoria tradizionale. Riteniamo che sia molto raro che un editore tradizionale possa rispondere alle esigenze di un autore meglio di quanto faccia ilmiolibro.it. Tuttavia ilmiolibro non è a priori contrario ai sistemi di pubblicazione tradizionali, a patto che siano vantaggiosi per gli autori che li scelgono. Crediamo che ci siano alcuni casi in cui un editore possa dare ad un libro una distribuzione più ampia e valorizzare un titolo e per questo motivo in alcuni casi possiamo decidere di esercitare azioni ed interventi per favorire il contatto tra gli autori ed editori interessati ad investire in modo serio, e senza costi per l’autore, nella valorizzazione di un’opera nata e scoperta sul sito. Ilmiolibro vuole essere il principale punto di riferimento italiano per gli scrittori, dando loro possibilità di emergere sul sito attraverso una pluralità di percorsi, strumenti e progetti.»

Io, lo sapete, non ho simpatia per il sistema editoriale italiano, non per presa di posizione, che sarebbe stupido, ma per i miei 30 anni di esperienza concreta in questo campo. Devo anche aggiungere che negli ultimi anni l’industria editoriale italiana è peggiorata in modo inimmaginabile, seguendo del resto gli altri mutamenti del paese. Ignoranza, arroganza, faziosità, poca educazione dilagano. Né mi verrebbe mai in mente di dire che un libro pubblicato da un editore, pur importante, abbia un qualunque valore solo per questo. Anzi. Visto cosa si pubblica e perché. Però, quando leggo parole come quelle succitate, dopo la risata mi viene anche il nervoso: “Ilmiolibro non è a priori contrario ai sistemi di pubblicazione tradizionale”… E ci mancherebbe pure! Per non parlare del fatto che loro eserciteranno in alcuni casi “azioni e interventi per favorire il contatto tra autori e editori interessati”. Il che farebbe pensare che questo si presenta come qualcosa di ben altro che un semplice servizio di POD.

Un altro aspetto antipatico del funzionamento di questo sito, è che si è subissati da messaggi di altri utenti che ti chiedono, senza mezzi termini e spesso nemmeno per favore, di scrivere una recensione al loro capolavoro e di dare il tuo voto, convinti che più numerosi saranno i commenti al loro libro, maggiore sarà la sua visibilità. Perché questo viene loro detto, ma la visibilità è solo all’interno del sito, dove il 99% degli utenti va per stampare il proprio libro, non per acquistare quelli degli altri, se non in rarissime eccezioni. Non è il caso di dire che in genere non rispondo nemmeno. Ma la curiosità mi ha spinta qualche volta a dare un’occhiata all’anteprima di queste opere e invariabilmente erano cose grottesche, spesso infarcite di grossolani errori di ortografia e peggio impaginate. Ed è purtroppo in persone così che si fomentano le maggiori illusioni.

Da parecchio tempo non andavo più sul sito, ma alcuni giorni fa mi arriva una mail in cui mi si dice che qualcuno ha lasciato un commento al mio testo. Ovviamente il mio profilo è sempre lì. Così mi sono incuriosita e sono andata a vedere. Ma mi attendeva una sorpresa:ora non posso più accedere al mio profilo o ad alcuno dei servizi (stampa delle copie ecc.) se prima non firmo questo:

https://login.kataweb.it/registrazione/libri/TerminiContratto.pdf
Vale a dire che nel frattempo il semplice servizio di stampa si è trasformato in una vera e propria impresa che obbliga anche chi in passato si è iscritto senza firmare il tipo di contratto che ora viene proposto (ovvio, si presenta come un servizio di semplice stampa in cui io pago quello che tu mi stampi previa accettazione di alcune regole) a sottoscrivere un contratto-fiume di 23 pagine le cui norme sono imposte unilateralmente. Il che non sarebbe molto corretto né simpatico. Nessuno dovrebbe impedirmi di accedere a un mio account modificando le regole iniziali. Nella loro definizione di “Vetrina personale” (l’account) al punto 1, si parla di “Utente Registrato partecipante alla Comunità Virtuale del sito”. E se io non volessi partecipare alla comunità virtuale?

«Per gli Utenti già registrati il presente Contratto si applicherà all’Area Personale Utente, al Contenuto Utente, al Contenuto Utente Messaggi, al Materiale Utente, inclusi i Volumi, e ai Dati Utente, già acquisiti e presenti sulla Piattaforma.»
Ecco dunque come è stato risolto il problema. Con valore retroattivo.

Inoltre si dichiara successivamente che la società potrà modificare in qualunque momento le condizioni, i termini e le modalità di fruizione dei servizi, salvo il diritto di recesso dell’Utente. È probabile che questa clausola fosse già presente all’atto dell’iscrizione, ma ora non posso provarlo.

In genere, quando clicchiamo su “accetto”, nell’iscriverci a un qualche sito sul web, tendiamo a non leggere con attenzione i termini di quello che stiamo accettando. Anche perché è davvero molto raro che ci si trovi nella situazione in cui mi sono trovata io – e probabilmente altri utenti – nel non poter accedere al mio account, perché in genere le modifiche a un eventuale nuovo contratto non sono mai così radicali da vietare di accedere al sito se non si sottoscrive un nuovo accordo. Devo dire che è la prima volta che questo mi accade in 10 anni dacché uso il web.

Tuttavia, a questo punto, è di vitale importanza che chiunque si iscriva a ilmiolibro.it legga con attenzione il contratto e lo valuti molto bene, per non trovarsi poi a dover accettare norme con cui non concorda.

Questi sono i punti, nelle attuali condizioni di iscrizione, in cui la Società ilmiolibro.it precisa che potrà limitare o impedire l’accesso al proprio account o modificare i termini dell’accordo sottoscritto in ogni momento e in modo (neretto e sottolineature sono miei):


«7. MODIFICA DELLE CONDIZIONI E DEI TERMINI DEL CONTRATTO – MODIFICA DELL’OFFERTA

7.1 – La Società potrà modificare ovvero variare in qualsiasi momento le condizioni, i termini e le modalità di fruizione e di utilizzo di ciascun Servizio, per ragioni tecniche, commerciali e/o aziendali, fermo restando il diritto di recesso dell’Utente previsto al successivo art. 7.2.

7.2 – Le eventuali modifiche delle condizioni e termini del Contratto, ovvero della composizione dell’offerta dei servizi, che comportino variazione sostanziale del presente accordo in termini di limitazione o diminuzione dei diritti dell’Utente, verranno tempestivamente comunicate mediante pubblicazione di avviso all’interno del Sito ovvero mediante messaggio di posta elettronica inviato dalla Società all’Utente con ragionevole preavviso, e ciò al fine di consentire all’Utente di poterne prendere visione e di esprimere il proprio consenso mediante espressa accettazione, a mezzo di posta elettronica o altro mezzo, ovvero di fatto, mediante l’uso del Servizio successivamente alla avvenuta comunicazione delle modifiche ovvero delle integrazioni. L’Utente che non accetterà le modifiche avrà il diritto di recedere dal Contratto. Le modifiche che non abbiano gli effetti sopra descritti potranno essere liberamente apportate dalla Società in forza di un diritto che in virtù del presente Contratto le viene conferito.

7.3 – E’ facoltà della Società inserire nell’offerta di Servizi regolata dal presente Contratto ulteriori e diversi servizi rispetto a quelli sopra elencati. Gli Utenti riceveranno comunicazione degli eventuali servizi aggiuntivi mediante pubblicazione di avviso all’interno del Sito, ovvero eventualmente anche tramite messaggio di posta elettronica, ove saranno resi accessibili e disponibili i nuovi servizi.

8. MODIFICA, SOSPENSIONE O INTERRUZIONE DEI SERVIZI

8.1 – L’Utente prende atto e riconosce che ciascun Servizio è reso accessibile ed offerto dalla Società “as is” e “as-available” e, in generale, senza garanzia di compatibilità ad uno scopo – particolare e non – dell’Utente e, inoltre, senza alcuna garanzia in merito al fatto che ciascun Servizio corrisponda ai requisiti di altri analoghi servizi resi da altre imprese sul mercato e/o alle aspettative dell’Utente, nei limiti in cui ciò non contrasti con le vigenti disposizioni di legge.

8.2 – La Società si riserva il diritto di attivare, modificare, sospendere o interrompere in qualsiasi momento, per ragioni organizzative e/o commerciali, tutti e ciascuno dei Servizi e/o parte di essi, ovvero, comunque, di non autorizzare – a propria insindacabile discrezione e giudizio – l’utilizzo dell’account e/o della password, e ciò senza riconoscimento di alcun rimborso, indennizzo e/o risarcimento all’Utente e senza altresì che ciò produca effetti e/o conseguenze sulla esecuzione e sulla remunerazione dei Servizi di Hosting e di Stampa Personalizzata relativi a Transazioni concluse antecedentemente la modifica, la sospensione o l’interruzione dei Servizi.

8.3 – Resta inteso che la Società non sarà in alcun caso e per alcun motivo considerata responsabile nei confronti dell’Utente ovvero di terzi per la avvenuta modifica, sospensione, interruzione e/o cessazione dei Servizi.»

Dunque, a parte che io non ricordo di aver ricevuto alcuna comunicazione via e-mail in proposito e che da un po’ di tempo non accedevo al mio account, mi sono ritrovata a non aver più controllo sui miei dati personali. E per averlo sono costretta a sottoscrivere un contratto di 23 pagine che mi impegna a fare cose che mi rifiuto di fare. E che, soprattutto, non potevo prevedere – dato che sono state introdotte di recente – al momento della mia iscrizione.

Si ha un’alternativa: disattivare l’account mandando loro una mail.
Non sarebbe stato più ragionevole prevedere due tipi di contratto? Uno, più semplificato, con cui si possano richiedere solo i servizi di POD, e per chi volesse, a pagamento, un secondo tipo di contratto che offra servizi più numerosi e articolati.
Mi chiedo però, come mai per sottoscrivere il nuovo contratto, si ritiene di dover arrivare addirittura a impedire l’accesso al proprio account? D’accordo, la clausola che riguarda la libertà di ogni tipo di modifiche sarà stata presente anche al momento dell’iniziale sottoscrizione, ma se le modifiche fossero ragionevoli e fatte per favorire l’utente più che la Società, perché arrivare a questo?

Ma quello che mi ha lasciata basita è stata la Sezione IV DIRITTO DI OPZIONE (p.22-23 del complicatissimo contratto che ora sono costretta a firmare se voglio accedere al mio account e continuare a usufruire dei servizi):

«DIRITTO DI OPZIONE

17.1 – Per effetto del presente accordo, l’Utente attribuisce alla Società un diritto di opzione sui diritti di agenzia per la pubblicazione del Volume, attraverso qualsiasi canale, che sarà esercitato dalla medesima Società alle condizioni ed entro i termini di cui al comma che segue. La Società intende esercitare tale diritto esclusivamente al fine di promuovere gli autori maggiormente dotati e talentuosi in modo da favorire, per quanto possibile, la distribuzione e la diffusione dei loro Volumi attraverso canali diversi e ulteriori rispetto a quelli 22 di 23 previsti dal presente accordo e coltivare tale opportunità. In ogni caso, anche nel caso in cui la Società dovesse esercitare, alle condizioni di cui al comma 17.2, il diritto di opzione, gli Utenti saranno liberi di negoziare autonomamente contratti di edizione con gli editori di loro gradimento.

17.2 – All’interno della community si svolgono iniziative, rubriche e concorsi che si pongono l’obiettivo di segnalare opere rilevanti anche utilizzando i dati di vendita, i commenti, le recensioni e altre informazioni relative all’interesse della community verso una determinata opera. Nel caso in cui il Volume dell’Utente dovesse essere segnalato come rilevante all’interno di queste iniziative o dovesse essere oggetto di interessamento da parte di terzi nella prospettiva di una possibile pubblicazione, la Società potrà esercitare un diritto di opzione per le attività di agenzia in esclusiva che saranno, comunque, rese in favore dell’Utente a titolo gratuito.

17.3 – Il diritto di opzione sarà esercitato dalla Società entro 6 (sei) mesi dall’avverarsi delle condizioni indicate al precedente comma 17.2.

17.4 – Le attività di agenzia saranno in esclusiva della Società per la durata di 6 (sei) mesi dal momento in cui l’opzione sarà stata esercitata.»

Qui poi siamo ormai nell’assurdo:

«15.20 – Nel caso in cui l’Utente dovesse acquistare i Servizi di cui al presente articolo, egli accetta quale prestazione accessoria al Servizio di Hosting che, al fine di favorire la diffusione dei Volumi e dei contenuti ospitati nel Sito, siano rese disponibili gratuitamente alla Comunità Virtuale, fino a 30 copie del Volume in versione digitale integrale. La Società adotterà ogni ordinaria cautela ed accorgimento tecnico diretto ad impedire la disseminazione di copie oltre quelle previste dalla presente disposizione. Resta ferma l’applicazione dell’art. 10 del presente Contratto. Analogamente, per le stesse finalità, sarà resa costantemente disponibile a tutti gli Utenti, per l’esercizio della sola facoltà di lettura, una porzione del Volume in versione digitale pari al 15%».

Questa clausola è molto interessante, perché affermare che si tratta di una “prestazione accessoria al servizio di Hosting” dà di fatto loro il potere di disporre della mia opera e di diffonderla presso terzi che non conosco, pur non detenendone i diritti (cosa affermataovviamente più volte nel contratto) e mi impone di accettarla, dando ad intendere che si tratta di un favore che io non avevo chiesto.

Dunque, in queste parole si ravvisa già un chiaro superamento del confine tra POD e pubblicazione a pagamento. Giacché nessuno fa nulla per nulla e se la Società si attiva tanto per favorire la diffusione dei volumi ospitati nel Sito, chiaramente gli scopi non possono essere solo a favore dell’utente, visto che nel contratto stesso si afferma che ciascun Servizio è offerto dalla Società “as is” e “as-available” e, in generale, senza garanzia di compatibilità ad uno scopo – particolare e non – dell’Utente” e di seguito “senza garanzia che ciascun Servizio corrisponda alle aspettative dell’Utente”.

A questo punto è importante rilevare che la clausola “as is” (letteralmente: “così com’è”) e “as available” (letteralmente: “nello stato in cui si trova”) ad esclusione cioè di qualunque forma di garanzia, si riallaccia alla normativa europea sulla compravendita fra privati, secondo la quale, includendo tale formula, si esclude ogni garanzia e anche il diritto di recesso. Difatti la legislazione vigente nell’Unione Europea prevede che anche i privati siano tenuti a dare delle garanzie sulla merce venduta, a meno che tale garanzia non sia esplicitamente esclusa al momento della vendita. L’esclusione di garanzia avviene tramite la formula “as is”. Come qui si legge. Ma, appunto, tale norma europea prevede un rapporto tra privati, che io sappia. Questa non è una Società?

Dunque: se non volessi che il mio volume fosse distribuito fra gli utenti? Se non fossi d’accordo? Non ho potere contrattuale e non posso depennare questa, come nessuna altra clausola.

La clausola successiva poi è ancora più assurda:

«15.21 – Indipendentemente da qualsiasi altro e diverso accordo che l’Utente dovesse stipulare con terzi, egli si impegna a mantenere sul Sito, per tutte le finalità previste dal presente Contratto (lettura, commenti, vendita) il Volume per un termine minimo di 10 mesi dall’avvio dal caricamento del Volume sulla Vetrina.»

In sostanza mi obbligano “indipendentemente da qualsiasi diverso accordo con terzi” (mettiamo che un editore acquisti i diritti della mia opera e dunque non è il caso di tenerla sul sito, anzi, non potrei) a tenere sul sito l’opera per 10 mesi? Va contro i miei interessi se nel frattempo un editore si dimostra interessato a pubblicarmi l’opera.

Ora, mi chiedo: questo è ancora un semplice servizio di POD? Sono libero di scegliere solo un servizio di POD, o devo accettare tutto il pacchetto? O qui stiamo parlando di un vero e proprio contratto con clausole che hanno tutta l’aria di essere vessatorie? Passibile di chissà quante altre modifiche? Quanti di quegli sprovveduti che ora sono o andranno sul sito se ne renderanno conto? Io immagino che la Società in questione, data la mole immane di futuri scrittori che si è trovata a gestire e che probabilmente aumentano, si sia non solo messa al riparo da qualunque contestazione, ma abbia visto delle magnifiche opportunità di crescita imprenditoriale, con la “collaborazione” della Holden. In questo caso, tanto di cappello! Forse però è il caso di stare molto, ma molto attenti.

Non sono un legale e non riesco ancora a vedere fino in fondo tutte le implicazioni di questo contratto di 23 pagine (23 pagine?!). Un normale contratto con un editore è di 5-10 pagine al massimo. Qui ce ne sono 23 e tutte fitte.

La cosa non mi piace e mi è parso doveroso segnalare la trasformazione de ilmiolibro da innocua POD a vero e proprio editore a pagamento, con la differenza che prima si pagava solo per stampare le proprie copie sulla base dell’accettazione di alcune semplici (o così potevano apparire) regole, ma da un po’ di tempo a questa parte si è costretti invece a firmare un accordo vincolante e capestro se si vuole accedere a qualunque servizio o seguitare a usufruirne.

(C) 2011 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Il presente articolo è stato precedentemente  pubblicato sul sito di Scrittori in Causa

 

 

Lo stato dell’arte: rete e letteratura.

Pile of Books

Mi diverto da un po’ a seguire  le discussioni che si svolgono su vari siti letterari italiani presenti in rete, spesso senza intervenire, spinta dalla curiosità di capire se la libertà offerta dal mezzo possa riflettere un panorama più respirabile di quello a cui è stata ridotta la cultura italiana.  Mi sembrava che almeno in rete si manifestasse una vivacità intellettuale che  al di fuori è assente, almeno da noi.  Vivacità che è il frutto di una maggiore libertà di voce, di voci, non mediate dalla stretta mortale delle varie lobbies culturali, gemmazioni delle lobbies politiche, che ingessano  il nostro paese.

L’immobilismo dinosaurico, nella politica, nella vita sociale, nella cultura – insomma ovunque- a cui assistiamo apparentemente impotenti da tempo non è cosa nuova per noi.  E’ un habitus lungamente testato e, nei suoi scopi e risultati, vincente. Un meccanismo bene oliato di cui sarebbe interessante tracciare una storia di taglio antropologico. E’ da sempre la politica che la Chiesa, un’istituzione di dinosauri benedicenti, ha insegnato a un paese che ha l’ha imparata e riprodotta come nessuno.

Come dice Leopardi, agli italiani manca il concetto di “società”, dunque dell’individuo come unico responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte e dell’impatto che quelle azioni e quelle scelte possono avere sul tessuto sociale, che è poi quello in cui egli stesso vive.  Così – pur avendo noi l’immeritata  fama di essere degli individualisti – si rende necessario l’aggregarsi a un qualche gruppo che possa non solo proteggere l’individuo, ma avvalorare la direzione delle posizioni che assume. In realtà, l’individuo conta poco e corre grandi rischi nel muoversi da solo. E’ il vaso di coccio tra vasi di ferro trasportati sul carro traballante. L’elemento estraneo, sospetto, da estromettere perché non disturbi la compattezza del gruppo.

Allora ecco la necessità, iscritta nel DNA di questo paese, delle cricche, delle consorterie, delle conventicole, dei gruppi e dell’idea che tutto, assolutamente tutto debba avere un senso politico e, soprattutto, che tale senso sia quello di una realtà binaria. Un o/o.  Una corsa all’esclusione che genera una serie infinita di inclusioni, di recinzioni ben protette.

Analogamente, risulta impensabile  considerare le cose  in termini di libertà individuale. Essendo la struttura psicologica quella del gruppo chiuso – l’Italia non è mai uscita dalla struttura feudale –  non riesce possibile credere che qualcuno sfugga al giochetto (rassicurante, perché evita la necessità di capire ciò che non si conosce) di ritrovarsi addosso appiccicata un’etichetta di un qualunque tipo. Non c’è straniero che non si meravigli e si capaciti nello scoprire che, in qualunque campo non politico – scienza, letteratura, arte, filosofia, psicologia, meteorologia,  o quel che vi piaccia. – da noi sia necessario bollare con un’etichetta politica l’individuo di cui si parla. E’ di destra o di sinistra? Come se davvero esistesse più una destra o una sinistra. C’è persino chi ancora parla di marxismo… che tenerezza.

Proprio nel paese in cui la politica è la più corrotta, lurida, ostentata  pratica volta solo all’arraffo personale, di tutto il mondo civile, si pretende di ridurre a politica o di ravvisare risvolti politici in ciò che proprio non può o non dovrebbe esserlo.

Certo, che la letteratura sia, come qualunque altro fenomeno culturale, figlia della visione del mondo che la produce e che dunque ne segua i moti e le direzioni, è talmente ovvio da non aver bisogno d’esser detto. E se, le culture si riverberano nelle società, ciò che fa quelle società è anche la direzione politica che le segna. Ma, la politica di un’epoca o di un paese in quell’epoca, è comunque uno degli aspetti di quella data visione del mondo.  In questo senso, essendo i fenomeni culturali frutto delle specifiche visioni del mondo, non c’è aspetto di una società che non sia profondamente connesso a tutti gli altri.  Dunque, i fenomeni culturali, sociali, economici e politici non possono essere considerati isolatamente per essere compresi.

In questo senso, non c’è fenomeno culturale che non sia anche politico, economico, sociale ecc.  Ma non è che la politica ne sia la sola ed esclusiva chiave di lettura, come in molti casi si vorrebbe fare. Mi pare un taglio stalinista.

Così ho imparato da una serie di sedicenti o supposti critici militanti, molto attivi in rete, nelle case editrici e negli atenei, ( o legati tra loro o nemici giurati gli uni degli altri) che la letteratura è e non può che essere politica. Non mi è stato facile capire sempre di che stessero parlando negli infiniti commenti ai loro aggiornatissimi post, perché a un certo punto, tra paroloni, involutissimi periodi sintattici, ripetute citazioni da superatissimi maîtres à penser francesi (ancora di moda solo tra una certa genia di accademici italiani della cosiddetta generazione TQ) e qualche loro epigono americano, mi perdevo come Cappuccetto Rosso nel bosco.

Pare che tra i nostri critici letterari militanti (e che siano militanti lo si capisce dalle bombe carta di cui sono armatissimi) vadano per la maggiore francesi e americani radical-chic come padri ispiratori del pensiero critico. Ignorano – a parte alcune rare eccezioni –  tutto quello che avviene nel resto d’Europa e del mondo. Tanto che Francia e Italia si scambiano il fior fiore dei loro intellettuali e filosofi influenti. Noi ne abbiamo esportata una che, filosofa considerata oltralpe pare mente tra le più influenti non so se di Francia o del mondo, scrive profusamente sulla condizione femminile (e non solo ) in un tripudio dell’ovvio e del qualunquismo rosato degno della migliore rubrica di cuori solitari. Però, essendo comunque donna, non l’ho vista molto citata in questi blog letterari, se non in quelli tenuti da donne d’assalto, molto attive al pari dei loro colleghi maschi.

Se poi tra loro interviene qualche intellettuale (parola  e funzione desueta pare) con le idee più chiare, che usa un linguaggio chiaro e piano e parla di cose concrete usando il buon senso, lo massacrano. Confermando, di fatto, che la critica letteraria da noi, di stampo accademico e non, ben lontana dall’occuparsi di esegesi del testo, o di ermeneutica (usiamo pure, per darci un tono,  un termine che spesso ricorre in questi ambienti) seguita ad essere quella che è stata da un po’ più di un secolo a questa parte: un accapigliarsi dei parenti sul cadavere.

Ma, in tutto questo, il cadavere, la letteratura in Italia dov’è? Ma è chiaro. La Letteratura da noi è il prodotto di una generazione di giovani che vanno dai circa 25 ai 40 o giù di lì anni, (sono prevalentemente maschi, le donne sono in minoranza, come ovunque in Italia)  molto attivi sia in rete che nelle case editrici che su riviste letterarie e sulle rubriche letterarie dei giornali à la page e che sparano a zero sui premi letterari e le supermafie dell’editoria che se li spartiscono,  ma ai quali ambiscono disperatamente.  Infatti, quando li ricevono, non li rifiutano.

La loro attività pubblica è così intensa che non è ben chiaro quando scrivano. E’ vero che quando si legge cosa scrivono si comprende che  il prodotto non richiede molto tempo o lunghe applicazioni. Misurano la propria credibilità e il peso delle loro parole dai libri e dai saggi che hanno pubblicato, come se ciò che gli editori italiani pubblicano non fosse per lo più  il risultato di connessioni e intrallazzi lobbistici. Lo sanno tutti, non è una novità. E’ un tale dato di fatto da essere diventato ormai un tòpos, a discapito di qualche raro editore minore che così non fa.

Dichiarano la morte del romanzo ma scrivono romanzi – o tali sono nella loro intenzione – discutono su cosa sia la poesia – che pare sia diventata una cosa indefinibile – ma scrivono poesie – o tali sono nella loro intenzione, affermano che la critica letteraria non si può più  fare se non in termini di militanza e poi non hanno categorie da usare se non le stesse del passato botulinate e siliconate.

Le donne che scrivono (in Italia il trend è opposto a quello del resto del mondo, poiché le donne pubblicate sono in numero molto inferiore  a quello degli uomini, così come quelle che hanno peso nella cultura) sono o fatte a pezzi, soprattutto se vendono molto, o ignorate, o ammesse nel gruppo se sono delle virago molto aggressive e mascoline e dunque fanno loro paura. (Vedi sopra).

Tutto questo, è ovvio, è frutto dell’impressione generale dello stato dell’arte che mi sono fatta leggendo i blog letterari italiani più in che la rete offre.  Non è un’impressione molto edificante, perché, lungi dall’essere usata come spazio di una maggiore libertà e creatività, la rete tende a riprodurre, in questi blog, gli stessi meccanismi che si trovano al di  fuori: aggregazioni, gruppi, sette, conventicole, esclusioni, odi e invidie, rivalità, esibizione di erudizione datata e modaiola allo stesso tempo. Insomma,   un grigiore.

Non è tutto così grigio e squallido.  Le voci libere sono moltissime e alcune davvero interessanti.  Ma è strano che lo sia nei blog letterari che – così loro sostengono – hanno un’autorevolezza maggiore.  Tuttavia il meglio non è dove è più facile vederlo. I diamanti si trovano ben nascosti sotto terra. Bisogna scavare.

(C)by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Tramonti d’Occidente di Emilia Blanchetti.

Tramonti d'Occidente di Emilia Bianchetti. Edizioni Autodafé

Se una coppia di categorie si dovesse individuare per analizzare al meglio la società che  ciò che definiamo Occidente ha creato, questa potrebbe essere frastuono/silenzio o, in alternativa pieno/vuoto o, ancora, caos/ armonia.  L’Occidente, inteso come l’insieme delle culture che lo hanno generato (greca, celtica, cristiana) vive una crisi che si potrebbe forse meglio definire un passaggio.

Noi, figli dell’Occidente, siamo chiamati a una trasformazione – che è il senso della crisi – pur senza saperne vedere al momento i termini o gli strumenti necessari. Sospesi tra un passato che ci ha segnati e ci ha determinati e un futuro di cui nulla sappiamo, se non l’incertezza, non abbiamo più strutture, culturali o mentali per vivere il presente.

E’ ciò che questo romanzo, profondo e all’inizio apparentemente caotico di Emilia Blanchetti, squaderna come un insieme di fili che cercano la loro trama sotto i nostri occhi. L’intreccio, quasi un viluppo, di storie, di personaggi, di situazioni, (frastuono – pieno – caos appunto) all’inizio ti accerchia, quasi ti soffoca.

C’è il proprietario di una casa editrice milanese di successo, figlio di quell’intellighenzia privilegiata che è in apparenza un solido baluardo alla dissoluzione. C’è una badante rumena che cerca, come avviene per tante sue compagne e compagni di destino, di nutrirsi delle briciole di un benessere e di una democrazia che non ha tempo per occuparsi degli anziani e dei malati. C’è una sorta di voce narrante, dal ritmo ondivago, che osserva, commenta e condivide le vicende del suo editore e c’è una giovane islamica, una figlia della vecchia generazione immigrata, che non solo non si è integrata, poiché lo scontro di culture non è affatto sopito, né ha trovato ancora nei figli degli immigrati nati in una nuova patria, alcuna vera integrazione, ma vede nella realtà in cui vive il Nemico da distruggere. C’è un’Italia che, tra Milano, Torino e Roma, fino a luoghi meno opulenti e felici, mostra la trama frusta del suo tessuto.

Attorno a questi quattro personaggi chiave ruota un coro di figure a loro legate e di storie che alle loro si intrecciano, in percorsi molto complessi.

La prima impressione, nel leggere i primi capitoli, è quella di un’umanità brulicante, confusa, nevrotizzata dalle incertezze che ottundono proprio quella qualità che è alla base della cultura occidentale: la ragione.

E’ come se tutti questi personaggi annaspassero in un gorgo che li risucchia e non riuscissero a trovare appigli.

Ma, quello che ciascuno di essi cerca, è il filo che li possa condurre fuori dall’abisso, (il silenzio, il vuoto, l’armonia appunto) senza alcuna certezza di trovarlo. Ciò che rimane è l’istinto di sopravvivenza, il principio oscuro e potente che il disfacimento della civiltà occidentale ha dimenticato, seppellendolo sotto valanghe e slavine di negazione del senso.

Poi, alla fine, il caos, il frastuono, culminano in una tragedia annunciata. Ma è in quell’acme che in realtà si sopiscono e il disegno dei destini individuali si rivela per quello che veramente  è: una sapiente tessitura del destino collettivo.  I protagonisti scorgono infine – almeno alcuni di loro – un barlume di quello che un senso non pareva averlo.

Solo un barlume. Ma la scorgono una scintilla di quel silenzio, di quel vuoto, di quell’armonia che l’Occidente pare abbia perduto.

Emilia Blanchetti è un’esperta di comunicazione ad alti livelli e questa sua competenza si vede nel modo in cui riesce a “domare” un materiale complesso, inizialmente caotico (o così appare), come quello che forma le fondamenta sotterranee del suo romanzo.  L’Italia confusa e dai confini così labili (confini ideologici e culturali, non solo geografici) e permeabili c’è tutta in questo romanzo intenso e sapiente.

(C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

IL CORVO di Edgar Allan Poe, tradotto da Francesca Diano

The Raven. Gustave Doré

Oltre ad essere quello scrittore di incredibile ingegno e genio, uno dei maggiori sperimentatori, dei maggiori rivoluzionari della letteratura di tutti i tempi, Poe  è  – come già dal suo nome in certo senso preannunciato – uno dei maggiori poeti americani e non solo americani. Un poeta che ha percorso vie ancora ignote, che lui stesso s’è tracciato, scrivendone nei suoi saggi, The Rationale of Verse, The Philosophy of Composition ( saggio in cui Poe analizza in modo puntuale la composizione di The Raven e la tecnica e teoria della composizione letteraria)  e The Poetic Principle.

Poe ha condotto ai suoi confini estremi l’idea, in realtà molto antica, che la poesia sia inscindibile dalla musica, stabilendo che sia musica essa stessa. La poesia è musica e il suo significato è  quella stessa musica.

La via nuova, la grande rivoluzione poetica che Poe operò nella poesia, non fu battuta dai suoi contemporanei americani, ma arrivò come un tuono all’anima di Baudelaire, suo primo e grandissimo traduttore, che fu preso da un amore totale e assoluto per questo genio infelice e tradito dai suoi contemporanei.  Cosa poi questo significò per Baudelaire e quale seguito ebbe nella scuola dei Decadenti francesi ed europei è noto. Rimando alla lettura del meraviglioso saggio che Baudelaire scrisse su Poe. Quel saggio famosissimo. scritto nel 1852, che così inizia:

“Di recente, fu tradotto dinanzi ai nostri tribunali un infelice la cui fronte era illustrata da un raro e singolare tatuaggio: Sfortuna! Egli portava così al di sopra dei suoi occhi l’etichetta della propria vita come un libro porta il suo titolo, e l’interrogatorio provò che quella bizzarra scritta era crudelmente veritiera. Nella storia letteraria ci sono destini analoghi, dannazioni, dannazioni di uomini che portano la parola scalogna scritta in caratteri misteriosi nelle pieghe sinuose della loro fronte. L’Angelo cieco dell’espiazione si è impadronito di loro, e li sferza senza pietà, a edificazione degli altri. Invano la loro vita mette in mostra talenti, virtù, grazia: ad essi la Società riserva uno speciale anatema, e li accusa delle menomazioni che la sua persecuzione ha provocato loro. Cosa mai non fece Hoffmann per disarmare il destino, e cosa non intraprese Balzac per scongiurare la sorte? Esiste dunque una Provvidenza diabolica che prepara la sventura sin dalla culla, che getta in modo premeditato nature spirituali e angeliche in ambienti ostili, come i martiri nei circhi? Ci sono dunque anime consacrate, votate all’altare, condannate a marciare verso la morte e verso la gloria attraverso le loro proprie rovine? L’incubo di Ténèbres assedierà eternamente queste anime elette? Invano si dibattono, invano si conformano al mondo, alle sue previdenze, alle sue astuzie; perfezioneranno la prudenza, tapperanno ogni uscita, imbottiranno le finestre contro i proiettili del caso; ma il Diavolo entrerà dalla serratura; una perfezione sarà il difetto della loro corazza, e una qualità superlativa il germe della loro dannazione.”

 

Questa ricerca ossessiva e maniacale del valore musicale della parola, che in realtà è presente anche nella sua prosa, rende difficilissima e in alcuni casi impossibile, la traduzione (una traduzione degna di questo nome) delle poesie di Edgarpoe (come lo chiamano i suoi innamorati, me compresa).

Penso ad esempio a The Bells, Le campane, il cui effetto è tutto giocato sulla riproduzione del suono delle campane a festa, a morto, ad allarme. Un testo poetico che è una partitura musicale, un pezzo di jazz, un fuoco d’artificio di effetti sorprendenti, mai uditi, che ti scagliano sulle montagne russe più estreme e che fanno tremare i polsi.

Tradurre la poesia di Poe dunque, è davvero un’impresa. Ma io amo le imprese e già molti anni fa mi venne voglia di misurarmi con la bellezza siderea, soprannaturale dei suoi versi.

In italiano ci sono varie traduzioni delle poesie di Poe, ma nessuno dei suoi traduttori  più illustri ha mai nemmeno provato a mantenere il ritmo musicale dei suoi versi. Dove non siano traduzioni in prosa, la fedeltà al testo originale si perde.

In seguito, al noto editore con cui allora collaboravo, quelle mie traduzioni piacquero moltissimo  mi propose di pubblicarle. Il fatto è che il contratto che proponeva era un semplice contratto di quelli con cui si torce il collo ai traduttori letterari in Italia: a cartella e una tantum! Dato che il numero di cartelle tra l’altro sarebbe stato esiguo e il mio lavoro un lavoro non certo di semplice traduzione, ma un’opera poetica, io proposi un normale e giusto (e dignitoso) contratto a royalties. All’editore  la cosa non andò e non se ne fece nulla.

NOTA

Nella mia  traduzione ho mantenuto la massima fedeltà al testo originale e ho cercato di riprodurre il ritmo musicale più simile possibile a quello del poemetto originale. Un ritmo ondulante, ipnotico, sovrannaturale, quasi da incantatore di serpenti. Ho mantenuto perciò, per quanto possibile, l’uso del doppio ottonario e del settenario della metrica originale.

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*****************

Il CORVO (1845) 

Edgar Allan Poe

Traduzione di Francesca Diano

*

Una tetra mezzanotte, meditando, fiacco e stanco

Sopra tomi antichi e strani di perdute conoscenze,

Con il capo tentennante, quasi mezzo addormentato,

Ecco a un tratto un lieve battito, come chi grattasse piano

Come chi grattasse piano alla porta della stanza.

<<Non è che un visitatore>>, mormorai, <<Che batte piano

alla porta della stanza –

Questo solo, e nulla più.>>

*

Ah, ricordo chiaramente ch’era un tristo assai dicembre,

E ogni brace moribonda proiettava il proprio spettro.

Agognavo all’indomani: – vanamente avea cercato

Di trovare nei miei libri qualche tregua alla mia pena –

Pena per Leonore perduta –

Per la rara e risplendente giovinetta a cui hanno dato

Nome gli angeli  Leonore –

Che qui un nome avrà mai più.

*

Ed il serico frusciare, così incerto delle tende

Rosse mi facea tremare – mi colmava

di fantastici terrori sempre prima sconosciuti.

Così ora, per tacere il pulsare del mio cuore, ritto in piedi ripetevo

<<Non è che un visitatore che mi supplica d’entrare dalla porta della stanza; –

Qualche ospite in ritardo che mi supplica d’entrare;

Questo solo e nulla più.>>

*

E d’un tratto ebbi coraggio; cancellai l’esitazione,

<<Oh signore>>, dissi, <<o Dama, perdonatemi, v’imploro;

Ma di fatto ero assopito e così lieve bussaste

E così sommessamente voi bussaste alla mia porta,

Che mi parve appena udire>> – e qui spalancai la porta; –

Solo buio e nulla più.

*

Scrutai a lungo nella tenebra, ritto, incerto, spaventato,

Dubitante e poi sognando sogni che prima mortale

osò mai nemmen sognare.

Ma il silenzio era profondo e la tenebra spietata

Ed un’unica parola – bisbigliata – fu <<Leonore!>>

Questo era il mio sussurro ed un’eco mormorante

mi rispose, <<Leonore!>>

Solo questo e nulla più.

*

Ritornando nella stanza, la mia anima un incendio,

Presto ancora udii bussare con più forza del passato.

<<Di sicuro>> dissi, <<certo è qualcosa alla finestra:

Su vediamo cos’è mai; ch’io disveli quel mistero –

Che il mio cuore un po’ si calmi e che io sveli il mistero; –

Solo il vento e nulla più!>>

*

E l’imposta spalancai quando, un frullo e un batter d’ali,

Entrò un Corvo maestoso, di remoti giorni sacri.

Non mi fece riverenze; né un istante stette fermo,

Ma s’andò a posare sopra l’architrave della porta

come un nobile signore o milady, appollaiato

sopra il busto di Minerva che sovrasta la mia porta.

Fermo, immoto e nulla più.

*

Poi l’uccello nero ebano fece sì che in un sorriso

Io sciogliessi le atre angosce, col decoro grave e nobile

del severo atteggiamento.

<<Pur se il ciuffo hai tu rasato, di sicuro tu sei fiero>>, dissi,

<<corvo torvo, orrido e antico che veleggi dalle plaghe

della Notte – dimmi quale nome nobile hai tu

sopra il lido plutoniano  ch’è confine della Notte!>>

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

Molto mi meravigliai nell’udir quell’uccellaccio favellare tanto chiaro,

Pur se quella sua risposta non aveva senso alcuno

e a sproposito veniva;

Ché chi mai può convenire, che vivente creatura

Mai abbia visto un tale uccello sulla porta di una stanza.

Un uccello o altro animale sopra il busto cesellato sulla porta della stanza.

Il cui nome è <<Mai non più.>>

*

Ma, posato solitario sopra quel busto sereno, solamente disse il Corvo

Sol quell’unica parola, come se vi riversasse

per intero la sua anima.

E null’altro disse ancora – e non piuma scosse o mosse –

Finché appena bisbigliai, <<Altri amici son fuggiti prima d’ora-

E domattina egli pur mi lascerà, come già ogni mia speranza.>>

E l’uccello: <<Mai non più.>>

*

Mi sorprese quel silenzio, rotto solo dalla replica

così a senso pronunciata.

<<Senza dubbio>>, dissi allora, <<quel che dice non è altro

che soltanto dire sa

E l’ha appreso da un padrone incalzato da Sciagura impietosa

Ancora e ancora, tal che un solo  ritornello era quello dei suoi canti –

Che i suoi pianti disperati con quel triste ritornello ebber chiusa

Sempre quello, sempre quello

“Non più mai – mai non più”.>>

*

Ma quel Corvo, trasmutò le mie tristi fantasie

nuovamente in un sorriso

Ed allora trascinai proprio accanto a lui e alla porta

e poi al busto una poltrona:

Poi, affondato nel velluto, presi allora a collegare

Fantasia e fantasticare e mi chiesi che volesse

dire mai quell’uccello antico e infausto –

Cosa mai quel tristo, goffo, spaventoso e infausto uccello –

Dir volesse nel gracchiare  <<Mai non più.>>

*

Ciò, seduto, riflettevo, ma non sillaba volgevo

All’uccello  i cui occhi accesi mi bruciavano nel petto;

Questo ed altro ripensavo, con la testa reclinata

Sul velluto del cuscino che la lampada assetata riguardava avidamente,

Ma il velluto del cuscino viola, che la lampada assetata

riguardava avidamente

Lei non premerà mai più!

*

Poi parve addensarsi l’aria, con profumi ch’esalavano

da invisibile incensiere

Oscillato da alati angeli, i cui passi tintinnando

risonavano sul marmo.

<<Infelice>>, gridai allora. <<è il tuo Dio che li ha mandati –

con questi angeli ti invia un sollievo ed un nepente

al ricordo di Leonore!

Su trangugia quel nepente e dimentica Leonore!>>

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

<<Oh Profeta!>> dissi, <<creatura dell’inferno! – ma profeta nondimeno

che sia tu diavolo o uccello! –

Che ti mandi il Tentatore, o tempesta abbia inviato,

Solitario ma indomato in questo deserto incantato –

In codesta mia magione dell’Orrore – dimmi imploro –

Vi è – vi è un balsamo in Gilead? Dimmi, dimmelo, t’imploro!>>

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

<<Oh Profeta!>> dissi, <<creatura dell’inferno! – ma profeta nondimeno

che tu sia diavolo o uccello!

Per quel Ciel che ci sovrasta – per quel Dio che entrambi amiamo –

Di’ a quest’animo gravato dal tormento, se nell’Eden

Sì distante stringerò la cara santa a cui  Leonore

nome gli angeli hanno dato –

Stringerò la risplendente giovinetta rara a cui hanno dato

nome  gli angeli Leonore?>>

Disse  il Corvo, <<Mai non più.>>

*

<<Sia un addio questo tuo dire, uccellaccio di sventure!>>

gridai alzandomi all’impiedi –

<<Fa’ ritorno alla tempesta ed al lido plutoniano

della Notte!

Non lasciare piuma nera a ricordo del mentire che hai dianzi pronunciato!

Lascia intatto il mio silenzio! Lascia il busto sulla porta!

Togli il becco dal mio cuore e il tuo corpo dalla porta!

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

Ed il Corvo non s’alzò; sempre posa, sempre posa

Sopra il bianco busto pallido di Minerva sulla porta;

E i suoi occhi hanno l’aspetto di un demonio sognatore

E la luce della lampada che lo inonda getta l’ombra

sua di sopra il pavimento;

La mia anima dall’ombra che per terra aleggia immota

non si alzerà – mai più!

  • * § *

(C) copyright 2006 by Francesca Diano

RIPRODUZIONE RISERVATA

Ma un recensore non dovrebbe conoscere la materia di cui parla?

Mi è capitato di leggere alcune interessanti recensioni di romanzi indiani tradotti in italiano, non firmate, o firmate solo col nome proprio, su di un sito dedicato al cinema indiano. In realtà l’ennesimo blog dedicato (e ti pareva) al cinema di Bollywood. Ben fatto, non c’è che dire. Peccato sia tutto anonimo, dato che nessun nome o firma sono in alcun modo rintracciabili su questo blog.

Detto per inciso, pensavo che, chi scrive una recensione, su qualunque argomento, dovesse firmarsi con nome e cognome, tanto per assumersi la responsabilità di ciò che mette per iscritto. Non è solo una simpatica abitudine, ma anche un atto di civiltà e professionalità, magari solo per risultare più credibili.

Anche perché su questo sito, si citano ampi stralci tratti da opere coperte da copyright e non credo sia sufficiente mettere le mani avanti e dichiarare: “se abbiamo violato il copyright, o se non abbiamo chiesto il permesso all’editore, ce ne scusiamo”!

Tra le varie, la recensione  di Un uomo migliore, di Anita Nair, che potete leggere qui  e, nello stesso sito, un’altra, quella di Nettare in un setaccio, di Kamala Markandaya, che potete leggere qui e ancora una recensione di La Stanza della Musica, di Namita Devidayal, che potete leggere qui.

Ho scelto queste recensioni perché riguardano romanzi di autrici indiane che conosco molto meglio di altre per vari motivi. Ovviamente Anita Nair perché sono la sua traduttrice italiana, ma la Markandaya perché avevo letto il suo romanzo di una bellezza che ti strappa il cuore, agli inizi degli anni 70, quando vivevo a Londra e il romanzo era un caso editoriale. Nectar in a sieve, il titolo originale,  dell’edizione ancora in mio possesso, è un romanzo che descrive, nello stile tipico di quella corrente di naturalismo narrativo che la letteratura indiana conobbe agli inizi del 900, la dimensione più tradizionale dell’India, quella rurale e del villaggio. Markandaya ha una scrittura di una delicatezza estrema, raffinatissima e lirica, eppure riesce a ricreare l’atmosfera apparentemente semplice di sentimenti primari, essenziali. Quasi primordiali. Ma non è solo questo, è stato anche il primo romanzo che ha rivelato una scrittrice indiana che scriveva in inglese all’Occidente.

Il romanzo conserva tutta la freschezza e la poesia e la forza che si trova in una scrittrice tra le più grandi che l’Italia abbia avuto e che ha dimenticato: Grazia Deledda.  Dunque, dare un giudizio come quello contenuto  nella recensione denota non solo cecità per la bellezza e la forza del romanzo, ma anche una limitata conoscenza sia della letteratura indiana che della cultura e della società indiane.

Analogo discorso va fatto per la recensione di Un uomo migliore, di cui ho già scritto ampiamente sul mio blog e di cui ho spiegato i profondi meccanismi e significati.

Dopo aver fatto degli appunti allo stile, come se proprio quel modulare lo  stile a seconda del personaggio (variando da registri drammatici a comici, a grotteschi a poetici e sognanti) non fosse la chiave di interpretazione dei singoli personaggi, Si arriva addirittura a dichiarare “alcune tappe rituali fanno sorridere”….  sorridere chi? Un’espressione davvero infelice, perché tradisce un atteggiamento di supponenza che parrebbe fuori luogo. Il significato semantico  di questo sorriso infatti è: guarda che ingenuona è questa Nair, i mezzucci letterari che usa sono infantili e io, dall’alto della mia conoscenza, non ci casco di sicuro.

A quali  tappe rituali (tappe rituali?) poi si riferisce?   Forse intendeva quell’intuizione geniale per cui Mukundan viene rinchiuso in una enorme giara per rivivere una sorta di ritorno all’utero. Credo che chi ha scritto questo non sappia molto di antichissimi riti, atavici, e della dimensione ancora intrisa di magia religiosa che permane in molte zone rurali del subcontinente indiano, specialmente nell’India meridionale, dove il Kerala si trova. I culti religiosi che vi si praticano non sono di tradizione hindu. Questa  non è l’India vedica, ma dravidica.

Per quanto riguarda La Stanza della Musica, che è un romanzo, almeno nella versione originale, che molto perde nella traduzione italiana, di folgorante bellezza, è ovvio che per apprezzarlo appieno sarebbe auspicabile sapere qualcosa di musica indiana classica e semiclassica. In questo caso, di  canto.  Magari non in modo superficiale. Magari saper apprezzare il diversissimo senso del tempo, musicale, ma anche interiore, dell’anima indiana, che la raffinatissima musica, narrata con altrettanto raffinatissimo linguaggio (poiché qui forma e idea si uniscono in una sintesi mirabile) racchiude.

Allora, ho trovato un po’ bizzarro che la nota “negativa” del recensore sia: “ci metterete più di un paio di giorni a finirlo”…

Lo spero bene, è un libro piuttosto corposo!

E questo mi ha aperto gli occhi! Se  la velocità di lettura di questo recensore anonimo è tale, forse per questo si perde le finezze, le sottigliezze, le sfumature di una letteratura che chiede tempo, amore e rispetto. E apertura mentale a ciò che è diverso da noi.

 

Ma quand’è che l’Italia uscirà da questo provincialismo che fa sì che tutti strillino alla meraviglia quando le mode arrivano da noi – in genere quando ormai sono quasi finite altrove? Quand’è che la gente si prenderà la briga di conoscere  gli argomenti di cui parla? Decenni fa proposi Nectar in a sieve, allora da noi sconosciuto (ovvio) e strapremiato ovunque nel mondo, a qualche editore. NON ERA INTERESSANTE. Chi voleva leggere un romanzo scritto in inglese da una donna indiana? Il massimo che si conosceva da noi era Tagore, e magari solo per sentito dire, perché aveva avuto il Nobel.

Ma non parliamo di Tagore anche oggi, per carità. Girano traduzioni che….

N.B. Il sito rende impossibile lasciare dei commenti se non si è membri del team, nessuno dei quali appare col proprio nome… capito?

Anita Nair – The better man

Anita Nair The Better Man. Italian edition translated by Francesca Diano. Guanda 2010

Anita Nair and Francesca Diano at the Turin Book Fair (Salone del Libro) 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

It has  recently been released a new Italian edition of The Better Man, (Un uomo migliore, Guanda, 2010)  the first novel by the Indian writer Anita Nair. It was this the work that introduced me to Anita Nair’s art and made me love her first as a writer and, later, as a dear friend.

Her first novel as I said, but not her first book. That was the short story collection Satyr of the Subway.  So, The Better Man is a transition between her first published work and the international bestseller Ladies Coupé. Still,  in this novel, all is already there: the magic, the elegance of her style, the depth of her writing, the fascination and the vastness of her literary world, even if compressed in a small Kerala village.

The story is set in the little, imaginary  village of Kaikurussi, in Kerala, the state where Nair was born and that permeates her poetic and evocative writing. In the past, Kerala was part of a region known as Malabar.

Malabar is no more but, like Anita Nair says, it is still a state of mind, a powerful feeling, arising from a longing for the past, a denial of the future, but also from a silent sense of unhappiness.

Kaikurussi is a village in the middle of nowhere, where  nothing remarkable is to be found, where  no great man was ever born, where even the road comes to an end, leading to nowhere. Just fields and hills. And souls.

In the first pages, the reader is directly addressed by Bhasi, the housepainter, speaking in the first person. He is the only character in the novel, whom we can connect with immediately, as a direct link to the heart of the narrative, and we are able to do so, thanks to this intimate relationship that his being an “I” sets right from the start.

In fact, Bhasi is the very heart of the plot, the deus ex machina, that will set off the many changes. So, he is, right from the start, an off-screen voice, the voice of the village conscience. Yet, he is inside the story, partaking of this double nature: a character and the motive; part of the village and an outsider. And this will be very clear at the end.

Bhasi has taken refuge in this far away place, running away from his past as a university lecturer and from a secret.  Hiding his very self from the world. Nobody knows about his past; to the village he is “One-screw-loose- Bhasi”. But he is a healer too. He heals crumbling walls and sore souls, aching bodies and rotting plasters. He knows herbs and techniques, he has his own bizarre methods, mixing fithotherapy, psycology, magic and homeopathy. And his desperate need to be needed, to be loved, to be accepted. This is why, in his obscure life, he feels that something great will happen one day, something that will give him “a reason to exist”. He’s waiting for it. And destiny will bring that reason to him: Mukundan.

Mukundan Nair is a man with folded wings, like the handkerchieves he meticously folds into eight parts. A man oppressed by endless fears and doubts, not well certain of who he is, crushed by a vicious, dictatorial father since he was a child.

He is a retired government official and is back to Kaikurussi because has no other place to go.

And the meeting of these two men, so different from each other, so necessary to each other, is an extraordinary meeting. The story of a deep healing and of a rebirth, of a spiritual healing and deep transformation, will go through a terrible betrayal: that of Mukundan, who will discover, in the end, that he is not better man than his father. In order to gain his place among the leading people of the small village, he deceives his friend and benefactor; he forces Bhasi to sell his house for almost nothing, so that the pompous and bossy Power House Ramakrishnan will build a useless Community Hall.

The fictious village of Kaikurussi, with its exraordinary characters, with the ghostly presences, where all the clash between the old and the new India creates subterranean currents of discontent and uneasiness, with its undercurrent of myths, magic and mystery, is actually all the world.

And, the end of the novel is no less suprising,  impressive and unexpected than the novel itself. The loosing of that knot, heavier than a boulder, requires a blast. A real one.

I’ve always thought that this explosion, this destruction of the Community Hall by hand of Mukundan, it was a symbolic explosion of a world suspended between past and present, unable to find an answer. Not an immediate one, not an easy one. So you can do only one thing: step out.

It is true, Mukundan destroys what had been Bhasi’s betrayal tangible and symbolic object. But, does he ask himself what will happen next?

Will then Mukundan find eventually the courage to break free from himself, to become a better man than his father? A man?

Anita Nair’s language is as light as it is powerful, as evocative as it is full of magic, ironic and humourous and full of drama. So limpid that you can see the darkness peeping behind.

I was given this novel to read 11 years ago, when Anita Nair was not yet the worldknown author she is now and still very young. I couldn’t believe that this mature and knowing portrait of the human soul could have been written by such a young writer. The emotion was very strong, right from page one. It was Anita Nair’s Italian debut, the book I love most.

Like it had happened for all her books, translating it was pure joy,a deep emotion and it seemed to me so easy, so natural, to find an Italian form that would render in full her style and voice. A voice that is now heard by milions of readers.

(C) Copyright by Francesca Diano

Politica editoriale italiana: fiabe e leggende sono out

T.C.Croker Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland 1825

Se esiste un patrimonio dell’umanità che, nonostante i tempi e gli avvenimenti, si è conservato intatto e intatto rimane il suo fascino, questo è l’immenso corpus delle fiabe, delle leggende, dei miti e della tradizione orale che ogni paese civile conserva con amore.

La tradizione orale, che a partire dal 19° sec. ha iniziato a scomparire nelle sue forme popolari, è il serbatoio della nostra identità, è il tesoro che custodisce le origini di chi siamo. Ed è stato il Nord Europa ad insegnarcelo.
Paesi in cui l’amore per la cultura e la tradizione sono la pietra angolare su cui fondare il futuro, lo sanno bene e spendono notevoli risorse per diffondere e conservare il loro prezioso patrimonio.
La mia esperienza di insegnamento all’università di Cork mi ha rivelato qualcosa sui giovani irlandesi che non avrei immaginato: la conoscenza che hanno dei miti e delle leggende della loro terra non è solo parte della loro cultura, ma è parte di loro stessi, vi si riconoscono.
L’amore che da sempre ho per il mito e le fiabe, per le leggende e i racconti orali, mi ha spinto a occuparmene ormai da decenni e non intendo smettere. Tanta è la gioia che ne traggo.
Per questo motivo, agli inizi degli anni ’80, proposi quella che era la raccolta di leggende irlandesi più importante, più antica e famosa. Non da noi. Da noi era sconosciuta, come il suo famosissimo autore. E questo molto prima che l’Irlanda divenisse “di moda”.
Ma, proprio perché l’editoria italiana non è interessata a ciò che non conosce, o è interessata solo a ciò che è “di moda”, mi ci vollero 15 anni per trovare l’editore che finalmente si decidesse a pubblicare questa meraviglia di libro. Quell’editore poi, ne ha fatte moltissime ristampe e ne ha vendute decine di migliaia di copie. Questo perché, nel frattempo, l’Irlanda era diventata “di moda”.
 
Bene, ho provato a proporre in questi giorni un altro testo, di uno degli autori più famosi al mondo (e anche da noi) di fiabe e leggende, ma un testo che, pur famosissimo in Europa e in America, è inedito da noi e aggiungerebbe molto alla conoscenza dell’argomento, anche perché è un testo rivoluzionario e, anche se dei primi dell’ ‘800,  batte una strada ancora poco esplorata. Un testo di una bellezza e piacevolezza uniche.
La mia esperienza trentennale di traduttrice, consulente editoriale e saggista dovrebbe essere una garanzia di serietà per chiunque. E non sono proprio una sconosciuta. Credo.
Il direttore editoriale dell’importantissimo editore a cui l’ho proposto, uno degli editori che ha fatto la storia della cultura italiana, dopo un mese che aveva ricevuto la mia mail e dopo alcune sollecitazioni, si è  degnato di rispondere.
Cosa ha risposto? Queste sono le sue parole:
” E’ un filone che abbiamo battuto per decenni, come ben sa, ma che poi abbiamo considerato esaurito o in esaurimento, anche in base al riscontro dei lettori.”
Dunque, questo signore, che si suppone debba possedere la cultura sufficiente per dirigere un settore molto importante di una casa editrice importantissima e storica, considera che il filone dei miti e delle leggende, che seguita tra l’altro a vendere moltissimo, non importa se ancora sconosciuto – dunque una grandissima novità editoriale –  e non importa se legato a un nome che ha fatto, anzi fondato la storia del folklore europeo, sia un “filone esaurito o in esaurimento”……
Tanto di cappello alla cultura di cui è rappresentante!
Quando, agli inizi degli anni 70, proponevo di tradurre una meravigliosa poetessa inglese, di nome Sylvia Plath, mi fu detto che non era interessante. Chi la conosceva?
Quando, negli anni 80, proposi di tradurre l’opera più misteriosa, più grande e geniale di Edgar Allan Poe, che nessuno da noi conosceva, “Eureka”, dissero che era troppo astrusa.
Quando, sempre negli anni 80, proposi Croker, mi dissero che le leggende irlandesi non avrebbero venduto (mai tradotto nulla del genere prima da noi).
Di recente mi sono sentita dire, nel proporre un grandissimo poeta irlandese vivente, più grande di Seamus Heaney, famoso e carico di premi ma mai tradotto da noi, che “è sconosciuto e la poesia non vende”.
Quando ho proposto un capolavoro della scrittura femminile indiana, ritenuto in India l’esempio più perfetto e bello di inglese letterario scritto da un autore indiano, oltre che assolutamente divertente, mi è stato risposto, essendo l’autrice morta qualche anno fa, “che è morta, dunque non può più scrivere altro”….
Ecco qual è la politica editoriale italiana. Che importa se tutto ciò che ho proposto poi ha venduto moltissimo? Che importa se alcuni di quegli autori poi sono diventati famosissimi? Che importa se uno ha “naso”? Che importa se si è dei traduttori che più volte hanno ricevuto menzioni d’onore in premi nazionali? Non sei nella cricca di “quelli che contano”.
Questa gente ottusa ti fa sentire una Cassandra a rovescio. Uno annuncia la fortuna e loro non ti danno alcun credito, a dispetto del fatto che numerosi esempi confermino da sempre che tu hai ragione. E, nonostante poi siano costantemente sbugiardati, seguitano a dire: “il filone è esaurito, non ci sono lettori, l’autore è morto, l’autore è vivo”.
(C) RIPRODUZIONE RISERVATA 
 

Scrittori in Causa Contratto Editoriale

Ecco un’altra bellissima iniziativa – e assolutamente meritoria – dei responsabili del blog Scrittori in causa. La redazione di una bozza di possibile contratto editoriale che tenga conto degli interessi dell’autore, oltre che dell’editore.

Questo è il link

http://scrittorincausa.splinder.com/post/24330398/il-contratto-lavori-in-corso

Come si può vedere è un contratto che prevede delle clausole in genere non presenti nei contratti standard che gli editori amano tanto e che li tutela a scapito spesso degli autori. Tra cui una percentuale più decente sul prezzo di vendita, indicizzata al numero progressivo delle copie vendute, la scelta sui diritti di stampa che non è necessario cedere in blocco e non in modo cumulativo, un numero di anni minore rispetto allo standard dei 20 anni di cessione dei diritti all’editore e così via.

E’ bene far circolare questo tipo di contratto quanto più è possibile, in modo da creare in ogni autore la consapevolezza che si può contrattare con un editore e non è necessario accettare passivamente le clausole imposte.

Aggiungo anche che sarebbe tempo di caldeggiare contratti a royalties anche per i traduttori in particolare letterari e che traducono grandi autori, perché come mi capita, se di un libro vengono vendute 900.000 copie anche per il mio lavoro di traduttrice, che lo rende in una traduzione letteraria degna di questo nome, in quanto tradotta da chi è anche autore, permettete che anche solo 50 centesimi a copia è meglio di un compenso una tantum…. ed è per questo che gli editori non ci sentono in questo campo.  

Un plauso a Scrittori in causa per il loro lavoro e per l’attenzione e l’aiuto che offrono a tutti noi!

Anita Nair – Un uomo migliore

Anita Nair Un uomo migliore traduzione di Francesca Diano. Editore Guanda 2011

E’ appena uscita, per i tipi di Guanda, una edizione del tutto nuova del primo romanzo di Anita Nair, Un uomo migliore, da me tradotto,  il romanzo che mi ha fatto scoprire e amare Anita. E’ stato il suo primo romanzo, precedente al bestseller internazionale Cuccette per Signora, ma che già contiene tutta la magia, l’eleganza, la profondità della sua scrittura, che ne hanno fatto una delle voci più amate e conosciute della narrativa indiana in lingua inglese.

La storia si svolge nel piccolo villaggio di Kaikurussi, un villaggio immaginario, nel Kerala, lo stato indiano in cui è nata Anita Nair e che un tempo faceva parte di una regione nota come Malabar.
Il Malabar è ormai scomparso, ma, come dice Anita, il Malabar è ancora uno stato dell’anima, un sentire, fatto di attaccamento al passato, di negazione del futuro, ma anche di scontento.
Kaikurussi è un villaggio in cui non c’è nulla, in mezzo al nulla, dove termina la strada, dove non è nato nessun personaggio di rilievo. Solo campi e colline.
La narrazione si apre con le parole di Bhasi il pittore, che parla in prima persona, come una sorta di voce fuori campo rispetto al resto della narrazione, in terza persona. Così come in prima persona Bhasi parlerà in tutto il romanzo. Come una sorta di coscienza.
Bhasi,  che alcuni nel villaggio in cui si è trasferito da qualche tempo, fuggendo da una vita di docente universitario, hanno soprannominato Bhasi lo Svitato, è l’imbianchino del villaggio.  Ma non è solo questo.
Bhasi restaura case, ma restaura anche anime e corpi sofferenti, usando un mix di cure di sua invenzione fatto di medicina omeopatica, di psicologia, di magia e fitoterapia. Tuttavia, in questa vita apparentemente semplice e serena che si è scelto,  sente che un compito grande lo attende, qualcosa che gli darà “un motivo per esistere”. Ne è in attesa. Ed ecco che il destino gli porta quel motivo: Mukundan.
Mukundan è un uomo ripiegato su se stesso, come i fazzoletti che ripiega con meticolosa precisione in otto parti, pieno di timori e incertezze, non ben certo di chi sia, soffocato da un vecchio padre terribile, che ha dominato tutta la sua vita e che ha frustrato ogni suo sogno. Mukundan torna in questo villaggio, da cui era fuggito per non tornare mai più, perchè nessun altro luogo ha al mondo dopo il suo pensionamento da una dignitosa carriera di funzionario governativo. Nessun altro rifugio.
E l’incontro tra questi due uomini così diversi, così necessari l’uno all’altro, è un incontro straordinario. La storia di una profonda guarigione e rinascita, di una guarigione spirituale attuata con metodi bizzarri e quasi magici, che passa anche attraverso un terribile tradimento. Quello di Mukundan che scopre tutto sommato, alla resa dei conti, di non essere un uomo migliore di suo padre.
L’immaginario villaggio di Kaikurussi, con i suoi incredibili personaggi, – indimenticabile la figura del vecchio padre terribile, un padre-padrone che ha un che di titanico – con le presenze del passato, con lo scontro tra la vecchia e la nuova India, col suo sottofondo di miti, di magia, di mistero, è in realtà tutto il mondo.
E la fine del romanzo, così incredibile, così sorprendente, scioglie quel nodo profondo che molti si portano dentro come un macigno.
Mukundan troverà la forza, la volontà di  diventare finalmente un uomo libero,  un uomo migliore di suo padre? Un uomo?
Il linguaggio è lieve quanto potente, evocativo quanto magico, ironico quanto drammatico, originale e limpido.
Mi sono trovata questo romanzo tra le mani poco più di 11 anni fa, quando Anita Nair era ancora da noi del tutto sconosciuta, non molto nota nel resto del mondo e poco più che una scrittrice esordiente, anche se aveva già pubblicato una raccolta di racconti, poi da me tradotta col titolo di Il satiro della sotterranea.  Ma, già dalle prime pagine, la scrittura mi parve di una forza e di una profondità straordinarie. La conoscenza dell’animo umano che questa giovane scrittrice indiana pareva possedere mi catturò e mi emozionò al punto che volli con tutta me stessa che venisse pubblicato e decisi che l’avrei tradotto io.
E’ stato il romanzo che ha segnato l’esordio italiano di Anita Nair, quello a cui sono più legata, grazie al quale è inziato un rapporto di stima e ammirazione, di grande affetto, di profonda intesa con Anita Nair.
Tradurlo è stato, come poi è avvenuto per tutte le sue opere, una gioia dalla prima parola all’ultima e mi è parso così facile, così naturale  trovare immediatamente lo stile italiano che rendesse  la sua scrittura e la sua voce.
Tutti i romanzi di Anita Nair hanno, nella struttura e nel linguaggio, nei personaggi e nello stile, un’originalità che rende la sua scrittura unica, ma questo è quello che amo di più e che mi è più caro. Perché mi ci sono ritrovata, perchè esplora profondità insondabili dell’animo umano, temi che sono alla radice della psiche, perché esplora, con un linguaggio liquido, ironico spesso, e molto limpido, le ombre che ogni uomo nasconde e teme.
E infine, perché l’avere, grazie ad esso, “scoperto” Anita Nair, me lo rende particolarmente caro, così come mi è cara Anita.
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