Pranzo d’anniversario – Francesca Diano

 

 

PRANZO D’ANNIVERSARIO

Un racconto di Francesca Diano

 

 Lisciò con delicatezza la bella tovaglia di fiandra color crema, attenta che le dita screpolate non ne tirassero qualche filo. Aprì l’anta inferiore della grande credenza di noce intagliato e prese i preziosi piatti di porcellana Ginori – marchio precedente alla fusione con Richard nel 1896 –  dall’orlo smerlato, decorati con piccoli festoni azzurri e fiorellini rosa e oro.

Un piatto piano per il Dottore, uno per la Signora, uno per sé. Un piatto fondo per il Dottore, uno per la Signora, uno per sé. Calcolò la precisa posizione dei piatti sul tavolo rotondo, in modo che fossero perfettamente equidistanti. A lato pose i tovaglioli ripiegati in un perfetto triangolo.

Aprì il cassetto di destra della credenza, dove le posate d’argento erano ordinate nei loro sacchetti salvapolvere. Le impugnature panciute erano cesellate a decori floreali. Un regalo per le nozze della Signora e del Dottore.

Un coltello, due forchette, un cucchiaio, una forchettina, un coltellino da frutta e un cucchiaino da dolce per il Dottore, poi per la Signora e poi per sé.

Aprì l’anta superiore della credenza e ne trasse sei bicchieri di cristallo, tre grandi per l’acqua e tre più piccoli per il vino e li pose di fronte ai piatti, leggermente spostati sulla destra, in modo che il bicchiere da vino fosse in linea col bordo  dei piatti. Come le aveva insegnato la Signora.

In una boccia di cristallo boemo  sistemò mazzetti di rose bianche contornati di edera, che aveva colto in giardino. La trasparenza lucente del cristallo e la cupezza delle foglie d’edera esaltavano il bianco vellutato dei petali di rosa. Arretrò e contemplò soddisfatta l’opera. Tutto era perfetto.

Dalla cucina arrivava il profumo del timballo di riso che stava finendo di cuocere in forno, cui si fondeva l’aroma pungente del fegato alla veneziana, creando un composto aromatico variegato e singolare.

Il timballo di riso, o sartù, come lo chiamava la Signora, era stata una delle prime ricette che le aveva insegnato. La preparazione laboriosa ne faceva una pietanza adatta a ricorrenze speciali, proprio come questa. Si era alzata prima dell’alba per prepararlo. Strati di riso condito, ragù, polpettine di carne di maiale ben rosolate, uova sode, fettine di mozzarella, pisellini freschi. Non aveva dimenticato nulla. Poi aveva spolverato la superficie del sartù con abbondante pangrattato e parmigiano e aveva infornato.

Alla Signora piaceva moltissimo, le ricordava la sua terra. Anche il Dottore l’apprezzava, ma gradiva non meno anche il suo figà aea venessiana, col suo aroma stuzzicoso. <<Un piatto semplice, popolano>>, diceva il Dottore, <<ma che gusto!>>

Ormai era tutto pronto. Portò in tavola la caraffa con l’acqua fresca e una bottiglia di Amarone, il preferito del Dottore con qualunque pietanza.

<<Dottore!>> chiamò Antonietta. <<Vieni che è pronto>>, disse, portando in tavola il sartù fumante.

*

Affrontando un lungo viaggio per risalire la penisola, il Dottore e la Signora erano arrivati nel piccolo paese della Bassa padovana  poco dopo la guerra, e il Dottore, che era farmacista, aveva preso possesso della nuova farmacia di cui era diventato titolare. Un paese che era un puntino sulla carta geografica, quasi invisibile incrocio fra tre province, le cui uniche vette in un paesaggio piatto piatto erano un matitone di settanta metri su cui, proprio quell’anno, era spuntata una pianta di fico – ghe xé un figaro sora del campanile, aveva gridato il sacrista una mattina d’afa quando aveva alzato gli occhi al cielo – piantato accanto al suo chiesone, così grande da poter contenere buona parte degli abitanti. Soprattutto da quando i giovani, appena finito il conflitto, avevano preso ad emigrare in cerca di  maggiori opportunità. Una piazza, lo spaccio con l’insegna DROGHE E COLONIALI, due botteghette, la farmacia, due osterie, l’ufficio postale e l’Adige che serviva da placido confine del paese e della provincia. E del mondo.

Il Dottore e la Signora si erano subito rivolti al parroco perché trovasse loro una brava ragazza, pulita e onesta che andasse a fare la domestica. La madre di Antonietta tirava avanti facendo qualche mestiere in canonica e il parroco si mise una mano sul cuore. Così, a poco più di tredici anni, era andata a servizio. L’aria selvatica, i modi bruschi, gli occhi che non abbassava mai quando le rivolgevi la parola, la facevano apparire molto più grande della sua età. Ma aveva uno sguardo intelligente, perciò fu giudicata adatta e poi la Signora pensava che l’avrebbe potuta istruire come piaceva a lei. Nonostante l’ignoranza, sarebbe diventata una buona domestica, anche se all’inizio facevano un po’ fatica a capirla, con tutte quelle parole in dialetto. Ma Antonietta, che di imparare non aveva paura, si mise in testa fin dall’inizio di parlare come il Dottore e la Signora, che avevano studiato e venivano dalla città del Papa.

<<Hai la stessa età di quando si è sposata la mia nonna>>, le aveva detto una volta il Dottore.

<<A tredici anni??>> aveva ribattuto Antonietta con aria incredula.

<<Sì, ma era a metà ‘800, al Sud. Si usava. Il nonno era medico e aveva trent’anni. Quando il nonno andava a visitare i suoi pazienti e lei rimaneva da sola, prima di avere i figli, giocava con le bambole.>>

Beata lei, che almeno aveva il tempo di giocare, pensò Antonietta. Chi l’aveva mai vista una bambola?

Abituata all’unico stanzone abitabile del cason lungo il canale poco fuori del paese, in cui viveva con padre, madre e fratello, con cesso esterno, uno sputo d’orto e qualche gallina,  l’appartamento del Dottore le parve il palazzo del re. Tutte quelle stanze, e addirittura un bagno dentro casa, con il lusso dello sciacquone…

Un anno dopo il loro arrivo, il Dottore e la Signora andarono ad abitare nell’appartamento che avevano fatto costruire sopra la farmacia. Qui di bagni ce n’erano due e perfino una lavanderia e, per non fare avanti e indietro tutti i giorni,  Antonietta si trasferì definitivamente da loro,  in una stanzetta dietro la cucina.

Per la prima volta nella vita aveva un posto tutto suo in cui dormire da sola. Le parve impossibile essere riuscita a scappare dalla miseria e dalla violenza del padre ubriacone e manesco. La madre e il fratello, un povero ritardato che tutti additavano come lo scemo del paese, anche se con un certo affetto ruvido, se ne liberarono quando l’avvinazzato finalmente, in una sera di nebbia che pareva bava di lumaca,  finì in un fosso ruzzolando dalla bici sgangherata e, pieno di vino, finì per affogare in tre palmi d’acqua fetida. Non fu pianto né rimpianto.

Antonietta non era una da lacrime e nemmeno di molte parole. Aveva imparato ad affrontare la vita a testa bassa e muscoli tesi, pronta a lottare da sola per la sopravvivenza. E di lavoro in casa del Dottore e della Signora ce n’era da fare, perché anche la farmacia andava tenuta lustra e impeccabile. Ma c’era anche da mangiare e Antonietta mangiava per tutte le generazioni di morti di fame da cui discendeva. Una fame antica, che niente pareva soddisfare. Per quanto mangiasse, non metteva su nemmeno un grammo. Pelle muscoli e ossa.

Fu il Dottore a mandarla dal medico condotto per capire il motivo di questa voracità dagli effetti invisibili. “Ipertiroidea”, disse il medico, “ma per il resto sana come un pesce.” Ma Antonietta sapeva che la sua fame veniva da una vita di stenti, di miseria, di denutrizione che aveva tormentato i suoi genitori, i suoi nonni, i suoi bisnonni e chissà quante altre generazioni di disperati. Veniva da quelle campagne che ai suoi avi braccianti non avevano reso mai nulla. Veniva da un buco nero che  dal passato allungava le sue ombre come grinfie. Veniva da donne che s’erano rotte la schiena ad arrangiarsi per sopravvivere a una vita che le colpiva e si riproduceva come una maledizione. Ce l’aveva negli occhi enormi, un po’ sporgenti, quella fame, che parevano sempre accesi, anche quando dormiva. E alle cinque del mattino, quando si alzava, erano già belli e spalancati come non li avesse mai chiusi. Perciò. quello che non le riusciva di mangiare, se lo conservava sotto il letto, nella disgraziata evenienza che quella fortuna non durasse.

Avevano voglia il Dottore e la Signora a dirle che nessuno l’avrebbe privata del pasto successivo. Lo capiva con la testa, anche se il dubbio le rimase per un bel po’, ma vallo a dire allo stomaco e all’angoscia che non l’abbandonava mai. Eppure, per la prima volta, si sentiva parte di una famiglia; come se poi avesse mai saputo cosa fosse una famiglia.

Il Dottore e la Signora, non più giovani, non avevano avuto figli e le volevano bene. Non che non fossero esigenti, la Signora soprattutto, ma erano buoni e non la maltrattavano. Nella loro casa, fra le persone, esistevano dei fili che le tenevano legate. Il Dottore aveva un grande rispetto e affetto per la Signora e la Signora parlava del Dottore con devozione.

<<Ha inventato una medicina che prima non esisteva, sai>>, le disse. <<Una medicina che fa bene al fegato, un epatoprotettore. Purtroppo non ha fatto in tempo a brevettarla e gli hanno rubato la formula.>> E Antonietta, che badava molto al modo in cui la gente diceva le cose più che a quello che diceva,  capiva che in quella frase, di cui ignorava il significato, c’era qualcosa di brutto, di triste, che il Dottore aveva subito. E che forse spiegava lo sguardo che pareva aver perso qualcosa che non si poteva ritrovare.

A casa sua invece, di fili che tenevano legate le persone non ce n’erano. Il padre sempre a bere e a menare le mani, emetteva solo urli, porchi o bofonchi. La madre abbrutita dal lavoro, dalle busse e dal far quadrare quel poco che entrava, usava il fiato residuo per qualche monosillabo. Il fratello pareva non vedere nemmeno quello che gli succedeva intorno.

Quanto sarebbe durata la sua fortuna?  Non poteva permettersi di perderla. Di certo in quella stamberga non sarebbe tornata mai più.

<<Fati, no paroe, fati no paroe>>, ripeteva continuamente fra sé e sé il povero infelice che aveva per fratello, percorrendo a piedi, instancabile, le strade nebbiose d’inverno e addentate dal sole l’estate, che tagliavano la pianura come ferite, guidando a mano il relitto di bicicletta del padre, che aveva recuperato dal fosso. Dove avesse sentito quella frase nessuno sapeva. Forse durante una predica in chiesa o da qualche aspirante sindacalista all’uscita dell’osteria. E il soprannome Fatti gli rimase attaccato, a sostituire un nome proprio che nessuno ricordava.

Nonostante lo sguardo assente di Fatti, Antonietta non aveva mai pensato che fosse davvero scemo, ma solo che vivesse in un suo mondo felice in cui nessuno poteva raggiungerlo. Un mondo in cui il bianco era bianco e il nero era nero. In cui non c’era spazio per le sfumature che imbrogliano la vita degli uomini. Per cui quel motto ossessivo divenne per lei fondamento e guida. Il mondo del Dottore e della Signora, che lo aiutava in farmacia, era un mondo che le appariva bianco, proprio come il camice che il Dottore indossava e come il bancone e gli scaffali che contenevano le medicine.

Era emersa dal nero e non ci sarebbe tornata mai più.

Il Dottore e la Signora erano primi cugini e per sposarsi avevano dovuto chiedere la dispensa al Papa. Anche se la Signora le diceva che di figli ne avrebbe voluti, Antonietta sapeva che da unioni del genere nascono solo dei mostri e quindi era un bene che non ce ne fossero stati. Avevano però una nipote cui erano molto affezionati e che, quando vivevano a Roma, avevano cresciuto in casa loro. Ormai era sposata e li veniva a trovare raramente. La Signora avrebbe voluto vederla più spesso e, anche se non lo diceva, Antonietta capiva che quello era un tarlo che aveva nel cuore.

La nipote non era gentile come i suoi padroni. Quando veniva con il marito a trovare gli zii, in genere per Pasqua, la trattava da serva, la ignorava e le rivolgeva la parola solo per darle degli ordini.

<<Io ho solo la terza elementare>>, si lamentava Antonietta con la Signora, <<però non mi piace che vostra nipote mi tratti così.>>

<<Hai ragione Antonietta, ma devi avere pazienza. Viene da Roma e ti vede come una contadinella. Non si rende conto che per noi sei come una figlia.>>

Antonietta scrollava le spalle, convinta che forse se ne rendeva anche troppo conto.

<<Devi stare attenta a quella là, zia>>, aveva detto la nipote a Sara.

<<Perché? È una brava ragazza e, anche se ha visto tanta povertà, è onesta.>>

<<È molto sveglia e fra un po’ diventerà grande abbastanza. Non vorrai che poi si ripeta quello che è successo a Roma.>>

<<Per carità di Dio!>> aveva detto la zia. <<Non un altro scandalo… ma quella era una zoccola, una furbona e lo zio si è fatto abbindolare dai suoi scondinzoli.>>

<<Lo zio si fa abbindolare troppo facilmente, ma se la tua gelosia non fosse così ossessiva, se tu non lo soffocassi tanto…. guarda, adesso l’hai costretto a finire in questo buco, lontano da tutto, per le tue ossessioni. Lo sai che i cani non vanno mai tenuti a una catena troppo corta. Poi si ribellano e ti mordono le mani.>>

<<Ma come ti viene in mente questo paragone?>> La zia era inorridita.

<<Qui stiamo bene, stiamo tranquilli. E poi Antonietta poverina è tutta pelle e ossa, non hai visto? Che vuoi che gli interessi?>>

<<Tu comunque stai attenta>>, le aveva ripetuto la nipote.

Il tarlo così era stato insinuato, a tenere compagnia all’altro, ma la Signora cercava di scacciarlo, insieme a tanti altri fantasmi. Se avessero avuto dei figli, se lei non fosse stata più vecchia del marito, se lui non fosse stato così bello che pareva un divo del cinema. Dicevano che somigliasse a Tyron Power. Se non l’avesse sposata per riconoscenza, perché orfano dei genitori e, solo al mondo, era stato accolto in casa degli zii, i genitori della Signora, come un figlio e lei aveva passato da un pezzo l’età da marito.

Era soltanto un uomo debole, molto debole. Lo si vedeva da quella bocca morbida e carnosa, languida, quasi molle, con gli angoli leggermente rivolti all’ingiù.  Ma lei non poteva sopportare l’idea che potesse innamorarsi di qualcuna, che tutte quelle donne di cui era circondato nella grande farmacia di Roma potessero abbindolarlo. Poi era scoppiato lo scandalo. La commessa sedotta, le chiacchiere, la vergogna. Le era sembrato di morire. Gli aveva fatto delle scenate terribili. Era arrivata a controllargli i minuti di strada fra la farmacia e casa. Aveva minacciato il suicidio. Per mettere tutto a tacere, per il quieto vivere, il Dottore aveva acconsentito a lasciare la farmacia sul Corso, il laboratorio in cui conduceva le sue ricerche, i suoi esperimenti, tutto. A seppellirsi vivo con lei in una bara nel mezzo del nulla.

Qui almeno, in quel buco di paesino in mezzo alle campagne, sul confine di tutto, non avrebbe avuto occasioni e, nonostante le insinuazioni della nipote, la Signora sapeva che Antonietta non sarebbe stata un pericolo. Troppo selvatica, troppo rozza, troppo segaligna. Con quei suoi modi spicci che non conoscevano civetterie.

Poi il Dottore cominciò a bere troppo. In pubblico nessuno l’aveva mai visto ubriaco ma la sera, dopo la chiusura della farmacia, si metteva a bere già prima di cena ascoltando Corelli, Mozart, Sibelius, Respighi.  Quand’era ora di andare a letto parlava con la bocca impastata e non si reggeva bene sulle gambe. E allora Antonietta doveva aiutare la Signora a metterlo a letto, perché nemmeno la Signora si sentiva ormai tanto bene. In pochi mesi era dimagrita moltissimo e le mancavano le forze.

Quando il Dottore sbagliò le dosi di una preparazione galenica e mancò poco che non provocasse dei danni seri, Antonietta decise che non poteva lasciare che il suo nome e la sua reputazione venissero distrutte. Quella era la sua famiglia, lì era cresciuta, lì aveva trovato da mangiare, da aiutare il fratello rimasto solo dopo la morte della madre, lì aveva potuto perfino mettere da parte qualche risparmio per la vecchiaia. Come da giovane faceva col cibo sotto il letto. Forse, alla fine, nemmeno lì tutto era bianco, anche lì il nero si insinuava sfumando nel grigio. Ma forse, alla fine, nel mondo di bianco proprio bianco non ce n’è.

Non le parve un tradimento consolare il Dottore. Era parte della famiglia. E la famiglia si stava sgretolando sotto i suoi occhi. Doveva tenerla unita. Senza tante chiacchiere, senza tante spiegazioni. Contano i fatti, non le parole.

Già molte volte in passato il Dottore l’aveva abbracciata, tenuta stretta per la vita, palpata, quando la Signora non vedeva. Antonietta lasciava fare, dura, in silenzio, come fosse parte dei suoi doveri domestici. Gli era affezionata, gli era grata. Anche quello era un modo di mostrare la sua devozione. E poi, meglio lei che qualche estranea. Lasciava fare, anche per la Signora.

Lei, che aveva solo la terza elementare, cominciò a controllare tutte le ricette, serviva i clienti, stava alla cassa. Alla presenza del Dottore, si capisce, ma il Dottore si limitava a conversare amabilmente con i clienti e faceva cenni d’assenso quando Antonietta, per salvare la forma, gli mostrava le ricette e le scatolette dei medicinali.

Cominciò a tenere i rapporti con i rappresentanti di medicinali, con i fornitori, a tenere in ordine i conti, a gestire il denaro di casa. Da sola mandò avanti la farmacia quando la Signora dovette essere ricoverata in oncologia perché un cancro le stava divorando l’utero sterile.  Ablazione totale, le disse il Dottore.

<<Non c’è più niente da fare Antonietta>>, le disse il Dottore finendo di scolare la mezza bottiglia di Curvoisier che aveva accanto. Il viso era livido, tirato, la pelle ingiallita, i tratti come crollati sotto un peso insostenibile. Anche la Signora, come da piccolo sua madre, lo stava abbandonando.

<<No, non deve prenderla così. La Signora è forte, si riprenderà>>, gli disse con dolcezza Antonietta.

<<Sta morendo. Le resta poco da vivere. Le metastasi sono ovunque. Possiamo solo tenere a bada i dolori con la morfina.>>

<<Non so che sono le metastasi, ma dobbiamo avere speranza.>>

<<Speranza? L’ho resa infelice tutta la vita, l’ho tradita, non le ho dato figli. E lei, come una santa, ha sopportato tutto.>>

<<Forse non poteva averne lei, forse è stato un bene>>, cercò di consolarlo. Che vuoi dire a un uomo finito?

Il Dottore guardava nel vuoto. Poi si alzò, si strinse ad Antonietta e la prese lì, sul tappeto del salotto, con la disperazione di chi va a morire. Lo lasciò fare, come si nutre un neonato affamato che s’attacca al seno.

In camera da letto la Signora aveva ricominciato a gridare. I dolori erano insopportabili, devastanti. Antonietta si liberò dall’abbraccio di un corpo quasi inerte e la raggiunse. Le fece l’ennesima iniezione di morfina.

<<Non lo abbandonare>>, sussurrò a fatica la Signora. <<So cosa fate. Lo so da tanto…tem…>> Non poté finire la frase.

Antonietta assentì con la testa e non disse nulla. Non si mente ai morenti.

Poi le chiuse gli occhi. E per la prima volta, da quando era nata, pianse.

Nel testamento la Signora, a cui era intestata la casa e che risultava proprietaria di tutti gli oggetti di valore che conteneva, dei titoli e delle azioni, lasciò erede universale la nipote, con diritto di usufrutto al Dottore. Alla morte del Dottore ogni cosa sarebbe andata a lei.

Due anni dopo, al matrimonio, per cui la nipote aveva gridato allo scandalo —  <<si sposa la serva!>> aveva detto a tutto il parentado scandalizzato — Antonietta indossava un abito vaporoso, dal tessuto cosparso di fiori d’ogni colore, con una fascia color verde brillante in vita. Glielo aveva regalato il Dottore perché, diceva, ora che la vita gli sfuggiva, la voleva piena di colori. Ridotto a un’ombra dalla cirrosi che se lo stava divorando vivo, la portò sul Lago di Garda, a Verona, a Venezia, tutti luoghi che Antonietta non aveva mai visto. A Venezia alloggiarono al Bauer. Antonietta lasciò fare, perché anche lui aveva diritto a un po’ di felicità. E anche se nemmeno la felicità è sempre bianca, ma in genere sfumata di molti grigi, sempre felicità è.

<<Anche tu adesso devi fare la signora>>, le disse il Dottore.

<<No Dottore, di Signora ce n’è una sola.>>

*

<<Dottore!>> chiamò Antonietta. <<Vieni che è pronto>>, disse, portando in tavola il sartù fumante.

Trascinando i piedi, il Dottore arrivò dallo studio. Si sedette a tavola e Antonietta gli porse la bottiglia del vino perché lo aprisse e, come le aveva spiegato,  lo facesse respirare. Quasi fosse una cosa viva, il vino, che, dopo essere stato rinchiuso per tanto tempo in un contenitore di vetro, fermo, zitto e immobile, avesse bisogno di prendere un po’ d’aria, prima di scivolare, gorgogliando, in gola e nello stomaco. Di aria ne vedeva poca. Una sorte proprio triste.

Con la pala d’argento tagliò una fetta di sartù, che gli servì fumante di profumi. Poi ne depose una porzione nel piatto della Signora e infine una bella fetta per sé, e si sedette a tavola.

<<Ah, che profumo di paradiso…>>, disse il Dottore, rompendo la crosticina croccante con la forchetta, che immerse poi nella magica combinazione di quegli ingredienti legati ad arte. <<La Signora sarebbe orgogliosa di te.>>

<<Mi ha imparato a cucinare la Signora>>, osservò Antonietta, fissando con un mezzo sorriso la sedia vuota e il piatto intatto che era fra loro.

<<Insegnato, non imparato>>, osservò il Dottore.

<<Eh sì, hai ragione, ma comunque è sicuro che se c’era mangiava di gusto poveretta.>>

Alla Signora non aveva mai dato del tu. E, fino a un anno prima, nemmeno al Dottore.

Era il terzo anniversario della morte della Signora e, come ogni anno, si ripeteva il rito funebre gastronomico. Tavola delle feste, sartù, fegato alla veneziana, zuppa inglese. I loro piatti preferiti. Gli altri giorni l’apparecchiatura e il menù erano più modesti, perché il Dottore aveva la cirrosi epatica e doveva stare a dieta. Ma, fin dal giorno seguente alla morte della Signora, i posti in tavola erano stati sempre tre. Solo quando la Signora era ancora in vita erano stati due, perché Antonietta mangiava in cucina dopo aver finito di servire e sparecchiare.

La Signora, per cui Antonietta nutriva una grande venerazione silenziosa, non se n’era mai andata. Nemmeno dal letto matrimoniale che Antonietta divideva con il Dottore, ormai legalmente da un anno, dopo le seconde nozze del vedovo. Di fronte, sul comò, c’era la foto del Dottore e della Signora quando si erano sposati.

Ogni sera, prima di entrare nel letto coniugale, Antonietta si faceva il segno della croce e recitava un ‘Eterno riposo’ per lei.

 

Il racconto è stato pubblicato all’interno dell’antologia Io sono il Nordest, 2016, Apogeo Editore e farà parte di una nuova edizione dei miei racconti, Fiabe d’amor crudele. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annarosa Maria Tonin – Le visitatrici

Le visitatrici

 

In Ricordi, sogni, riflessioni, Jung scrive: “La storia di una vita comincia da un punto qualsiasi, da un qualche dettaglio che ci capita di ricordare e a quel punto essa era già molto complessa.  Noi non sappiamo dove tende la vita; perciò la sua storia non ha principio, e se ne può arguire la meta solo vagamente. La vita umana è un esperimento dall’esito incerto.”

Ci pensavo leggendo i racconti di questo ultimo libro di Annarosa Maria Tonin, edito da Edizioni La Gru, a brevissimo in libreria. Annarosa è una scrittrice che mi piace molto, per numerosi motivi. Prima di tutto scrive bene, ma bene davvero. Del mestiere di scrivere conosce sfumature, trabocchetti e intelligenze. Mi piace per il peso che il passato ha nelle sue storie, il peso specifico intendo. Tutto riconduce sempre, affondando, verso quell’altrove temporale. Poi mi piace come persona. Diretta, senza fronzoli, ma di mente acuta e raffinata, colta, attiva e allo stesso tempo amante della solitudine, senza la quale – si capisce leggendo quello che scrive – non potrebbe far maturare la sua prosa limpida e mai scontata, di gradevolissima lettura.  Eppure ti accorgi poi, che quello che scrive e che hai creduto così immediato, ti costringe a riflettere moltissimo. Non solo su quello che ha scritto, sui suoi personaggi, ma su te stesso.

E’ fine la sua scrittura, lieve va a scandagliare gotiche ombre incistate nel reale, dove non le penseresti. Così ho trovato nei suoi libri

Il brano di Jung mi è tornato alla mente leggendo Le visitatrici, perché qui è della sua storia che si tratta. Di una memoria che ha necessità di ritrovare sé stessa, di ricostruire attraverso lettere, fotografie, pellegrinaggi lungo strade e di fronte a case, in proiezioni di personaggi reali o immaginari o frutto di collage psicologici, parti di sé, evocando quelli che sono, in un certo senso, i suoi Lari.

In realtà si tratta di cartografia. Una cartografia fisica che mappa terre incognite, ereditate dall’inconscio. Si dice che nelle famiglie la vera eredità che viene passata di generazione in generazione sia quella psichica: traumi, segreti, perdite, sofferenze di antenati che, se non rivelati alla coscienza ed elaborati, riemergono puntuali lungo la discendenza e si ripresentano. Tutto si rimescola in una sorta di inconscio collettivo familiare e chiede di avere voce. Così, quella che noi crediamo semplicemente la nostra vita, o al massimo quelle dei membri che conosciamo, è in realtà un affare già molto complesso alla nostra nascita, la cui storia affonda le radici in un passato assai lontano. E quel che lo rivela, sono appunto minimi dettagli che ogni tanto emergono alla memoria, o che si ritrovano in storie, lettere, foto di persone che non abbiamo conosciuto ma che sono in noi. Non esistono interruzioni. In psicologia sistemica si chiama “costellazione familiare sistemica”.

Questa rete di zii, zie, padri, madri, figli morti in guerra, cugini, conoscenti, personaggi, forma un fitto tessuto in cui però vi sono degli strappi dagli orli slabbrati. In quegli strappi si trova l’identità. Che va cercata in indizi e suggerimenti e rimandi distribuiti con accorta parsimonia lungo tutte le pagine, dove anche le sequenze temporali vengono costantemente scombinate e riassemblate.

I racconti sono organizzati a costruire un mosaico dalle tessere apparentemente non ancora del tutto composte in un disegno finito, che Annarosa Tonin definisce un “ritratto cubista” di sé stessa – anche quando la storia esonda abbondantemente dall’autobiografia del cuore – cosa che in effetti si percepisce da queste tessere-frammento, che infine è il lettore stesso a porre definitivamente in opera. Il racconto Quadri di una liberazione è, da questo punto di vista, paradigmatico. Così come, in Cambiamenti di stato, dove, la non definibile materia (insieme alla sua collocazione in una spazio-temporalità interna) che la protagonista sente di essere, proprio per l’inafferrabilità della sua sostanza, opera uno scarto nella narrazione, quasi quantico, d’essere e non essere in luoghi e stati diversi contemporaneamente:

 “Oggi è sabato e vado verso un posto mai visto prima. Vado a celebrare me stessa. Fuori dal cassetto.
L’uomo che amo oggi compie gli anni, ma non posso stare con lui, non mi è permesso. Forse non è più amore. Forse, non lo è mai stato. Che festeggi il suo compleanno con gli altri abitanti del cassetto. Quanto mangeranno neanche da dire, colate di grasso sulla griglia, abbondantemente annaffiate, e urla e battiti di mani.
Fuori dal cassetto la materia non definibile non parteciperà alla festa. E non è detto che sia un male, anche se a lei fa male. Io sto sia dentro che fuori, dentro questa città e fuori, dentro il cassetto e fuori. Oggi è sabato e vado verso un posto mai visto prima. Non posso dire se è dentro o fuori, perché ancora non lo conosco.
Ci vado perché sono sicura che non mi chiederà da che parte sto.”

Allora, quell’ “esperimento dall’esito incerto” di Jung, quel suo iniziare da un qualunque punto o dettaglio, trova in questa immagine cubista, o continuamente assemblantesi come in un caleidoscopio, che è l’insieme di questi racconti, il suo specchio.

Francesca Diano

 

(C)2018 by Francesca Diano. RIPRODUZIONE RISERVATA

Buon compleanno Maya Angelou.

QUATTRO POESIE DI MAYA ANGELOU

Traduzione  di Francesca Diano

 

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Foto di (C) Ross Rossin, 2013

 

Maya Angelou (Saint Louis 4/04/1928 – Winston-Salem 2014), icona femminile americana, scrittrice e poetessa afroamericana, è stata una donna che, con un’espressione inglese, si può definire, senza tema di esagerare, larger than life. Poetessa famosissima, scrittrice sì, ma anche attrice di teatro, ballerina, attivista fra le più importanti, al fianco di Malcom X e Martin Luther King, autrice di drammi teatrali, di programmi televisivi, cantante, giornalista, docente universitaria, regista cinematografica e, per un breve periodo in gioventù, anche prostituta.

Soleva affermare spesso: “Sono umana e nulla di umano mi è estraneo”, poiché la vita le aveva insegnato a non giudicare e non condannare, ma a capire, a perdonare e a trasformare.

Ha vinto i premi letterari più importanti ed è stata finalista al Pulitzer per la poesia. Autrice di ben sette autobiografie, che in realtà Angelou voleva fossero considerate delle autofiction, negli USA è stata ed è ancora un’istituzione nazionale. La sua  voce è stata fra le più autorevoli, sia come poetessa e scrittrice, che come saggista e attivista. È stata nominata più volte membro di commissioni della Presidenza degli Stati Uniti ed insignita di Medaglia nazionale delle Arti dal Congresso e di una Medaglia presidenziale per la Libertà dal presidente Obama. Il Presidente Clinton la volle al proprio fianco durante la cerimonia del suo insediamento e in quell’occasione Angelou compose e lesse la poesia Still I Rise.

L’opera che le diede la grande notorietà fu una delle sue autobiografie, I Know Why the Caged Bird Sings, (So perché canta l’uccello in gabbia) in cui narra anche dello stupro subito da adolescente e della durezza della sua infanzia e adolescenza. Pubblicò varie raccolte poetiche, da cui queste poesie sono tratte. Molto del grande fascino della sua poesia è nella potenza e nella suggestione della recitazione, un aspetto che, se da noi è trascurato, riceve invece grandissima attenzione all’estero, soprattutto fra i poeti americani.

In Italia, dove è ben poco conosciuta, di lei non è tradotto quasi nulla, se non una raccolta di saggi e i due primi volumi dei sette autobiografici.

Tutta la produzione letteraria e l’ispirazione di Maya Angelou affondano le radici nella condizione difficile di donna, di nera e povera in un’America ancora violentemente discriminante, condizione che ha combattuto tutta la vita con la forza, la passione e il coraggio delle sue azioni e delle sue parole. Rivendicando con orgoglio, ma sempre con la semplicità dell’amore, il proprio essere donna, nera ma soprattutto un essere umano. È stata, fino agli ultimi anni della sua vita, un’instancabile conferenziera, poiché convinta del potere trasformatore della parola.

Forse le sue poesie possono apparire leggermente retoriche, ma sbaglieremmo a giudicarle tali. Il suo linguaggio è diretto, talvolta colloquiale, semplice solo in apparenza. La forma cantilenante, le sonorità della rima e delle assonanze, facilitano invece la penetrazione di idee tutt’ora niente affatto scontate nella società americana, convogliando in uno stile un po’ “da predicatore” a volte, a volte da canzone di protesta, concetti forti di uguaglianza di genere, di culture, di razze, di livello socioeconomico.

Sì, Buon Compleanno Donna Fenomenale! Abbiamo ancora bisogno di te.

F. D.

 

SOLI

 

A letto, a pensare

Ieri notte

Come trovare casa alla mia anima

Dove l’acqua non abbia sete

E il pane non sia pietra

Ho capito una cosa

Non credo di sbagliarmi

Che nessuno

Ma nessuno

Qui può cavarsela da solo.

 

Da solo, tutto solo

Nessuno, proprio nessuno

Qui può cavarsela da solo.

 

Ci sono milionari

Con denaro che non sanno usare

Le mogli corrono a destra e a manca come furie

I loro figli fanno il piagnisteo

Si rivolgono a medici costosi

Per curare i loro cuori di pietra.

Ma nessuno

No, nessuno

Qui può cavarsela da solo.

 

Adesso se mi ascolti attentamente

Ti dirò quel che so

Nuvole tempestose si vanno adunando

Il vento soffierà

La razza umana soffre

E io ne sento i gemiti,

Perché nessuno

Ma proprio nessuno

Qui può cavarsela da solo.

 

 

ALONE

Lying, thinking

Last night

How to find my soul a home

Where water is not thirsty

And bread loaf is not stone

I came up with one thing

And I don’t believe I’m wrong

That nobody,

But nobody

Can make it out here alone.

 

Alone, all alone

Nobody, but nobody

Can make it out here alone.

 

There are some millionaires

With money they can’t use

Their wives run round like banshees

Their children sing the blues

They’ve got expensive doctors

To cure their hearts of stone.

But nobody

No, nobody can make it out here alone.

 

Alone, all alone

Nobody, but nobody

Can make it out here alone.

 

Now, if you listen closely

I’ll tell you what I know

Storm clouds are gathering

The wind is gonna blow

The race of man is suffering

And I can hear the moan,

‘Cause nobody,

But nobody

Can make it out here alone.

 

 

LA PULSAZIONE DEL MATTINO 1

 

Una Roccia, Un Fiume, Un Albero

Ospitanti di specie scomparse da tempo,

Segnavano il mastodonte,

Il dinosauro, che ha lasciato ricordi rinsecchiti

Del suo soggiorno qui

Sul suolo del pianeta,

Ogni chiaro allarme del suo fato che rapido incombeva

È perso nelle tenebre del tempo e della polvere.

 

Ma oggi, la Roccia ci grida a gran voce, chiara e potente,

Venite, potete stare sul mio

Dorso e guardare il lontano destino che vi attende,

Ma non cercate il cielo alla mia ombra,

Non vi offrirò quaggiù alcun nascondiglio.

 

Voi, creati appena meno degli

Angeli, siete rimasti acquattati troppo a lungo

Nel buio che ferisce

Troppo a lungo siete rimasti

A muso duro nell’ignoranza,

Riversando dalla bocca parole

Pronte in armi al massacro.

 

Oggi la roccia grida a gran voce, potete stare su di me,

Ma non nascondetevi la faccia.

Oltre il muro del mondo,

Un fiume canta uno splendido canto,

Venite a riposare accanto a me.

 

Ognuno di voi è un paese rinchiuso fra confini

Delicato e stranamente inorgoglito

Eppure costantemente sotto assedio.

Le vostre lotte armate per il profitto

Hanno lasciato colletti di rifiuti sul

Mio lido, correnti di detriti sul mio petto.

Ma oggi vi chiamo alla mia riva,

Se smetterete di studiare la guerra.

 

Venite, vestiti di pace e io canterò i canti

Che il Creatore mi ha dato quando io

E l’albero e la pietra eravamo un’unica cosa.

Prima che il cinismo vi marchiasse a fuoco la fronte

E quando ancora sapevate di non sapere nulla.

Il fiume canta e seguita a cantare.

 

C’è un’autentica brama di rispondere al

Fiume che canta e alla roccia sapiente.

Così dicono gli asiatici, gli ispanici, gli ebrei.

Gli africani e i nativi americani, i Sioux,

I cattolici, i greci, i francesi e i musulmani.

 

Gli irlandesi, il rabbino, il prete, lo sceicco,

Il gay, l’etero, il predicatore,

Il privilegiato, il senzatetto, l’insegnante.

La sentono. Tutti loro la sentono

La voce dell’albero.

 

Oggi, il primo e l’ultimo di ogni albero

Parlano all’umanità. Venite da me, qui accanto al fiume.

Piantatevi vicino a me, qui accanto al fiume.

 

Per ognuno di voi, discendenti di qualche

Viaggiatore passato, c’è stato un pagamento.

Voi, che mi avete dato il mio primo nome,

Tu Pawnee, Apache e Seneca,

Tu nazione Cherokee, che ti sei riposata con me,

Poi, costretti a marciare con piedi insanguinati,

Mi lasciaste al servizio di altri cercatori –

Avidi di guadagno, affamati d’oro.

 

Voi, il turco, lo svedese, lo scozzese, il tedesco…

Voi gli ashanti, gli youruba, i kru,

Comprati, venduti, rubati, che arrivaste in un incubo

Pregando per un sogno.

 

Ecco, radicatevi accanto a me.

Sono l’albero piantato accanto al fiume,

Che non sarà rimosso.

Io, la roccia, io il fiume, io l’albero

Io sono vostro – i vostri viaggi sono stati pagati.

Alzate il viso, avete un acuto bisogno

Che questo mattino luminoso sorga per voi.

La storia, nonostante il suo straziante dolore,

Non può essere annullata e, se guardata con coraggio,

Non ha bisogno di esser rivissuta.

 

Alzate gli occhi al

Giorno che per voi sta spuntando.

Generate di nuovo

Il sogno.

 

Donne, bambini, uomini,

Prendetelo fra le vostre mani.

Modellatelo secondo il vostro

Più privato bisogno. Scolpitelo a formare

La vostra immagine pubblica.

Sollevate i cuori.

Ad ogni nuova ora nuove possibilità

Per nuovi inizi.

 

Non rimanete legati per sempre

Alla paura, aggiogati in eterno

Alla brutalità.

 

L’orizzonte si tende,

Offrendovi lo spazio per nuovi passi verso il cambiamento.

Qui, seguendo il pulsare di questa bella giornata

Potrete avere il coraggio

Di alzare gli occhi verso di me,

La roccia, il fiume, l’albero, il vostro paese.

Tanto per Mida che per il mendicante.

Così ora per voi come allora per il mastodonte.

 

Qui, sul pulsare di questo nuovo giorno

Potreste avere la grazia di alzare gli occhi e scorgere

Gli occhi della sorella,

Il viso del fratello, il vostro paese

E dire semplicemente

Molto semplicemente

Con speranza

Buon mattino.


  1. Testo letto alla cerimonia di insediamento di Bill Clinton, che volle Maya Angelou come inaugural poet. Fu Kennedy il primo presidente americano a stabilire tale tradizione.

 

ON THE PULSE OF THE MORNING

 

A Rock, A River, A Tree

Hosts to species long since departed,

Mark the mastodon.

The dinosaur, who left dry tokens

Of their sojourn here

On our planet floor,

Any broad alarm of their hastening doom

Is lost in the gloom of dust and ages.

 

But today, the Rock cries out to us, clearly, forcefully,

Come, you may stand upon my

Back and face your distant destiny,

But seek no haven in my shadow.

I will give you no hiding place down here.

 

You, created only a little lower than

The angels, have crouched too long in

The bruising darkness,

Have lain too long

Face down in ignorance.

Your mouths spilling words

Armed for slaughter.

 

The rock cries out today, you may stand upon me,

But do not hide your face.

Across the wall of the world,

A river sings a beautiful song,

Come rest here by my side.

 

Each of you a bordered country,

Delicate and strangely made proud,

Yet thrusting perpetually under siege.

Your armed struggles for profit

Have left collars of waste upon

My shore, currents of debris upon my breast.

Yet, today I call you to my riverside,

If you will study war no more.

 

Come, clad in peace and I will sing the songs

The Creator gave to me when I

And the tree and stone were one.

Before cynicism was a bloody sear across your brow

And when you yet knew you still knew nothing.

The river sings and sings on.

 

There is a true yearning to respond to

The singing river and the wise rock.

So say the Asian, the Hispanic, the Jew,

The African and Native American, the Sioux,

The Catholic, the Muslim, the French, the Greek,

 

The Irish, the Rabbi, the Priest, the Sheikh,

The Gay, the Straight, the Preacher,

The privileged, the homeless, the teacher.

They hear. They all hear

The speaking of the tree.

 

Today, the first and last of every tree

Speaks to humankind.

Come to me, here beside the river.

 

Plant yourself beside me, here beside the river.

Each of you, descendant of some passed on

Traveller, has been paid for.

 

You, who gave me my first name,

You Pawnee, Apache and Seneca,

You Cherokee Nation, who rested with me,

Then forced on bloody feet,

Left me to the employment of other seekers—

Desperate for gain, starving for gold.

 

You, the Turk, the Swede, the German, the Scot…

You the Ashanti, the Yoruba, the Kru,

Bought, sold, stolen, arriving on a nightmare

Praying for a dream.

 

Here, root yourselves beside me.

I am the tree planted by the river,

Which will not be moved.

I, the rock, I the river, I the tree

I am yours—your passages have been paid.

Lift up your faces, you have a piercing need

For this bright morning dawning for you.

History, despite its wrenching pain,

Cannot be unlived, and if faced with courage,

Need not be lived again.

 

Lift up your eyes upon

The day breaking for you.

Give birth again

To the dream.

 

Women, children, men,

Take it into the palms of your hands.

Mold it into the shape of your most

Private need. Sculpt it into

The image of your most public self.

Lift up your hearts.

Each new hour holds new chances

For new beginnings.

Do not be wedded forever T

o fear, yoked eternally

To brutishness.

 

The horizon leans forward,

Offering you space to place new steps of change.

Here, on the pulse of this fine day

You may have the courage

To look up and out upon me,

The rock, the river, the tree, your country.

No less to Midas than the mendicant.

No less to you now than the mastodon then.

 

Here on the pulse of this new day

You may have the grace to look up and out

And into your sister’s eyes,

Into your brother’s face, your country

And say simply

Very simply

With hope

Good morning.

 

 

ANCORA SORGO

 

Mi potrai denigrare nella storia

Con odiose menzogne travisanti,

Potrai schiacciarmi nel letame

Ma ancora, come polvere, mi saprò levare.

 

La mia sfacciataggine ti offende?

Perché sei così tetro?

Perché cammino come avessi un giacimento

Da cui estraggo petrolio nel salotto?

 

Proprio com’è per la luna e per il sole,

Con la certezza delle maree,

Proprio come il librarsi di speranze,

Ancora saprò sorgere.

 

Tu volevi vedermi avvilita?

Testa china ed occhi bassi?

Spalle cadenti come lacrime,

Infiacchita da pianti disperati?

 

Il mio orgoglio ti offende?

Ma non prenderla sul tragico

Perché rido come avessi giacimenti

D’oro nel mio cortile da scavare.

 

Mi puoi sparare con le tue parole,

Coi tuoi occhi mi puoi  perforare,

Col tuo odio puoi uccidermi,

Ma ancora come l’aria mi saprò levare.

 

La mia sensualità ti turba?

È per te una sorpresa

Che io danzi come avessi dei diamanti

Lì dove si uniscono le cosce?

 

Dalle baracche della vergogna della storia

Io sorgo

Da un passato radicato nel dolore

Io sorgo

Sono un oceano nero, vasto e danzante,

Sgorgando e gonfiandomi ho in me la marea.

Abbandonando le notti di paura e terrore

Io sorgo

Nell’alba di un giorno meravigliosamente chiaro

Io sorgo

Con me ho i doni dei miei antenati,

Sono sogno e speranza dello schiavo.

Io sorgo

Io sorgo

Io sorgo.

 

 

STILL I RISE

 

You may write me down in history

With your bitter, twisted lies,

You may trod me in the very dirt

But still, like dust, I’ll rise.

 

Does my sassiness upset you?

Why are you beset with gloom?

‘Cause I walk like I’ve got oil wells

Pumping in my living room?

 

Just like moons and like suns,

With the certainty of tides,

Just like hopes springing high,

Still I’ll rise.

 

Did you want to see me broken?

Bowed head and lowered eyes?

Shoulders falling down like teardrops,

Weakened by my soulful cries?

 

Does my haughtiness offend you?

Don’t you take it awful hard

‘Cause I laugh like I’ve got gold mines

Diggin’ in my own backyard.

 

You may shoot me with your words,

You may cut me with your eyes,

You may kill me with your hatefulness,

But still, like air, I’ll rise.

 

Does my sexiness upset you?

Does it come as a surprise

That I dance like I’ve got diamonds

At the meeting of my thighs?

 

Out of the huts of history’s shame

I rise

Up from a past that’s rooted in pain

I rise

I’m a black ocean, leaping and wide,

Welling and swelling I bear in the tide.

 

Leaving behind nights of terror and fear

I rise

Into a daybreak that’s wondrously clear

I rise

Bringing the gifts that my ancestors gave,

I am the dream and the hope of the slave.

I rise

I rise

I rise.

 

DONNA FENOMENALE

 

Le donne graziose si chiedono dove stia il mio segreto.

Non sono vezzosa né ho un corpo da modella

Ma quando inizio a dirlo

Pensano che io menta.

 

Io dico,

È nell’apertura delle mie braccia,

Nell’ampiezza dei miei fianchi,

Nell’andatura dei miei passi,

Nella curva delle mie labbra.

 

Sono una donna

In modo fenomenale.

Una donna fenomenale,

Ecco chi sono.

 

Entro in una stanza

Distaccata quanto vi pare

Vado verso un uomo

Gli altri stanno in piedi o

Cadono in ginocchio

Poi mi sciamano intorno

Un nugolo di api.

 

Io dico

È il fuoco che ho negli occhi

E il balenio dei miei denti

Il mio ancheggiare

E la gioia dei piedi.

 

In modo fenomenale.

Una donna fenomenale.

Ecco chi sono.

 

Gli stessi uomini si sono chiesti

Cosa vedano in me

In ogni modo tentano

Ma non riescono a sfiorare

Il mistero che è in me.

Quando tento di mostrarlo

Ancora dicono di non riuscirci.

 

Io dico

È nell’arco della mia schiena

È il sole del mio sorriso

È l’attrazione dei miei seni

La grazia del mio stile.

 

In modo fenomenale.

Una donna fenomenale.

Ecco chi sono.

 

Ora capite

Perché non piego la testa

Perché non grido né mi metto a saltare

O devo parlare a voce alta

Quando mi vedete passare

Dovreste essere orgogliose.

 

Io dico

È il ticchettio dei miei tacchi,

L’onda dei capelli,

Il palmo delle mani,

Il bisogno di aver cura di me.

 

Perché sono una donna

In modo fenomenale.

Una donna fenomenale

Ecco chi sono.

 

PHENOMENAL WOMAN 

Pretty women wonder where my secret lies.

I’m not cute or built to suit a fashion model’s size

But when I start to tell them,

They think I’m telling lies.

 

I say, It’s in the reach of my arms

The span of my hips,

The stride of my step,

The curl of my lips.

I’m a woman

Phenomenally.

Phenomenal woman,

That’s me.

 

I walk into a room Just as cool as you please,

And to a man,

The fellows stand or

Fall down on their knees.

Then they swarm around me,

A hive of honey bees.

 

I say,

It’s the fire in my eyes,

And the flash of my teeth,

The swing in my waist,

And the joy in my feet.

 

I’m a woman

Phenomenally.

Phenomenal woman,

That’s me.

 

Men themselves have wondered

What they see in me.

They try so much

But they can’t touch

My inner mystery. When I try to show them

They say they still can’t see.

 

I say, It’s in the arch of my back,

The sun of my smile,

The ride of my breasts,

The grace of my style.

 

I’m a woman

Phenomenally.

Phenomenal woman,

That’s me.

 

Now you understand

Just why my head’s not bowed.

I don’t shout or jump about

Or have to talk real loud.

When you see me passing

It ought to make you proud.

 

I say,

It’s in the click of my heels,

The bend of my hair, the palm of my hand,

The need of my care,

‘Cause I’m a woman

Phenomenally.

Phenomenal woman,

That’s me.