Io sono il Nordest – Antologia di scrittrici del Veneto, Venezia Giulia, Trentino. Apogeo Editore

Sono onorata di essere  parte di questo gruppo di  scrittrici che raccontano un territorio, il Nordest, dalle caratteristiche uniche, in un’antologia di racconti edita da Apogeo Editore, che verrà presentata ufficialmente al pubblico il 20 marzo 2016 a Padova e successivamente in molte altre città. Io sono nata a Roma, ma Padova è la mia città da quando avevo due anni, a parte i miei soggiorni all’estero. Qui sono nati i miei figli, qui ho legami e affetti, qui ha svolto il suo magistero mio padre, qui ho legami col territorio e dunque nel mio racconto ho voluto intrecciare Nord e Sud, donne, situazioni e mentalità apparentemente diverse ma che, alla radice, hanno un comune denominatore: la forza di affrontare la vita, le sue crudeltà, le sue dolcezze e le sue bizzarrie.   Inoltre i proventi della pubblicazione andranno a un progetto che sta a cuore a tutte noi. 

 

Francesca Diano

 

“IO SONO IL NORDEST”

Amore, violenza, lavoro, famiglia, relazioni, potere

Sullo sfondo il Nordest, territorio in bilico tra crisi e rinascita

L’antologia di Apogeo Editore

Racconti di Antonia Arslan, Isabella Bossi Fedrigotti, Irene Cao, Mary B. Tolusso, Gabriella Imperatori, Barbara Codogno, Federica Sgaggio, Michaela K.Bellisario, Francesca Diano, Elena Girardin, Anna Laura Folena, Annalisa Bruni, Antonella Sbuelz, Micaela Scapin, Maria Pia Morelli, Serenella Antoniazzi, Irene Vella, Francesca Visentin

Le voci più rappresentative delle scrittrici di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino, raccontano 18 storie indimenticabili.

Il titolo “Io sono il Nordest” vuole rendere protagonista ognuna delle autrici, ma anche tutte le donne del Nordest, la loro forza e quello sguardo speciale che hanno sulla vita.

Ogni racconto è la fotografia di una realtà, spesso brutale o difficile.

I racconti sono legati da un percorso coerente, anche se espressioni di scrittrici diverse e sono carichi di speranza, sebbene testimoniano storie di crisi, di rapporti egoistici e strumentali tra uomini e donne, in cui alle donne è negata la possibilità di essere fino in fondo persone – scrive Marina Salamon nella prefazione del libro – . Possiamo scegliere ogni giorno di crescere, imparare, evolvere la nostra storia attraverso le testimonianze di altre vite”.

Il libro, curato dalla giornalista Francesca Visentin, nasce da un’idea dell’editore Paolo Spinello di Adria, che l’ha realizzato con la sua casa editrice Apogeo. L’immagine di copertina è dell’art director Giorgio Maggiolo e ritrae Maria Giulia Zorzato, ragazzina di 11 anni di Padova, simbolo di forza, entusiasmo, fiducia nel futuro.

La vendita del libro “Io sono il Nordest” sostiene il Centro Veneto Progetti Donna e vuole contribuire al finanziamento delle case di fuga, luoghi segreti che mettono in salvo e al sicuro le donne vittime di violenza.

 

 

Il quadro

Emilio Vedova, Compresenze 1981

Emilio Vedova, Compresenze 1981

 

Per ricordare anche quelli che non hanno lasciato alcuna traccia del loro passaggio.

 

La soffitta angusta era quasi soffocante, anche se fuori era freddo e il luogo non era riscaldato. Le pareti, grigie e scrostate, appena visibili alla luce livida che filtrava dall’esterno, parca, da un’unica finestra posta in alto. Chissà se c’era ancora qualcuno rimasto nel ghetto… Per quanto ne sapeva, quasi tutti gli altri erano stati portati via nel corso di rastrellamenti che non avevano lasciato respiro o tempo per pensare. Portati  chissà dove, ma certo non in un luogo di paradiso.

Qualcuno diceva che i treni su cui li caricavano finissero in campi di prigionia. Li aveva visti allontanarsi con lo sguardo trasognato, come se non si stessero rendendo conto di quello che davvero stava loro succedendo. Quasi volessero illudersi che fosse tutto normale. Che fosse solo un intermezzo. O quasi. Che poi sarebbero tornati alle loro case, a riprendersi una quotidianità che già aveva perso gradualmente, giorno dopo giorno, la sua normale integrità, senza che si fossero resi conto delle sottrazioni costanti. Gli era sembrato l’orrore più grande quello sguardo perso, anestetizzato, in fondo al quale persino la paura s’era spenta come la fiammella di una candela soffocata da un bicchiere.

Era riuscito a nascondersi lassù, chiuso in un bugigattolo senza luce, ma sapeva che sarebbe sfuggito solo per poco a quegli esseri che avevano rinunciato ad ogni umanità. L’avrebbero trovato presto, perché Moishele, nel corso della tortura, doveva aver rivelato il passaggio che portava alla soffitta. Gli restava poco tempo. Pochissimo tempo. Ma non gli importava. Che lo ammazzassero pure. La sola cosa che gli premeva era di finire il suo quadro. Una tela quadrata, di un metro e mezzo per uno e mezzo.

Era un ammasso di linee apparentemente confuse, ma in cui lui ravvisava un ordine perfetto, un’armonia divina. Era il caos prima della creazione, un universo in formazione, una galassia in cui esplodevano i neri, i bianchi, i gialli e gli ocra con delle punte di rosso cinabro. Era l’energia libera della materia vitale. La vita che pulsava con tutta la sua armonica violenza. Dipingeva come un invasato, seduto lì davanti al suo testamento fatto di colori. Un urlo di libertà. Qualcuno l’avrebbe trovato, qualcuno doveva trovarlo dopo la sua morte. Doveva finirlo, finirlo al più presto. Poi l’avrebbe nascosto da qualche parte e qualcuno l’avrebbe trovato.

Lo avevano arrestato e portato già alcune volte in quella stanza orrenda. <<Tu, lurido ebreo. Tu non dipingerai più quella merda>>, gli avevano urlato, mentre lo picchiavano sotto le piante dei piedi. Il dolore insopportabile si propagava come una scossa costante a tutto il suo corpo e lo faceva urlare. Ma dentro non lo avrebbero piegato. <<La tua è una pittura sovversiva. Voi volete distruggere la civiltà occidentale, luridi ebrei>>. Lo avevano picchiato anche sulle mani e gliele avevano quasi maciullate. <<Adesso va’ a dipingere i tuoi quadri!>> gli avevano sibilato nell’orecchio buttandolo sulla strada mezzo morto.

Ora dipingeva seduto sullo sgabelletto, rattrappito su se stesso, ma carico di un’energia piena d’affanno. Avrebbe finito la sua opera. Doveva finirla. Finirla significava asserire la libertà dell’arte, la libertà di ogni essere umano di fronte alla bestialità dell’ignoranza e dell’odio. La bellezza di fronte alla morte dell’anima. Di fronte al mostruoso guscio vuoto che resta quando anima e coscienza abbandonano la materia vivente.

Presto. Doveva fare presto. L’angoscia di non avere il tempo sufficiente lo attanagliava e allora  stendeva i segni di colore con raddoppiata energia, con la velocità del fulmine,  con la forza della disperazione.

La porta si spalancò con violenza. Un ufficiale delle SS entrò accompagnato da tre soldati armati di mitragliette. Gli spararono una sventagliata di colpi alla schiena. Non ebbe nemmeno in tempo di voltarsi. Crollò a terra, come un ammasso di poveri stracci. Aveva ancora il pennello stretto nella mano rattrappita.

L’ufficiale gli si avvicinò e gli sparò un colpo alla nuca. Lo lasciarono lì. Presero la tela, la sfasciarono e la portarono giù. Poi le diedero fuoco. Nessuno doveva ricordare il passaggio su questa terra di quel rifiuto umano e dei suoi immondi rigurgiti colorati.

Era un giorno freddo del 1944. Un giorno quasi come un altro, in un ghetto dell’Europa centrale.

 

(C) 2016 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA


Salvatore Martino – Il Minotauro

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Teseo e il Minotauro – Kylix attica. Museo del Louvre

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Nel piccolo parlour che è questo mio blog, nelle cui librerie e sui cui tavolini sono disseminati, nell’ordine che segue  le mie curiosità e gli interessi che in me prevalgono in quel  momento, i taccuini e le note delle mie riflessioni, delle mie idee, delle mie traduzioni, dei miei testi, ogni tanto, non spesso,  offro un the, dei sandwich al cetriolo e qualche fetta di Victoria sponge cake a qualche ospite la cui conversazione cattura più di altri la mia attenzione e con cui il dialogo è diventato più profondo di un semplice saluto. E’ un luogo sereno, dove si sta bene in ristretta compagnia, o anche da sola, ascoltando le molte voci del passato o del presente, ma che vengono da lontano e a cui posso dare voce. Non amo compagnie troppo numerose e per natura  sono molto selettiva (e sì, so che è un brutto difetto!) ma il criterio di questa mia selezione è unicamente quello dell’effetto che il suono di una voce produce dentro di me. Se stride, se dà fastidio alle mie orecchie interiori, se suona fessa (nel senso di spiacevole o sorda), lascio perdere. Ma ci sono voci che risuonano nel profondo, che scavano e si dilatano in un’eco capace di evocare idee ed emozioni forti. Così ho trovato che la voce di Salvatore Martino ha questo potere. Perché attinge al Mito e lo rilegge come strumento di analisi di se stesso e del presente. Una posizione che condividiamo. Si dice sia sempre bene frequentare spiriti affini.

Però a Salvatore, che viene dalla culla del Mediterraneo e da luoghi in cui il Mito intride ancora l’aria, la terra e il mare, non potevo offrire the e tramezzini al cetriolo. Per questo ospite ci vogliono aromi e sapori forti: al Mito i salotti vanno stretti e i suoi sussurri sono rombi di tuono.

“Il dàimon costringe l’uomo a vivere miticamente”, ha detto James Hillman e per chi ha il coraggio di arrenderglisi, questo è vero. Salvatore Martino, che di Mito ne capisce, mi ha fatto generoso dono del suo Minotauro. Impossibile non spalancare le porte a questa creatura formidabile. Se non c’è Mito che non parli dell’uomo, che non sia strumento di precisione per la comprensione della psiche umana, quello del Minotauro, stravolto per troppo tempo da una lettura disseminata di luoghi comuni, parla della gabbia che ci costruiamo, della confusione tra sogno e realtà, dell’illusione, della necessità di morire per rinascere. E non a caso è collegato al volo di Icaro. Ma anche alla violenza e determinazione con cui Teseo – uccidendo il Minotauro – in realtà lo libera.

Ecco, parlando del Minotauro, Salvatore Martino parla di sé, dà nuova vita al mito lasciandosene possedere, leggendolo con gli occhi di un quotidiano che si trasforma continuamente sotto l’incalzare del suo dàimon.  Il percorso è dalla costrizione del labirinto alla liberazione attesa. Eppure quella liberazione che forse alla fine verrà, è temuta. Quasi angosciante. Tanto più vi si avvicina, tanto più inventa percorsi convoluti per allontanarsene. Costruisce dentro di sé  immagini del tempo, dei luoghi, di cose e persone, cui tende le braccia e da cui poi fugge. Il Minotauro di Salvatore Martino è una creatura pirandelliana, fantasima di se stesso, creatore di se stesso e della propria realtà, eppure solido corpo senziente.

E davvero l’uomo vuole essere libero? Lo vuoi davvero? chiede il dàimon.

Francesca Diano

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Il Minotauro   

da La tredicesima fatica   1986 

*

 

Nella penombra della costruzione

indovino presagi del delirio

le fenditure adatte per la fuga

il successivo giorno di mistero

 

Incatenàti alberi sopra la mia testa

un luccichio perverso delle mappe

possibili ingannevoli sortite

concave scale illudono

codesto labirinto spalancato

 

Controllo a sera tutti gli orologi

invento libri sopra il comodino

dimentico reperti occhiali passi

storie mai udite raccontare prima

casseforti che certo mi appartengono

e delle quali non possiedo chiavi

 

A volte mio malgrado mi addormento

cercando di oscurare Pasifae dai miei sogni

come un drammatico passo di alegria

un teorema di geometria risolto

i volti disperati delle vittime

– teneramente mi guardano

dal gorgo d’ineffabile sorriso

all’angolo diviso del quarto corridoio –

 

Così allontano da me

il sospetto di non essere nato

riannodo la trama sottile del discorso

da lungo tempo intrecciato con le pietre

che in un letargo diverso simularono

il volto irripetibile di Dio

 

Non so se mai mi sveglierò dal sonno

che alimenta delicati mattini

le passeggiate tra Celio e Palatino

la casa sopra i Colli Portuensi

la passione per calcio e pugilato

l’Antiquarium devastato dall’erba

il rumore ormai non familiare

del tredici del trenta

ancora verdi qualcuno giallo-arancio

Un’alba forse mi sorprenderà

a ricercare nella pattumiera

il filo trafugato dalla donna

mentre l’eroe officiava

la sua nonesistenza

In un sussurro indicherà

il nirvana impossibile

come trovare bevanda dell’oblio

insinuerà dentro di me il sospetto

che nessun uomo mai profanerà

il perfetto labirinto circolare

 

Un incubo diverso allora sogno

 

In quale modo affronterò la luce?

avvertirà l’orecchio le parole

aduso al naufragare dell’orologio?

Come risulterà lo specchio

da sconosciuta immagine trafitto?

 

I suoni apparterranno a scale

di note irraggiungibili

la bocca tenterà un sussulto

se appena l’accarezzeranno

il freddo improvviso della lama

dolcemente calato nella gola

 

Ogni sera percorro l’accaduto

immagino alla fine

la mia pelle resistere alla spada

forse allora non avrò più sangue

riconoscendo il volto di Arianna

venuta a liberarmi

 

(C) by Salvatore Martino RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Salvatore Martino  è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969) ,La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012) . Nel 2015 è uscita la raccolta dell’opera completa, Cinquantanni di poesia (1962 – 2013) 
È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010 ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli