Intervista a Tim Parks

Tim Parks

Tim Parks

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tim Parks è, come molti sanno, un signore britannico, nato a Manchester,  che vive da moltissimi anni in Italia e, per certi versi, la conosce più di molti italiani e per due motivi: la osserva dall’interno e contemporaneamente dall’esterno. La  (ci) osserva con grandissima attenzione, acuta curiosità e cura estrema. Questa sua meticolosità (tratto che lui stesso menziona in questa intervista) è riflessa nelle attività che il suo carattere e il destino lo hanno portato a svolgere; scrittore, traduttore, docente di traduzione specialistica allo IULM e molte altre cose. I suoi molti romanzi, Lingue di fuoco, Europa, Il destino di Cleaver, Il sesso è vietato, per non citarne che alcuni tradotti in italiano, e i molti saggi, Italiani, Un’educazione italiana, Questa pazza fede, La fortuna dei Medici, Insegnaci la quiete, Italian Ways, Tradurre l’inglese, solo per menzionare pochi titoli, sono ricchissimi di questa vista acuta come un rasoio, attentissima e talvolta impietosa,  ma mitigata sempre da un’elegante ironia. Dote senza la quale la vita sarebbe pesante e forse invivibile. E di pesante in Tim Parks non c’è proprio nulla.

Ma la mia curiosità questa volta era per il traduttore. Parks ha alle spalle una ricchissima esperienza di traduttore, cioè di traghettatore di una cultura verso un’altra – che è il vero scopo della traduzione. Moravia, Tabucchi, Calvino, Calasso sono alcuni degli autori che ha tradotto dall’italiano. Ma la grande sfida per un traduttore è tradurre i grandi capolavori del passato che spesso si leggono in una lingua non più nemmeno corrente nel proprio paese e dunque complessa da affrontare oggi. Ho il sospetto che Parks, che è un grande scrittore contemporaneo, ami molto le sfide, altrimenti come avrebbe potuto affrontare prima Machiavelli e ora lo Zibaldone di Leopardi?  Roba da far tremare i polsi a chiunque. Non solo a uno straniero, per quanto profondo conoscitore della nostra cultura, della nostra lingua, della nostra letteratura e delle nostre idiosincrasie, ma perfino a un italiano, dato che questo è il paese in cui si pubblicano, assurdamente per me,  “traduzioni” in italiano moderno di grandi classici del passato.

Perciò questa sua impresa eroica di affrontare un testo che è un abisso come lo Zibaldone, mi ha spinta a porgli qualche domanda, a cui Parks ha risposto molto gentilmente e pazientemente. Da traduttrice letteraria da oltre 30 anni e come figlia del maggiore traduttore del ‘900 dei tragici greci, il tema della traduzione dei grandi mi sta molto a cuore. Voglio anche riportare un bell’articolo di Parks sul ruolo (misconosciuto e sottostimato) del traduttore, comparso su The Guardian nel 2010, in cui Parks dispiega tutto il suo acume, la sua esperienza, la sua passione e la sua ironia per sostenere il ruolo fondamentale che ha un traduttore letterario nella cultura del suo paese.

http://www.guardian.co.uk/books/2010/apr/25/book-translators-deserve-credit

Ringrazio Tim Parks per la sua generosa disponibilità e per la sua gentilezza.

F.D.

 

 

D. Nello Zibaldone (19 ottobre 1821) Leopardi afferma: “[…] una tal lingua può […] adattarsi alle costruzioni e all’andamento di qualsivoglia altra lingua con somma esattezza. Ma l’esattezza non importa la fedeltà ecc. ed un’altra lingua perde il suo carattere e muore nella vostra, quando la vostra nel riceverla, perde il carattere suo proprio, benché non violi le sue regole gramaticali. Omero dunque non è Omero in tedesco, come non è Omero in una traduzione latina letterale, giacché anche il latino così poco adattabile, pur si adatta benissimo alle costruzioni ecc. massimamente greche, senza sgrammaticature, ma non senza perdere il suo carattere, né senza uccidere e  se stesso, e il carattere dell’autore così tradotto. […] Laddove la lingua italiana […] può nel tradurre, conservare il carattere di ciascun autore in modo ch’egli sia tutto insieme forestiero e italiano. Nel che consiste la perfezione ideale di una traduzione edell’arte di tradurre.”  E, pochi giorni prima aveva scritto: La piena e perfetta imitazione è ciò che costituisce l’essenza della perfetta traduzione.” Lei sta traducendo lo Zibaldone di Leopardi. Sta dunque traducendo non solo un grandissimo poeta e pensatore, ma anche un grandissimo traduttore, le cui idee sulla traduzione sono modernissime e anticipatrici. Trova che queste parole di Leopardi si attaglino alla sua esperienza di traduttore, in particolare di grandi autori italiani del passato? Può essere, in qualche modo, una traduzione, una sorta di nuova creazione?

 R. Innanzi tutto mi sembra pertinente l’osservazione di Leopardi che anche quando una lingua accetta le forme grammaticali dell’altra, non vuol dire che la traduzione sarà bella o fedele; le forzature nella traduzione,  dove non ce ne sono nell’originale, sono una grave infedeltà. Non credo però che questa sia un’idea particolarmente nuova, né che le idee che Leopardi aveva in questo campo siano modernissime e anticipatrici. Humbolt e Schleiermacher erano tutti e due più o meno dello stesso avviso. Anzi non credo che il ventesimo secolo, con tutta la sua furia di Translation Studies, abbia aggiunto nulla di sostanziale a quello che già era stato pensato e scritto sulla traduzione.

Per quanto riguarda la mia traduzione di una selezione dallo Zibaldone, deve per forza essere una nuova creazione, in quanto deve dare voce a questi passi di Leopardi in una lingua e in un tempo piuttosto lontani dall’originale. Detto questo, ogni mio atto creativo è volto a recuperare quello che io comprendo e sento nell’originale, che è una creazione molto, ma molto più importante della mia.

 D.  Lei ritiene che si possa parlare di “teoria e scienza della traduzione”, o “traduttologia” secondo la definizione di Berman? E se sì, in che senso? Potrebbe essere un diverso modo di definire qualcosa che è sempre stato il bagaglio di un vero traduttore, e cioè un’approfondita analisi filologica, un rigore critico e una profonda conoscenza del testo, dell’autore e della cultura cui appartiene? 

 R. Non credo alla possibilità di una teoria rigorosa e sistematica. È possibile però trovare modi utili per esprimere quello che l’esperienza e l’osservazione hanno fatto capire. Devo dire che pochi traduttori ci riescono, ma qualcuno lo fa, riesce cioè a farci capire quello che è in gioco nelle infinite scelte che ogni traduzione, per quanto umile, richiede.

 

 D. Lei è un profondo conoscitore del nostro paese e della nostra cultura, ma è anche uno scrittore. Quanto incide, nella sua attività di traduttore, la sua attività di scrittore, o viceversa? Trova che questo la aiuti nel tradurre e trova delle differenze – al di là di quello che potrebbe apparire ovvio ed evidente –  fra lo scrivere i suoi testi e il tradurre testi di altri autori? E crede che, per un traduttore letterario, sia importante essere anche, se pur non solo, uno scrittore?

 R. Credo che si possa tradurre benissimo senza essere affatto uno scrittore, anche se bisogna ovviamente saper scrivere, che è tutt’altra cosa. Per uno scrittore tradurre è una forma di evasione, perché  non gli chiede di decidere cosa scrivere, ma solo di cercare di trasporre l’altro testo nella propria lingua. Per certi aspetti tradurre può essere più difficile, tecnicamente e intellettualmente che non lo scrivere, ma comunque, su un altro piano, è pur sempre più facile. Per quanto mi riguarda, tradurre mi aiuta a riconoscere  lo stile che mi è proprio, in quella tensione inevitabile che emerge tra lo stile dell’originale e il modo in cui io sono tentato di renderlo in inglese. Ho imparato moltissimo dalle traduzioni che ho fatto.

 

D.  Un suo libro particolarmente prezioso per chi si occupa di traduzione letteraria è Tradurre l’inglese, in cui lei dimostra, con metodo comparativo, come sia molto facile cadere in fraintendimenti, quando non i errori macroscopici, sia per disattenzione (il che è grave), che per poca conoscenza dell’autore, della lingua e della cultura originale (il che è ancora più grave). Ritiene che gli editori italiani siano troppo poco attenti nell’affidare certi autori a traduttori non sempre così esperti?

 R. Non solo gli editori italiani… non si fa che lodare la letteratura, si insiste nel dire che è il sommo prodotto di un’arte raffinatissima, e poi si smistano le traduzioni dei romanzi come se fossero compitini assegnati ai ragazzi in una colonia estiva. È rarissimo che un editore offra davvero il sostegno necessario a tradurre davvero bene un romanzo importante. Quando si pensa alle condizioni in cui vengono ritradotti in questo periodo i grandi classici degli anni venti e trenta del secolo scorso, ti viene da piangere.

 

D. Quali sono le caratteristiche che un traduttore letterario dovrebbe avere secondo lei?

 R. Al di là della conoscenza delle lingue e delle letterature delle due culture in questione, ho sempre pensato che bisogna possedere due qualità in evidente conflitto tra di loro: una straordinaria e rispettosa meticolosità e, simultaneamente, una grande, generosa, impazientissima creatività.

 

 (C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

 

 

 

Simone Gambacorta intervista Francesca Diano

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Riporto qui la bellissima intervista che gentilmente mi ha voluto fare Simone Gambacorta per il blog della Galaad Edizioni da lui curato. Ho conosciuto Gambacorta in occasione del Premio Teramo, che la Giuria ha generosamente voluto assegnarmi e  per il quale svolge l’oneroso e complesso ruolo di segretario (vedi organizzatore, coordinatore, angelo alla cui vista nulla sfugge). Lo ringrazio per la sensibilità con cui ha saputo  scegliere le domande, per nulla ovvie e per lo spazio che mi ha concesso.
http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=471 
Francesca Diano ha vinto nel novembre 2012 la XLII edizione del Premio Teramo con il racconto “Le libellule”. Nata a Roma, si è trasferita a Padova quando ancora era piccolissima, aveva infatti appena due anni, a seguito del padre, il celebre grecista, filologo e filosofo Carlo Diano, che era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Letteratura greca di Manara Valgimigli all’Università. Quando aveva dieci anni, Diego Valeri, colpito dalla sua scrittura, volle farle pubblicare delle poesie nella rivista «Padova e il suo territorio». Laureata in Storia della critica d’arte con Sergio Bettini, ha vissuto a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e ha tenuto corsi di Storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura. In Irlanda ha invece insegnato all’University College di Cork. Ha anche tenuto corsi estivi in lingua inglese di Storia dell’arte Italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha curato la prima traduzione in italiano, dal tedesco, della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl ed è stata la prima a tradurre in italiano “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland”, di Thomas Crofton Croker, il primo testo di leggende orali sulle isole britanniche. È la traduttrice italiana delle opere della scrittrice indiana Anita Nair. In questa intervista Francesca Diano, che è anche autrice del romanzo “La Strega Bianca”, parla della traduzione, ma soprattutto racconta la sua storia, il suo percorso professionale, il suo amore per la cultura e per tutto ciò che è pensiero.Penso a suo padre, il grecista Carlo Diano, e le chiedo: che cosa significa nascere e vivere in un ambiente familare di per sé intriso di cultura? Che tipo di porosità comporta, tutto questo? E in che modo indirizza o ispira le scelte che, più avanti, si compiranno?
«È una domanda a cui non saprei dare una risposta precisa, perché è come chiedere a un pesce cosa significhi nuotare nel mare, o a un uccello volare. Una cosa del tutto naturale. Se sei un pesce o un uccello, ovviamente. Ecco, il punto è questo. Si può essere immersi in un elemento che risponde alla tua natura – e questo è un dono della vita – oppure che non ti è congeniale e in questo caso l’ambiente non inciderà, oppure inciderà in senso negativo, per una sorta di rigetto. Per me è stato un grande privilegio – me ne sono resa conto solo quando tutto questo è finito – nascere figlia di quel padre, e ancora più fortunata mi ritengo per aver ereditato, assorbito. la sua sete di conoscenza. Il mondo in cui vivevo non era solo un ambiente intriso di letteratura ma – l’ho capito in seguito, confrontandomi con altre esperienze – una sorta di aristocrazia del pensiero, del meglio che il ‘900 abbia visto. E non solo in Italia, perché nella nostra casa arrivava un po’ tutto il mondo. Studiosi, filosofi, poeti, artisti, letterati, storici delle religioni, musicisti. Oltre a italiani, anche francesi, tedeschi, inglesi, svedesi, americani. La bambina che ero li guardava e li ascoltava con immensa curiosità. Ho avuto come padrino e madrina di battesimo Ettore Paratore e la sua bellissima moglie Augusta, nipote del grande Buonaiuti, che non è un cattivo esordio. Nella prima parte della mia vita sono vissuta in un mondo privilegiato, che a me pareva l’unico e in seguito l’impatto con altre realtà non è stato facile. Mi rendo conto che sono vissuta in un mondo scomparso, che se da una parte mi ha dato degli strumenti unici di approccio alla vita, dall’altra ora mi fa sentire come in esilio da una patria perduta. È un mondo che riesco a ritrovare però nei libri, nella gioia dello studio e della scrittura. E, forse perché ormai ho accumulato molti anni e molte vite, nel custodire quei ricordi. La stessa università di Padova raccoglieva contemporaneamente cervelli come mio padre, Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco, dei Maestri che davvero hanno aperto nuove strade. Personalità come queste hanno lasciato un vuoto non più colmato. Poi c’era la sterminata biblioteca di mio padre, da cui mi hanno parlato secoli di sapere, da cui attingevo in modo disordinato e vorace. Ho letto libri come “Vita di Don Chisciotte” di Miguel de Unamuno, o “Delitto e castigo”, o “Iperione” di Hölderlin a undici, dodici anni. Capivo la metà di quello che leggevo, ma era proprio quello che non capivo che mi affascinava. In quella biblioteca di oltre 10.000 volumi, c’erano le letterature di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e libri di filosofia, di arte, di critica, di scienze matematiche e naturali, di storia delle religioni, di teatro e molto altro e insomma era lo specchio della mente e del sapere di mio padre, che non è stato solo filosofo, grecista e filologo, ma anche pittore, scultore, poeta e compositore di musica. È stata la sua ecletticità che mi ha insegnato a essere curiosa di tutto, a non temere di esplorare campi non miei (se mai ho avuto dei campi miei), a inoltrarmi lungo vie ignote. Insomma, proprio come per le parti dei libri che non capivo, mi ha sempre attratto quello che non so. Non ho una mente accademica – e vedendo molti cosiddetti accademici di oggi la ritengo una cosa positiva – ma più di una curiosa, di un’innamorata del sapere. E questo è quello che di me più mi piace. Eppure, immersa in tutta questa sapienza e conoscenza, la lezione più grande che ho tratto da mio padre è stata di aver visto come tutto questo suo sterminato sapere non abbia mai soffocato in lui un’umanità traboccante, una generosità impetuosa e un’innocenza del cuore che ben pochi intellettuali possiedono. Spesso una mente cui si dà eccessivo spazio invade ogni altro campo della vita e soffoca e inaridisce il cuore. La sua mente era mossa dal cuore e non l’opposto. Sì, direi che è stato questo l’insegnamento più grande. Mio padre si è sposato piuttosto tardi e quando è morto avevo ventisei anni e già da tempo vivevo lontana. Spesso mi chiedo quanto sarebbe stato importante averlo accanto più a lungo, quanto ancora avrei imparato – ormai adulta – da lui, che dialoghi ricchissimi avremmo potuto fare. E quanto mi sarebbe stato preziosa la sua presenza in momenti difficili della mia vita. Ma ci sono le sue opere e, leggendo i suoi scritti e le sue carte, anche inedite, quel dialogo e quella vicinanza esistono comunque, pur se in modo diverso»

.Nella sua vita la poesia è arrivata molto presto, e nel nome di Diego Valeri…
«Per me la poesia è arrivata assai prima della prosa. Mi dicevano che da molto piccola parlavo in rima, quando ancora non sapevo leggere e scrivere. In effetti la poesia per me è sempre stata una questione di musica, di ritmo. All’inizio emerge da non so che recesso, fino a un istante prima silenzioso, una sorta di musica, una sequenza ritmica, priva di suoni e quella musica si traduce poi in due o tre parole o in un verso. E’ come uno spiraglio che si apre su qualcosa che vuole essere detto. È sempre stato così. Poi però arriva il lavoro più duro, quello di decodificare in un discorso poetico l’idea che a livello inconscio è molto chiara, ma deve affiorare alla coscienza e trovare la sua forma. Valeri, insieme alla sua compagna di affetti e di vita, Ninì Oreffice, è stato fra i primi amici di mio padre a Padova, insieme a Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco e, come tutti questi uomini eccezionali, mi voleva molto bene. Gli piacevo perché, anche a quattro o cinque anni, ero capace di rimanere ad ascoltare questi adulti che parlavano di cose che non capivo affatto ma che mi affascinavano, anche se poi, in realtà, nel quotidiano ero una specie di Gianburrasca. Quando sono nata mio padre, che è stato anche un grande poeta, scrisse per me una bellissima poesia in greco con la sua traduzione italiana e poi componeva molte filastrocche che mi cantava per farmi addormentare. Insomma, la poesia l’ho respirata. Tra i molti poeti che frequentavano casa nostra c’era Quasimodo, di cui ho ricordi bizzarri. Lui e mio padre erano molto legati; si erano conosciuti da giovani ed entrambi avevano avuto un padre capostazione e un inizio della vita difficile. Dunque, la poesia è stata per me un primo linguaggio, che mi pareva molto naturale e così, quando avevo dieci anni, Valeri volle far pubblicare tre delle mie poesie in rivista»

.Come storica dell’arte – il suo maestro è stato appunto Sergio Bettini – ha insegnato in Inghilterra e in Irlanda. Se non sbaglio, è nella storia dell’arte che trova inizio la sua attività di traduttrice: penso infatti alla traduzione dal tedesco della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl, che lei ha realizzato nel 1983 per l’editore Cappelli, firmando anche le pagine introduttive e gli apparati di note. A proposito di quella traduzione, che le valse anche una menzione speciale al Premio Monselice, vorrei porle due domande. Cominciamo dalla prima: che cosa ha significato, e che lavoro ha richiesto, affrontare un’opera così complessa e tecnica?
«Sì, a Londra tenevo dei corsi di storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura, poi un corso estivo a docenti americani all’Università per Stranieri di Perugia e un corso pubblico di arte italiana contemporanea all’University College di Cork. Mi sono molto divertita. «In effetti è vero, ho iniziato a tradurre nel “modo duro”, per così dire, perché tradurre Alois Riegl è un lavoro difficilissimo e di alta specializzazione, che non si può certo affrontare se non si hanno degli strumenti adeguati. Non so pensare a un modo più “brutale” di trovarmi a iniziare quella che poi sarebbe diventata, dopo molti anni, una delle mie attività. Ma Riegl è stata un’ottima scuola. Un Maestro come Sergio Bettini è la seconda grande fortuna che ho avuto nella vita. Lui e mio padre erano legati più che se fossero stati fratelli, erano l’uno per l’altro quel che in Irlanda si chiama «anam cara», spiriti, anime affini ed è stato proprio nel corso di una passeggiata in montagna, sopra Bressanone, dove alla fine degli anni ’50 mio padre aveva contribuito a fondare dei corsi estivi dell’Università di Padova, che negli intenti avrebbe dovuto essere una sorta di piccola università europea, che loro due si misero a discutere su quale argomento avrei dovuto scrivere la mia tesi. Era da poco stata pubblicata in Austria, a cura di Karl Swoboda e Otto Pächt, l’edizione postuma di alcune lezioni che Riegl aveva tenuto per gli studenti dei suoi corsi e l’argomento era interessantissimo: una grammatica storica delle arti figurative. Io avevo studiato tedesco, sia a scuola che con mio padre e così fu deciso che quello sarebbe stato l’oggetto della mia tesi. È per questo che la mia traduzione, pubblicata da Cappelli nel 1983, la prima traduzione italiana, è dedicata a Sergio Bettini e Carlo Diano. Riegl ha sempre posto dei grandi problemi ai suoi traduttori, motivo per cui le sue opere sono state tradotte parcamente e solo a partire dagli anni ’50 in italiano. In inglese addirittura molto dopo. Bettini era il maggior conoscitore italiano di Riegl e in un certo senso un diretto allievo della Scuola viennese di Storia dell’Arte. Anche mio padre conosceva il pensiero di Riegl e ha scritto splendide pagine, in “Linee per una fenomenologia dell’arte”, sul senso del “Kunstwollen”. I problemi posti dai testi di Riegl sono essenzialmente di due ordini: il primo è semantico e lessicale e il secondo ermeneutico. Il tedesco di Riegl è una lingua di una logica stringente, dall’architettura rigorosa e tuttavia estremamente complessa. Spesso però ci si trova di fronte a termini che lui stesso conia ex novo – come appunto “Kunstwollen” – e allora è necessario trovare un termine nuovo anche nella lingua di arrivo, ma che sia filologicamente corretto e preciso. Il che implica la conoscenza del suo pensiero, delle sue opere, dell’epoca e di quanto accadeva allora nel campo degli studi storico-artistici della Vienna del tempo. Ecco, non è un lavoro che chiunque possa fare, né tanto meno in tempo brevi, poiché richiede competenze tecniche, storiche, filologiche non indifferenti e, ovviamente, un’ottima conoscenza del tedesco. Per la mia tesi, all’inizio mi limitai a una lettura approfondita della “Historische Grammatik der bildenden Künste” e ne discussi a lungo con Bettini, che mi offrì delle chiavi interpretative fondamentali. Sicuramente senza il suo sostegno e aiuto non mi sarebbe stato possibile nemmeno il faticosissimo lavoro di traduzione. Solo in seguito iniziai la traduzione sistematica, che in tutto mi richiese oltre un anno e mezzo di lavoro e il saggio introduttivo, lavoro che poi fu pubblicato da Cappelli appunto nel 1983 e che fu presentato al Premio Monselice di traduzione, dove ricevette una menzione d’onore. Il testo fu poi adottato in molte università ed ebbi bellissime lettere di apprezzamento non solo dagli stessi Swoboda e Pächt, ma anche, tra gli altri, da Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Cesare Brandi e Filiberto Menna. Insomma, non ci si improvvisa traduttori di Riegl, magari sfornando una traduzione in pochi mesi avvalendosi di traduzioni già esistenti».

L’altra domanda è invece questa: qual è il valore culturale, nell’ambito della storia dell’arte, dell’opera di Riegl?
«È necessario dire che Riegl è stato un rivoluzionario, nonostante questa definizione poco sembri attagliarsi al suo carattere di rigoroso e metodico studioso dalla forma mentis squisitamente austro-ungarica. Eppure, dotato di una monumentale conoscenza dei materiali e delle tecniche, delle arti applicate – fu Curatore del reparto dei tessuti presso l’ Österreichischen Museum für Kunst und Industrie di Vienna – e di una solidissima formazione di storico dell’arte, esponente di spicco di quella che divenne nota come Scuola viennese di Storia dell’Arte, Riegl si incammina lungo una via nuova: la via che lo porterà alla creazione di una nuova estetica. Ciò che distingue Riegl dai suoi contemporanei, oltre alla necessità, per lui essenziale, di scoprire – scoprire, forse più che formulare – una teoria universale, oserei dire unificatrice, delle dinamiche artistiche, quale strumento di comprensione del farsi dell’arte dal suo stesso interno, delle sue origini e dei suoi «principia», è il coraggio di essersi avventurato su un terreno oscuro, scivoloso, incerto e sconosciuto: nelle sabbie mobili della ricerca di una chiave di lettura che abbia valore universale, ma allo stesso tempo non rigida o fissa, dei fenomeni artistici nel loro alterno manifestarsi nel flusso del tempo e dello spazio. Non rigida, ma fondante. Dunque il suo non può essere che un proceder cauto, come chi cammini su terreno tanto pericoloso e ignoto. Dei pericoli, Riegl è ben conscio. Questa è cosa che s’ha da aver chiara. E per questa ricerca egli crea di volta in volta delle categorie duttili e direi quasi plastiche. Questa chiave di lettura così unica, proprio perché elastica, capace di trasformazioni e mutamenti, direi prismatica, altro non è che ciò per cui Riegl conia il termine di «Kunstwollen». Il «fattore direttivo» appunto, come Riegl stesso lo definisce, tradotto da me, sulla scia di Bettini, con l’espressione «volontà d’arte», (e non un fuorviante «volere artistico», come da altri è tradotto). Una direzione. Una volontà appunto, come la direbbe con Schopenhauer. Un filosofo che Riegl non aveva affatto cancellato dal suo paesaggio. Ma anche un vettore. Capace di convogliare forze e proiezioni. Ed è per analizzare come di volta in volta, di civiltà in civiltà, questo motore della creazione artistica si sia manifestato, che Riegl scrive questa Grammatica storica. La «volontà d’arte» non è che una necessità profonda di espressione dell’uomo, che si concretizza in opere d’arte, non meno di quanto la necessità di espressione del pensiero si concretizzi nelle forme della lingua. Ho poi ritrovato, nella grammatica generativa di Noam Chomsky delle analogie sorprendenti. Alcuni anni fa tradussi poi per Neri Pozza un testo molto importante, “Vasari, le tecniche artistiche”, di Gerard Baldwin Brown, a cui premisi un mio saggio introduttivo. Il testo, pubblicato nel 1907, comprende la prima traduzione in inglese dei capitoli sulle tecniche artistiche delle “Vite” del Vasari, capitoli che non erano mai stati inclusi nelle versioni inglesi dell’opera, ma soprattutto è arricchito da un commentario vastissimo di Baldwin Brown, che è un’opera in sé. Dunque è vero che la mia anima di storica dell’arte è filtrata anche attraverso quella di traduttrice. Ma l’origine è più antica. L’arte della traduzione l’ho respirata fin da bambina, quando sentivo mio padre “cantare” a bassa voce i versi della sua traduzione delle tragedie greche che andava facendo. Magari durante una passeggiata, o mentre guidava, o mentre aveva le mani impegnate in un lavoro pratico. Gli piaceva moltissimo aggiustare le cose, anche se poi poco ci riusciva».

Uno dei suoi campi di studio è quello delle folklore e della tradizione orale irlandese. Com’è nato questo amore?
«Questa è una storia molto affascinante, perfino per me che l’ho vissuta, perché tutto nacque a Londra, in una libreria di libri antichi e usati. Proprio insomma come in un film o in una fiaba. E difatti, di fiabe si trattava. Fu in questa libreria che “fui trovata” – dire che lo trovai io è riduttivo, dato il destino che a quel libro mi lega – da un delizioso piccolo volume di autore anonimo, datato 1825 e pubblicato da John Murray, all’epoca il più importante editore inglese, che pubblicò anche il nostro Ugo Foscolo in esilio a Londra. Il titolo recitava “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland” ed era costellato di bellissime piccole incisioni. Il libraio antiquario, di cui ero diventata ormai amica perché ci passavo quotidianamente, me lo vendette a un prezzo irrisorio, 3 sterline e 6 scellini. A quell’epoca ignoravo tutto del folklore irlandese e, pur amando moltissimo le fiabe, le leggende e i miti, non mi ero mai interessata in modo specifico di folklore. Quel libro ebbe subito su di me una presa molto speciale e, nel leggerlo, mi rendevo conto che l’autore anonimo non doveva essere stata una persona qualunque, perché la cultura davvero enciclopedica che dispiegava nelle note poste alla fine di ogni leggenda era fuori del comune. Era un erudito ma allo stesso tempo uno scrittore pieno di ironia, fantasia, ampiezza di visione. E ancora più sorprendente era la struttura stessa dell’opera. Le varie leggende erano presentate più o meno così come evidentemente gli erano state narrate dalla gente contadina e l’intervento del Compilatore (così si autodefiniva nel testo l’autore anonimo) era limitato solo e unicamente ai ricchissimi commenti alla fine di ogni leggenda. Questa struttura mi colpì subito, perché la trovai molto moderna, anche per l’idea di commentare alla fine ogni leggenda. Evidentemente l’autore aveva voluto lasciare il massimo della spontaneità ai suoi racconti, soprattutto se paragonata alla raccolta dei fratelli Grimm, pubblicata tredici anni prima. Si sa che i Grimm infatti rielaborarono pesantemente le storie che avevano raccolto dalla bocca di signorine della buona società e soprattutto di Dorothea Viehmann, una donna dalla straordinaria capacità di narratrice e l’unica che avesse tratto le sue storie dalla bocca popolare. Una volta tornata in Italia decisi di tradurre per mio conto quel libro meraviglioso, anche per leggerle la sera ai miei bambini, a cui per anni ho raccontato e letto favole prima di dormire. Il modo più efficace per conoscere e capire veramente un’opera è tradurla, perché nel tradurre si entra dentro la sua struttura più profonda e si stabilisce un legame intimo con l’autore. E difatti fu soprattutto traducendolo che mi resi conto sempre di più dell’eccezionalità di quel libro e della sua struttura. Un’opera che nel 1825 era così moderna. Dunque mi pareva impossibile non sapere chi ne fosse l’autore. E perché quell’anonimato? Come mai un testo di leggende irlandesi era stato pubblicato a Londra e per di più dal maggiore editore del tempo? Così, spinta da tutte queste curiosità, che stuzzicavano la mia anima segreta di detective, mi misi alla ricerca delle risposte. Ma vivevo ormai in Italia e all’epoca non esisteva internet. In Italia l’opera era del tutto sconosciuta e all’epoca l’Irlanda non era ancora diventata di moda, come poi fu. Così mi ci volle molto tempo e ricerche e pomeriggi in biblioteca finché, un giorno, durante un breve soggiorno a Londra, trovai l’antologia di fiabe irlandesi pubblicata da W.B.Yeats nel 1888 ed ecco, tra quelle, due delle leggende della mia raccolta, ma…con il nome dell’autore: Thomas Crofton Croker! Che sorpresa e che emozione fu per me! Come scoprire la tomba di un faraone sconosciuto. Avevo il nome del mio autore. Da quel momento tutto fu più facile. Cominciai a trovare molto materiale, ovviamente in Inghilterra, attraverso i prestiti internazionali e le ricerche proseguirono per altri due anni. In tutto erano passati molti anni da quel pomeriggio nella libreria antiquaria, ma quello che accadde dentro di me fu qualcosa di inaspettato. L’amore, la passione che quel libro mi avevano acceso dentro, mi avevano sospinta lungo una strada di ricerca che pian piano mi aveva fatto scoprire l’Irlanda, il suo folklore, la sua storia, la sua cultura e la storia del mio amatissimo autore. Dunque è stato davvero un percorso interiore, una sorta di iniziazione, alla fine della quale ho trovato il mio tesoro. Una nuova vita, che poi mi ha portata anche in Irlanda, dove ho trovato ancor più di quanto mai mi potessi aspettare. Qualcosa di così unico che ne è nato un romanzo, “La Strega Bianca”».

Che rapporto ha stabilito con “quella” copia di Croker?
«Quella copia che è in mio possesso e che per me non è un libro, ma una parte della mia vita, oserei dire un essere che parla e respira, è una delle 600 pubblicate nel maggio del 1825 in forma anonima e che andarono esaurite in una sola settimana. Era la prima raccolta di leggende orali mai pubblicata nelle Isole Britanniche e per di più irlandesi. Croker è stato un personaggio straordinario. Nato a Cork, che allora era chiamata l’Atene d’Irlanda per l’intensità della sua vita culturale e per la ricchezza della sua economia, apparteneva all’Ascendency, cioé la classe dominante sia politicamente che economicamente in Irlanda, costituita dai discendenti degli “invasori” inglesi che vi giunsero durante il regno di Elisabetta I e, come tale, ancora oggi odiata. Fin da bambino dimostrò una passione molto singolare per tutto ciò che era antico o strano e a quindici anni si mise a girare le campagne del Munster per raccogliere dalla voce dei contadini racconti e leggende. A quella stessa età fondò, insieme ad alcuni amici, una società antiquaria e in seguitò contribuì a crearne molte altre. Era un ottimo disegnatore e incisore ed espose in mostre d’arte. A diciotto anni però rimase orfano di padre e andò a Londra, dove trovò impiego come cartografo all’Ammiragliato. A Londra conobbe il meglio dell’intellighentia del tempo e, dopo un primo libro sull’Irlanda, decise di tornare in patria per un breve periodo per raccogliere altro materiale. Da poco era stata pubblicata la traduzione inglese delle fiabe dei Grimm, da cui Croker era stato molto colpito, soprattutto dall’idea di preservare una tradizione che si andava perdendo e che invece costituiva lo spirito del popolo. Così, nel 1825 pubblicò questa raccolta, che ebbe un successo strepitoso, ebbe molte nuove edizioni e gli diede la fama. Fama che crebbe negli anni e ne fece uno dei maggiori protagonisti della vita culturale nella Londra vittoriana. Ma la prima edizione, quella del 1825, uscì in forma anonima perché, per varie circostanze, Croker aveva perso il manoscritto e dovette rimetterlo insieme in breve tempo. Così si fece aiutare da alcuni amici di Cork nel ricostruire vari testi e, per onestà intellettuale, non volle firmare questa edizione. I fratelli Grimm, che non lo conoscevano ma che l’anno precedente avevano letto la sua prima opera, ricevettero in dono da un amico di ritorno dall’Inghilterra questo testo e ne furono così colpiti da volerlo tradurre in tedesco e scrivere un importantissimo saggio introduttivo. Si può capire quanto si sentì onorato il giovane Croker nel vedere che i famosissimi fratelli avevano ritenuta degna della loro attenzione la sua opera e si mise subito in contatto con loro, svelando il proprio nome. Iniziò così una lunga amicizia e una collaborazione che prevedeva anche il progetto di una storia comparata del folklore europeo. Tuttavia questo progetto non andò mai in porto, almeno non nella forma che i tre avevano auspicato, né si incontrarono mai di persona. Le “Fairy Legends” comunque, non sono importanti solo per essere stata la prima raccolta di racconti orali mai pubblicata sulle Isole Britanniche, ma per il metodo di ricerca che ha fatto di Croker un pioniere della ricerca folklorica. E’ un metodo sul campo, per così dire, in cui massimo è il rispetto per gli informanti e per il sapore spontaneo della loro narrazione. Così pionieristico è questo metodo, che solo nel ‘900 esso è stato capito appieno e ripreso. L’opera di Croker però non si limitò a questo. Per tutta la sua vita – morì a 56 anni nel 1854 – seguitò a raccogliere e pubblicare materiale preziosissimo, sia sulle leggende che sulle canzoni popolari, che sulle tradizioni, tra cui quella della lamentazione funebre irlandese. Pur angloirlandese, fu proprio lui a far conoscere fuori dell’Irlanda l’immenso patrimonio orale per cui questa nazione è ancora oggi tra le più importanti al mondo. Nessun inglese, o angloirlandese, aveva mai ritenuto di prestare alcuna attenzione a una cultura che riteneva inferiore, come allora si pensava».

Ma che cosa è “diventato” per lei Thomas Crofton Croker?
«Croker è diventato un caro amico, direi un membro della mia famiglia, certo della mia vita e in effetti ancora oggi lavoro alle sue opere, che sono ancora tutte da scoprire qui da noi. Alcune di esse, in qualche modo offuscate dalla fama delle Leggende, note e amate in tutto il mondo e dal 1998 anche da noi, non sono ancora state abbastanza studiate. Devo così tanto al mio “Crofty” – così avevo preso a chiamarlo e poi rimasi allibita nello scoprire che proprio così lo chiamavano i suoi amici più intimi! – che vorrei ripagarlo almeno di una parte dei tesori e delle gioie che mi ha dato».

La traduzione italiana dell’opera ha avuto molto successo…
«Anche se mi ci sono voluti degli anni per trovare alle “Leggende” un editore – come ho detto, quando le proponevo l’Irlanda non era ancora di moda – poi l’opera fu pubblicata una prima volta da Corbo&Fiore e in seguito, in diversa edizione, nel 1998 da Neri Pozza, con cui all’epoca collaboravo attivamente come traduttrice e consulente editoriale. L’opera ha avuto numerose edizioni ed è ancora in stampa. Cosa rara oggi, che i libri hanno vita tanto breve. Ma, ovviamente, si tratta di un’opera immortale! Ho potuto verificare nel tempo di avere un certo “naso” per autori e opere da proporre. Ogni volta che l’ho fatto sono sempre stati dei successi editoriali».

Quali sono le differenze tra la traduzione di un’opera saggistica e la traduzione di un’opera letteraria?
«Questo è un problema che non mi sono mai posta in realtà, poiché non ho alcuna teoria della traduzione da seguire, mi sento forse più un’artigiana della traduzione. Proprio nel senso di arte applicata. Forse potrei desumere delle considerazioni a posteriori. Tradurre è un’arte, non vi sono dubbi, ma soprattutto una pratica, non teoria. Le teorie le lascio volentieri ai teorici. In quanto pratica, la si apprende col tempo e con l’eperienza, ma credo sia necessaria una predisposizione, come per tutte le cose. La predisposizione di cui parlo è forse il desiderio di condividere con gli altri il piacere o la gioia di una scoperta. Il mettere a disposizione di altri la conoscenza che da un’opera ci è giunta, ma anche una certa plasticità lingusitica e mentale. Ma, riflettendo sulla sua domanda, mi rendo conto che forse tutta questa differenza non c’è, se non per un aspetto. Sia nell’un caso che nell’altro è importante che il traduttore abbia il polso dell’autore e dell’argomento. Che conosca cioé l’oggetto di cui si tratta e la visione che vi sta dietro. Che abbia una conoscenza approfondita della lingua e della cultura che ha prodotto quel testo e, ovviamente, del suo autore. Questo, se non altro, per non incorrere in fraintendimenti pacchiani o per non trovarsi nell’impossibilità di capire il contesto, cosa che accade più spesso di quanto si creda. Tuttavia, quando si tratta di un’opera letteraria, credo che nessun bravo traduttore letterario possa non essere anche uno scrittore e, a maggior ragione, chi traduce poesia deve anche essere un poeta. Non tutti sono d’accordo su questo, soprattutto chi non è di suo scrittore o poeta, ma io invece sono convinta che sia fondamentale. Perché in un’opera letteraria uno degli aspetti essenziali è lo stile. Ogni autore ha il suo, un suo, per così dire, DNA dello scrivere, che lo caratterizza e che è parte inscindibile della sua poetica. Ora, se non si riconosce questo e se non ci si sforza di ricreare, pur nei limiti del possibile, quella specialissima “voce” nella propria lingua, si reca un enorme danno all’opera e al suo autore e se ne vanifica in buona parte il senso. Tutti sappiamo che la letteratura non è tanto e solo quel che si dice, ma come lo si dice. Ed è questa forse la maggiore difficoltà per ogni buon traduttore. Del resto, quel che è sempre emerso dal Premio Monselice e che Mengaldo ha anche sottolineato, è che i maggiori traduttori di poeti sono stati altri poeti. Ma, come dice il buon Schopenhauer, per andare lontano si deve avere qualcosa da scrivere. E che quel qualcosa ti stia a cuore. Ci sono opere la cui grandezza sta soprattutto nello stile, nella sonorità, nella luminosità della lingua. Penso, un esempio per tutti, a Kerouac e a quel suo inglese ora vellutato ora duro ora fumigante, non affatto prescindibile dalla sua scrittura. Ovviamente qui parlo di letteratura e non di semplice fiction o narrativa. Per quello è sufficiente essere buoni conoscitori della lingua, la propria e quella dell’autore. Farei invece una distinzione fra tradurre prosa e tradurre poesia. Che si tratti di versi ancorati al rigore della metrica o di versi liberi, il linguaggio poetico ha comunque in sé una musicalità, un’armonia intrinseca, una timbricità, che sono legati alle specifiche sonorità della lingua e che chiedono al traduttore un orecchio musicale o, per lo meno, un orecchio capace di percepirli. Ora, nel passaggio da una lingua romanza all’altra è ancora possibile conservare o ricreare quella sonorità originale, o almeno ci si può provare, ma da una lingua germanica a una romanza questo è più difficile, per non parlare poi di altre lingue dalla nostra ancora più lontane o di strutture metriche estranee all’italiano. Allora, in questi casi, sarà necessario trovare comunque una soluzione che in qualche modo sia eco del significato del testo. Un po’ come musicare un libretto d’opera insomma. Ma in realtà non saprei dire come poi emergano da dentro di noi certe soluzioni, certe risposte – sì, risposte – alla voce dell’autore che ci sussurra. Forse ci guida. Credo che si debba ascoltare. Tutto nasce dall’interazione fra chi siamo noi, di cosa siamo fatti, quanto sappiamo ascoltare e chi è l’autore. Un dialogo costante e uno scambio. Questo è il motivo per cui uno stesso testo, tradotto da uno, sarà diverso se tradotto da un altro. Ogni traduttore trova ciò che sa trovare».

Lei è anche la traduttrice della scrittrice indiana Anita Nair. Che cosa significa attraversare e ricreare le pagine di un’autrice che appartiene a un’area culturale completamente diversa? Torniamo a quanto abbiamo detto: dietro le quinte di una traduzione c’è un vero e proprio percorso di studio…
«È proprio così, è in parte quello che dicevo in precedenza. Tradurre è un modo profondo di conoscere, ma è anche una forte spinta alla conoscenza. Mi sono trovata a tradurre le opere di vari scrittori indiani, in realtà angloindiani, cioé autori indiani che hanno scelto di scrivere in inglese. In India, come si sa, l’inglese è non solo una lingua franca, ma anche il veicolo di quella cultura postcoloniale che ha dei complessi meccanismi ed esiti. Dunque, gli scrittori che in India scelgono di scrivere in inglese compiono una scelta precisa e cioé quella di scrivere per un mercato internazionale. Allora, anche i contenuti delle loro opere, in un certo senso, tengono d’occhio quello che, a loro avviso, a un pubblico occidentale può interessare dell’India. In un certo senso è un principio d’esclusione. La letteratura indiana moderna e contemporanea che si avvale di lingue diverse dall’inglese, è assai differente da quella che arriva in Occidente, sia nello stile che nei contenuti. Perché proprio diversa è la forma mentis. Lo stesso si può dire per i poeti indiani. Oggi molti, soprattutto i più giovani, scrivono in inglese e imitano in modo marcato poeti americani e inglesi, in una sorta di minimalismo o realismo che non è nelle corde della poesia indiana tradizionale. In ogni caso tutto questo lo so non perché conosca l’hindi, o il bengali, o il malayalam, o l’urdu ecc. ma perché mia figlia Marged è un’indologa che parla hindi correntemente, conosce urdu e bengali, dunque conosce molto bene e direttamente la situazione culturale, politica e sociale dell’India. È soprattutto a lei che devo molte delle informazioni che ho in proposito, oltre naturalmente a quanto ho voluto approfondire e oltre a quello che della cultura indiana classica consoscevo attraverso le opere presenti nella famosa biblioteca. Tuttavia il mio impatto con le scritrici indiane moderne è avvenuto molto presto. Nel 1957 era uscito “Altro mondo”, un libro di Sonali Dasgupta, la moglie indiana di Roberto Rossellini e quel punto di vista di una donna indiana sull’Occidente mi aveva colpita moltissimo. A parte Rabindranath Tagore, che mio padre amava molto e mi pare avesse conosciuto attraverso Giuseppe Tucci, era la prima opera di una scrittrice indiana che incontravo. Poi, a Londra, negli anni ‘70, acquistai un libro bellissimo, “Nectar in a sieve” – tradotto anche in italiano solo di recente – di Kamala Markandaya, scritto negli anni ’50 e ambientato nell’India rurale. Un grande classico della letteratura indiana femminile moderna. Mi affascinò a tal punto, che mi ripromisi di tradurlo, ma poi non trovai un editore a cui interessasse. Per quanto riguarda Anita, si tratta di una storia molto bella, perché quando ancora era una scrittrice esordiente, poco nota anche in India e del tutto sconosciuta fuori, mi fu dato da leggere il suo primo romanzo, quello che poi fu pubblicato col titolo “Un uomo migliore”. Mi piacque, mi commosse, mi colpì la conoscenza che della natura umana aveva questa giovane autrice e volli che fosse pubblicato e che fossi io a tradurlo. Da questo suo primo meraviglioso libro è nata poi una vera e duratura amicizia, che si è approfondita negli anni e che è stata preziosissima anche per capire in modo privilegiato la sua opera. È bellissimo poter seguire un autore fin dai suoi esordi e discorrere della sua opera, capirla nel profondo. Anche questo mi ha permesso di avvicinare l’India contemporanea in modo privilegiato e diretto e dunque di avvicinare altri scrittori e poeti – o meglio poetesse – indiani che poi ho tradotto».

Fra gli altri, lei ha tradotto Kushwant Singh, Themina Durrani, Pico Iyer, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Uzma Khan. Quali sono gli autori, fra quelli che ha tradotto, che sente più suoi?
«Da quello che ho detto, è chiaro che il mio autore è Thomas Crofton Croker. Ça va sans dire! Ma poi devo anche aggiungere Sudhir Kakar, un grandissimo scrittore, tra i più grandi che io abbia incontrato, psichiatra e saggista di fama internazionale, oltre che uomo di grande generosità e umanità, che negli anni ’90 ha iniziato a scrivere narrativa. Ho avuto la fortuna di poter tradurre quasi tutti i suoi romanzi, il più grande dei quali è senz’altro “L’ascesi del desiderio”, una biografia immaginaria di Vatsyayana, il misterioso autore del Kamasutra, narrata da un giovane kavi, uno studioso poeta. L’affresco dell’India d’oro della dinastia Gupta, la descrizione del mondo raffinato delle cortigiane, la scrittura elegantissima e colta, lo stile aristocratico e austero ne fanno un vero capolavoro. Poi devo aggiungere la poesia di Edgar Allan Poe, con cui mi sono misurata per l’amore sconfinato che ho per questo autore e soprattutto per la sua poesia, che, essendo anche pura musica, è davvero una sfida per un traduttore. Tradurre i testi poetici di Poe mi ha aperto prospettive nuovissime sul resto della sua opera».

Quando deve tradurre un libro, quali sono le fasi che scandiscono il suo lavoro?
«Forse sarò banale, ma in genere parto dalla sua lettura. A meno che non si tratti di un testo che già conosco. In quel caso traduco e basta. Nel corso della traduzione però non stacco mai, nemmeno quando non traduco. Mi ronzano in testa le parole, le frasi, la soluzione a un problema che pareva di difficile scioglimento e che balena all’improvviso. Ecco, è un’immersione totale. Una sorta di viaggio a due, in cui ci si conosce sempre più a fondo. Ho notato che in genere all’inizio la traduzione è più lenta, poi diviene quasi un processo naturale, come se fossi ormai entrata nel meccanismo della scrittura e la traduzione fluisse in modo naturale. Mi piace molto anche la fase della ricerca, perché comunque, traducendo s’imparano moltissime cose».

Giorgio Caproni diceva che tradurre equivale a «doppiare». Lei che cosa ne pensa?
«Caproni è stato un grande traduttore e sono completamente d’accordo con lui quando, in un suo discorso in occasione della vincita del premio Monselice, nel 1973, dichiara: «Non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si tratta soltanto di cercar di esprimere me stesso nel modo migliore: nel cercar di far bene qualcosa che valga a esprimere quanto ho in animo. L’impegno per me resta, in entrambi i casi, il medesimo e di egual natura, e di diverso non vedo in essi che l’impulso, il movente». Mi pare che proprio in questo discorso egli si dichiari lontano «dal sognare una traduzione quale perfetto double dell’originale». Non so, tradurre è in fondo un procedimento bizzarro. Da un lato ti chiede un abbandono totale al testo e all’autore, quasi un atto di resa, uno svuotamento di sé; dall’altro esige tutto te stesso, la totalità delle tue capacità, delle tue competenze, delle tue risorse. È come svuotarsi e riempirsi di nuovo, ma con un atto di consapevolezza assoluta. In realtà tradurre è un percorso di conoscenza di se stessi».

Un autore che vorrebbe tradurre?
«Sono due o tre, ma non ne dico il nome per non dare dei suggerimenti».

Un traduttore che ammira?
«Solo uno? Foscolo, Leopardi, Pavese, Fortini, mio padre».

Un traduttore o una traduzione che considera sopravvalutati?
«Fernanda Pivano».

Senta, ma se lei dovesse spiegare in parole estremamente semplici che cosa vuol dire tradurre, che cosa direbbe?
«Che è un atto d’amore».

E se dovesse spiegare qual è il bello del lavoro del traduttore? 
«L’emozione travolgente della scoperta di se stessi».

(C)2012 by Simone Gambacorta e Francesca Diano TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Gerard Hanberry – Braci e altre poesie, tradotte da Francesca Diano

Gerard Hanberry

Gerard (Gerry) Hanberry (1955) è un noto poeta e scrittore irlandese, che vive a Galway e ha pubblicato varie raccolte di poesie che gli hanno guadagnato numerosi premi nazionali. È stato giornalista, con una sua rubrica settimanale su un quotidiano nazionale, perfino cantautore – attività che ancora svolge occasionalmente –  e tiene corsi universitari di scrittura creativa e scrittura poetica a Galway.

Ha pubblicato tre raccolte di poesie, Rough Night, Stonebridge Publications, 2002, Something Like Lovers, Stonebridge Publications, 2005 e At Grattan Road, 2009. Una quarta raccolta uscirà a breve. Ha vinto il Brendan Kennelly Sunday Tribune Poetry Award ed è stato finalista in numerosissimi premi nazionali di poesia. È stato invitato ai più importanti festival poetici e a reading pubblici e ha tenuto reading delle sue poesie sia alla radio nazionale che alla TV nazionale irlandese RTE.

È membro permanente della commissione del Cùirt International Festival of Literature.

Nel 2011 ha pubblicato un’originalissima e documentatissima biografia di Oscar Wilde, More lives than one, in cui per la prima volta si indaga non solo sulla vita e sulle tragiche vicende del genio Wilde, ma, con il supporto di molti documenti fino ad ora inediti (parte dei quali forniti dai discendenti di Wilde) si traccia un quadro in parte ancora sconosciuto delle origini familiari e delle motivazioni che condussero Wilde alla sua fine infelice. Il tutto senza avere però la pesantezza di una fredda biografia, ma con una felicissima scrittura allo stesso tempo documentata e poetica, narrativa e stringata. Il libro ha ricevuto recensioni entusiastiche ed è stato presentato anche a Dublino, nella residenza e al cospetto del Presidente della Repubblica, che ha voluto congratularsi personalmente con Hanberry.

Quando ho chiesto a Gerry Hanberry il permesso di pubblicare alcune sue poesie che volevo tradurre in italiano, non solo è stato entusiasta, ma la sua gentilezza è giunta fino a mandarmi personalmente questi testi. Gli ultimi due testi sono inediti anche in inglese e usciranno in ottobre come parte della sua quarta raccolta. Dunque sono per il lettore italiano un dono prezioso.

Hanberry non è mai stato tradotto in italiano ed è dunque per me un grande onore essere la sua prima traduttrice. Ringrazio di questo Gerard Hanberry con gratitudine.

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BRACI

Questo testo ha  vinto il Brendan Kenelly/ Sunday Tribune Award nel 2006

 

Quando Apollo ordinò a Mitra il sacrificio d’un toro

a malincuore obbedì, lo si vede in mosaici

con il volto girato. Quando il toro morì divenne

luna, ed il cielo stellato il mantello di Mitra.

 

 Dal sangue del toro germogliò il primo grano,

i primi rossi grappoli. Ogni altra cosa germinò

dal suo seme, eccetto lo scorpione.

Lo scorpione si beve sangue e seme.

 

*

I loro giorni trascorrono in silenzi

o frasi fatte, arrivano e poi vanno,

tenendo duro come meglio possono,

ritraendosi dietro le abitudini

e in stanze vuote a sud,

ignorando che mai nessuno viene.

E tuttavia fan l’amore,

più con speranza che con passione,

come due naufraghi

tengono acceso il segnale luminoso

nella remota ipotesi,

dandosi il turno a soffiar sulle braci,

a raddrizzare il segnale d’aiuto

fatto con pietre bianche

lungo la spiaggia.

Ogni notte arrivano i frangenti

A spazzar via le orme,

ora quelle di lui, ora di lei.

*

Avevano ragione i cartografi antichi;

si può precipitare dal limite del mondo

ed esistono i mostri degli abissi

lì dove le antiche mappe li ponevano.

*

Guglie di pini, medievali, qua e là nella campagna d’ambra;

silenzio non ancora rotto dal traffico sull’Aurelia.

Lei dorme poco nella stanza dal soffitto alto, le paure fruscianti

come creature notturne nel bosco, l’aria è già secca come foglie morte.

Ieri un uomo, nel negozio di souvenir ha sorriso ma non era

un sorriso d’estraneo quello che voleva. No, non il suo, non il suo.

Un grande uccello, forse un falco, si leva dispiegando le ali e vola in circoli,

petali bianchi s’incurvano in veranda, conchiglie madreperla sparse sulle                                                                                                                 pareti  decorate.

Sul comodino, accanto alla sua testa addormentata,

la scritta sul cartello in stampatello NON DISTURBARE.

*

Dove l’antico fiume forma un’ansa

attraverso la terra arsa della campagna

è difficile distinguere dove l’est e dove l’ovest.

Una lucertola, la gola pulsante nella calura,

sta ferma su una roccia, attende, ascolta,

poi guizza nella crepa polverosa.

Lei resta nella piazza, mentre lui sale

le scale verso la grande cupola della basilica.

Più su, più su, lentamente s’avvolge, un inno, un canto,

forse non è troppo tardi, amore mio, forse non è troppo tardi.

poi la città gli si stende di fronte, il colonnato

curvo di San Pietro, ellittico, come una chela.

La vede giù lontana tra i turisti vaganti,

accanto alla fontana, minuscola, non puoi confonderla.

Vuole gridare. Il cielo è un marmo azzurro e

stupendo, han fatto bene a venire. Ma lei si muove,

passa accanto all’obelisco di Nerone, la cui lunga ombra nera

attraversa la piazza, una coda, la punta aguzza un pungiglione.

*

Sono arrivati ai ruderi di Ostia.

Lui all’ombra sfoglia la guida,

il berretto calato contro la vampa della luce bianca,

lei s’aggira vagando, facendosi strada

attraverso cortili vuoti, colonne inclinate

e irregolari, verso il silenzio di un anfiteatro dove

si siede, ginocchia ripiegate, ad osservare tre gatti randagi

allontanarsi sui gradini come voglie respinte con dolcezza.

Nella frescura del tempio di Mitra si dividono

del pane casareccio e del Chianti, versando il vino in bicchieri di plastica,

qualche gocciola rossa cade sopra i mosaici, sullo scorpione

ed attraversa il toro, il collo teso alla lama.

Vicino alla via Ostiense siedono separati nell’ombra che si addensa,

lungo l’antica strada ha marciato un impero,

ora non c’è clangore di legioni, né pulsazioni di seme e di sangue,

solo tazze di plastica che scricchiolano.

Poi esili attraverso le ere e il farsi del crepuscolo

chiamati forse dal loro sgomento, dalla sconfitta, giungono attutiti

dei suoni, una donna singhiozza, una porta chiusa ed inchiodata,

l’ultimo carro carico che s’avvia cigolando verso Roma.

 

 

 

EMBERS

When Apollo ordered Mithras  to sacrifice a bull

he carried out the task unwillingly, mosaics depict

his face averted. As the bull died the animal became

the moon, Mithras’ mantle the starry sky.

 

From the bull’s blood the first corn sprouted,

the first purple grapes. Every other thing sprang

from his seed, except the scorpion.

The scorpion drinks seed and blood.

*

Their days are passed in silences

or set pieces, coming and going,

holding out as best they can,

retreating into props and costumes

and south facing rooms,

ignoring the fact that no one ever calls.

And still they make love,

more in hope than passion,

like two castaways

keeping the signal-fire burning

on the off chance,

taking turns to fan the embers,

to straighten the help sign

built with white stones

along their beach.

Each night the great breakers roll in

to wipe away the footprints,

now his, now hers.

*

The old cartographers were right;

it is possible to drop off the edge of the world

and monsters of the deep exist

exactly where the ancient charts placed them.

*

Spires of pine trees, medieval, here and there on the amber hillside;

silence not yet shattered by traffic on the via Aurelia.

She sleeps little in this high-ceilinged room, her fears rustling

like night-creatures in the wood, the air already dry as dead leaves.

Yesterday, a man in the gift-shop smiled but it was not

a stranger’s smile she wanted. No, not his, not his.

A great bird, a hawk maybe, rises broad-winged and circles, circles,

white petals curl on the veranda, pearl-shells loose from the patterned wall.

On the bedside table near his sleeping head,

the door-sign in bold lettering – DO NOT DISTURB.

*

Where the ancient river winds

through the scorched earth of the campagna

it’s hard to know east from west.

A lizard, throat pulsing in the heat,

clings to a rock, waits, listens,

then slithers for his dusty crevice.

She remains in the Piazza while he climbs

the stairs to the Basilica’s great dome.

Higher, higher, slowly winding, a hymn, a chant,

perhaps it’s not too late, my love, perhaps it’s not too late.

Then the city spreads before him, the curving

colonnades of St. Peter’s, elliptical, like a claw.

He sees her far below among the wandering tourists,

standing near the fountain, tiny, unmistakable.

He wants to call out. The sky is marble blue and

beautiful; they were right to come. But she moves,

crossing by Nero’s obelisk, its shadow long and black

across the square, a tail, its sharp point the sting.

*

They have arrived at the ruins of Ostia.

He thumbs the guidebook in the shade,

cap pulled low against the blaze of white sunlight,

she prowls the edges, making her own way

through empty courtyards, the tilt and stagger

of columns, to the still of an amphitheatre where

she sits, knees drawn up, watching three wild cats

move away over the steps like wishes softly rebuffed.

In the cool of Mithras’ Temple they share casareccio

bread and Chianti, splashing wine into plastic cups,

red droplets falling on the mosaic floor, on the scorpion

and across the bull, his neck stretched for the blade.

 

By the via Ostiense they sit apart in deepening shadow,

down this ancient road an Empire marched,

no clang of legions now, no throb of seed and blood,

just the dry crackle of their plastic cups.

Then faint through the ages and the gathering twilight,

drawn perhaps by their dismay, their defeat, come faded

sounds, a woman sobbing, a door being nailed and shuttered,

the last bundled cart creaking up the road for Rome.

**********

LO STALLONE MARINO

 

Troppo vecchi ormai per stare su una barca

e non comunque col mare agitato,

pensammo di tornare fino a Na Clocha,

Steve e io, e buttare una lenza,

magari cercare qualche scorfano nascosto

nelle fessure in fondo alla scogliera.

Quella mattina era alta la marea con delle belle raffiche

così c’accomodammo su una pietra a vedere come buttava la giornata.

Steve lo vide per primo, alzarsi di lontano,

la testa e il collo tesi, una fluente criniera bianca,

il petto ampio, i grandi fianchi rotondi

dietro la bianca coda che s’arricciava in alto

nello slanciarsi d’impeto verso la riva.

Capimmo subito che era lo stallone marino.

E nell’avvicinarsi alla scogliera si levò sulle zampe posteriori

e con balzo possente superò la parete

cadendo con clangore sulla pietra nemmeno a venti passi

da dove noi stavamo a farci il segno della croce,

poiché quello che vedevamo non era cosa di questo mondo.

Si raddrizzò e si lanciò all’interno dell’isola.

Non una sola parola dicemmo ad anima viva,

chi ci avrebbe creduto comunque all’età nostra,

ma quando Paddy Dick scoprì che la sua cavalla era incinta

e non poté spiegarlo, allora ne parlammo.

Non sono tornato mai più alla scogliera

e spesso il mio sonno è agitato.

( Nota di Traduttore. The Sea Stallion è una creatura del folklore irlandese, anche detto Phooka, la cui natura è assai pericolosa.)

 

SEA-STALLION

Da “The Stinging Fly”

Too old now for the open boat

on frothy days anyway,

we thought to go back as far as Na Clocha,

Steve and myself, and drop a line,

maybe try for some rockfish hiding

in the cracks at the foot of the cliff.

The tide was big that morning with a good gust up

so we sat back on a stone to see what the day would do.

Steve saw it first, rising far out,

its straining head and neck, a flowing white mane,

its huge chest, its great round flanks

and a white tail curling high behind

as it charged headlong towards the shore.

We knew straight away it was the sea-stallion.

Nearing the cliffs he rose on his hind legs

and with one mighty leap cleared the face

clattering down on the flag not twenty steps

from where we stood making the sign of the cross,

for what we had seen was not of this world.

He steadied himself and headed off across the island.

Not a word did we say to anyone,

who would have believed us anyway at our age,

but when Paddy Dick found his mare to be with foal

and couldn’t explain it, we spoke up.

I’ve not been over to the cliffs since

And my sleep is often astray.

*************

OCCHIALI DA SOLE

 

Ieri io ero il pesce che s’incurva

nel mulinello presso il ponte a schiena d’asino

e tu eri la dolce corrente del fiume

che carezza i ciottoli lisci sul fondo sabbioso.

Poi tu eri la luce gialla tra le tende

della finestra al terzo piano e io ero l’uomo

dal cappotto lungo con il cappello e la sigaretta

appoggiato al lampione giù in strada.

Questa mattina, guardandoti in giardino

con le cesoie e il cesto seppi che tu eri

i raggi di miele che si riversano dagli occhi

di quell’antico ponte ai limiti del bosco.

e io non ero più il pesce che s’incurva

nel gorgo oscuro, invece ero adesso

l’airone silenzioso a monte nel canneto

con un cappotto grigio e gli occhiali da sole

molto simili al paio costoso che hai riportato dall’Italia,

quelli che uso solo per occasioni formali

o quella volta al chiuso della nostra stanza d’albergo

a Cascais alle due della mattina.

SHADES

 

Yesterday I was the bending fish

in the swirlpool by the humpback bridge

and you were the river’s gentle current

stroking the smooth pebbles on the sandy bed.

Later, you were the yellow light between the curtains

in the third-floor window and I was the man

in the long coat and hat with a cigarette

leaning against the streetlamp down below.

This morning, as I watched you in the garden

with pruner and basket I knew that you were

the honey-beams pouring through the eye

of that ancient bridge at the edge of the woods

and the I was no longer the bending fish

in the dark pool, instead I was now

the silent heron upstream in the reeds

wearing a grey cloak and dark shades

very like the expensive pair you brought home from Italy,

the ones I take out only on state occasions

or that one time in the privacy of our hotel room

in Cascais at two o’clock in the morning.

SAKURA[1]

 

A Okinawa a sud fioriscono i primi Sakura

la nuvola di fiori si spinge lenta a nord

verso Kyoto e Tokio, delicata onda di petali,

seguita lungo la via da innamorati

in attesa dei primi boccioli

e poi l’hanami sotto l’esplodere dei petali.

(Sakura è il meraviglioso ciliegio da fiore giapponese, simbolo d’amore e di giovinezza. L’hanami è il tradizionale picnic sotto gli alberi in fiore.)

SAKURA

In Okinawa to the south the first Sakura blooms,

the blossom-clouds creep slowly north

towards Kyote and Tokyo, a gentle petal-wave,

tracked all the way by lovers

watching for the early buds

and then the Hanami beneath the petal-burst.

(Sakura is the beautiful Japanese Flowering Cherry, symbol of love and rejuvenation.

Hanami is a traditional picnic beneath the blooming tree.)


[1] Il testo è stato ispirato dalla tragedia del recente tsunami  nel nord del Giappone.)

(C) 2012 Gerard Hanberry per i testi originali – (C) 2012 Francesca Diano per le traduzioni. RIPRODUZIONE RISERVATA

 


Anita Nair, Cuore di Malabar e altre poesie. Tradotte da Francesca Diano

Anita Nair, Malabar Mind, Harper Collins India

 

Anita Nair, oltre ad essere una grande narratrice nota in tutto il mondo, tradotta in 28 lingue, è anche autrice di testi poetici, che sono stati raccolti e pubblicati per la prima volta nel 2002 col titolo di Malabar Mind (Cuore di Malabar) e l’anno scorso in una nuova edizione per i tipi di Harper Collins India.

Perché questo titolo? Nel testo Anita Nair lo spiega con queste parole: “Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione venne divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, ne’ compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tuttora come uno stato d’animo.” Dunque ho scelto di tradurre mind con cuore e non con mente, poiché quella che celebra Anita è la dimensione non duale della mente/cuore.

I quaranta testi, scritti nell’arco di una decina d’anni, esplorano un mondo che per l’autrice è stato, fin dagli inizi, un potente serbatoio di ispirazione, immaginazione, ricordo e amore, miscelati e cucinati sapientemente nella sua fucina/cucina. Il Kerala è la sua terra natale, dove torna spesso per ritrovare il legame profondo con una continuità mitica e storica a livello personale e non. Il Kerala, stato indiano tra i più alfabetizzati e socialmente progrediti, è però anche un luogo dove vige tuttora una tradizione matriarcale, dove il mito e le divinità prevediche parlano una lingua udibile.

La voce delle poetesse in India, sia in inglese che nelle lingue indiane, è molto presente e non smentisce una tradizione antica. Negli ultimi decenni nomi come quelli di Kamala Das (da me presentata in un precedente post), Eunice De Souza, Imtiaz Dharker, Sujatha Bhatt, Tara Patel, sono divenuti ben noti. I loro versi sono spesso ispirati alla poesia occidentale del ‘900, con un’attenzione radicale al ruolo e al sentire della donna e della donna indiana oggi.

I testi della Nair hanno essi pure, è vero, questo sapore naturalista, postmoderno, ma con qualcosa di diverso e di più. Anita Nair non dimentica mai, nemmeno per un istante, la sua origine, il suo legame con la terra natale, gli odori, i colori, i suoni, i racconti antichi. Ed è questo che fa la differenza.

NOTA: Ringrazio di tutto cuore Anita per aver dato un assenso entusiasta alla mia richiesta di pubblicare alcune mie traduzioni delle sue poesie per il lettore italiano. Il suo affetto e la sua ormai ultradecennale amicizia sono per me un dono prezioso.

Cuore di Malabar

Nei suoi occhi il lampo del folle.

“Ciao  Madras, ciao  demoni infernali

Tenetevi le vostre politicanti e le mosche malate.”

Il treno del Malabar ansa e ridacchia.

Guarda questa ragazza, il pazzo guarda,

Le sue curve son meloni maturi

Mi scusi, non so quello che penso,

Posso sfiorarle i piedi?

Per piacere

La mia follia svanirà

Con la tenera brezza.

Lasciatemi andare, non sono matto

Solo deprivato

Perché ho lasciato la grotta di smeraldo?

Il fiume Nila

Rive alte di ghiaia giallastra

Un tempo fioriva il triangolo d’odio

Chi adorava la vacca, chi odiava il maiale

Chi – capelli di sole – la vacca la mangiava.

Nessuno sa come accadde.

Mille uomini pigiati in un vagone

Trasportati e sballottati, soffocavano.

Quando apriron le porte,

Per il puzzo, dicono

La  gente vomitò  per miglia intorno.

In Malabar ancora non dimenticano.

Talvolta la brezza ha il lezzo del sangue.

Lo Zamorin[1] vide il proprio volto

In una scheggia di vetro.

Aprì le porte all’avidità coloniale.

Abbiamo tanto pepe,

Così tante le spezie.

Datele  in cambio per avere  specchi

Deve vivere l’uomo ignaro del suo volto?

Ora i nostri uomini percorrono i mari

Oltre la baia verso Speranza deserta

Su acque stagnanti salpano le donne

Zattere solitarie, filando fibre di cocco, tessendo sogni.

Zubeida, nata in una sudicia capanna

Ora è regina di un palazzo verde

Ogni giorno rivoli di succhi

Di frutta le scorrono sul mento

Che altro si vuole dalla vita? Chiede.

Geeta ha la voce del marito su cassetta

I bambini ogni tanto l’ascoltano

Venu, lontano cugino

Fa l’amore con lei mercoledì e venerdì

Saziando il desiderio e il bisogno di coccole

Le carezza la pelle.

Lei gli lecca le palpebre  e lo incita

A possederla in un’estasi ritmata.

Soltanto finché “lui” non torna a casa,

dice a Dio.

Malibar

Manibar

Mulibar

Munibar

Melibar

Minibar

Milibar

Minubar

Melibaria

Malabria *

Dove la pioggia sibila

L’eco di mille passi

Ciascuno a misurare un cerchio d’umidore.

Dalle grondaie stillano infiniti pensieri derelitti

Lo strombo delle tegole rivela travi a cosce spalancate.

La politica è uno stile di vita

Iscriviti a un partito

Per un’identità

Al Congresso o all’RSS

Ai comunisti o alla Lega Musulmana.

Qui vita ce n’è ancora

Un’aria quieta di serenità.

Nayadi dentro al fango che arriva alle ginocchia

Trattori e bufali a fargli da compagni.

Insieme osservano il tempo passar lento.

E come  si può essere appagati

Sapendo i tuoi diritti?

Militanti si vestono con vesti di insegnanti

La foresta nasconde cuori disincantati

Ad ogni istante incombe la pazzia.

Stesa nella  piscina verde e limpida

A bocca aperta a bere la rugiada,

La concubina del nonno ieri è morta.

Chi gli accenderà la lanterna? mi domando.

Mio padre è ritornato dai suoi vasti giri

Ha costruito una casa e ci ha messo i suoi libri.

Mia madre ama non pensare a nulla.

La grotta di smeraldo ti avvolge consolante.

L’uccello-diavolo piange: puh-ah, puh-ah.

Bacio il mio talismano di peli d’elefante.

Le palme da cocco fan frusciare le dita.

Dicono che il coraggio e la tenera brezza

Curino la pazzia.

Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione venne divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, ne’ compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tuttora come uno stato d’animo.

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[1] Saamoothiri, anglicizzato in Zamorin, era l’appellativo dei  Signori di etnia Nair che governavano il regno di Kozhikode (attuale Calicut, da non confondersi con Calcutta) che fu capitale del Distretto del Malabar. Nel 1498 lo Zamorin  Manavikraman Raja accolse l’esploratore portoghese  Vasco da Gama (N.d.T.)

*  Dal 522 d.C fino all’XI o XII secolo, il Malabar era chiamato anche con questi nomi

 

Malabar Mind

In his eyes, the lunatic gleam.
“Ta ta Madras, ta ta fiends of hell
Keep your lady politicians and diseased flies.”
The Malabar mail wheezes and chuckles,
Look at this girl, the lunatic stares,
Her curves are ripe melons
Pardon me, I know not what I think,
May I touch your feet?
Please
My madness will vanish
With the soft breeze.
Let me go, I am not mad
Only deprived
Why did I leave the emerald cave?

The River Nila
Sand banks rising yellow and gritty
Once flourished triangular hate
The cow worshippers, the pig haters
And the sunshine-haired cow eaters.
No one knows how it came about.
A thousand men piled into a carriage
Trundled and truckled, gasping for life.
When they opened the doors,
The stench, they say
Made people gag a mile away.
In Malabar, they cannot forget,
Sometimes the soft breeze smells of blood.

The Zamorin saw his face
On a piece of glass
Opened doors to colonial greed.
We have so much pepper,
So many spices.
Give it to them for mirrors
Should man live a stranger to his face?
Our men now sail the seas
Across the bay to the desert Hope
In the backwaters, women sail
Lonely rafts, spinning coir, weaving dreams.

Zubeida, creature of the grimy hovel
Queen now of a green mansion
Fish juices trickle down her chin every day
Is there more to life?  She asks.
Geeta has her husband’s voice on tape
The children listen to it now and then
Venu, distant cousin
Loves her on Wednesdays and Fridays
Satiating lust and a need to be held
He caresses her skin.
She licks his eyes and wills him
To take her in rhythmic ecstasy
It is only till ‘he’ comes home,
She tells God.

Malibar
Manibar
Mulibar
Munibar
Malibar
Melibar
Minibar
Milibar
Minubar
Melibaria
Malabria*
Where the rain hisses
Echoes of a thousand footsteps.
Each seeking to measure the girth of wetness.
Eaves drip countless forsaken thoughts
Tiles splay revealing parted rafter thighs.

Politics is a way of life
Belong to a party
For an identity
The Congress or the RSS
The Muslim League or the Communists.
There is still about life here
A quiet air of restfulness.
Nayadi knee deep in slush
Tractors and buffaloes his companions.
Together they watch time amble by.
How can man be content
When he knows his rights?
Militants dress in school teacher guises.
The forest hides disenchanted hearts
Madness threatens to erupt at any time.

Lying in the limpid green pool
Mouth open to catch the first dew drop.
Grandfather’s concubine died yesterday.
Who will light his lantern at night? I wonder.
Father came back from roaming the plains,
Built a home and settled his books.
Mother likes to think of nothing.
The emerald cave has a soothing clutch.
The devil bird weeps: Poo-ah, Poo-ah.
I kiss my elephant hair talisman.
Coconut palms rustle their fingers.
Courage and the soft breeze
Will cure madness, they say.

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Solitamente  un uomo, a volte un dio

 

Sappilo, donna

Mille soli s’avvolgono al mio braccio.

Marchio  di chi io sono

Solitamente un uomo, a volte un Dio.

Striscianti, predatori

Sento i tuoi occhi

Tracciare segni di tintura vermiglia, di curcuma e di riso

Squarciando la seta bruna della mia pelle.

Donna, sento il tuo tocco.

Macerie di luce:

Densità di una notte senza stelle.

Il mio indice divenuto pennello,

Lampada scintillante oscuro il mio colore.

Quando il tuo sguardo incontra il mio

Nell’arena d’amore ch’è lo specchio,

Mi tremano le mani,

I contorni si sfumano.

Donna, non sai quel che mi fai.

Donna, ho abbandonato la mia pelle.

Ho assaporato l’eternità.

Ed ora cesserò di essere.

Ma prima che tu scemi nel nulla,

Assaporo la linfa della palma da cocco.

Stringo la tazza di terracotta come fosse il tuo mento.

M’inumidisco le labbra alla tua bocca.

Bevo profondamente di questo desiderio proibito e mortale.

La  mia corona è intrecciata d’erba e divinità.

Labbra carnose, labbra bianche, lanugine nasconde la mia bocca d’adultero.

Tendo   l’arco di bambù.

E sollevo la lama scintillante.

Vibrano i tamburi a ridestare  il dio che s’è assopito.

Tremor di cavigliere  mentre l’uomo ch’è in me si ritrae.

Non sono più chi tu hai desiderato.

Sono il tuo protettore.

Il fiero dio Muthappan.[1]

Parla Muthappan:

Io sono il signore della giungla, il figlio dei vitigni torturati

Lesto di piede, leale sino in fondo.

Il cane m’accompagna,

Il cieco Thiruvappan è il mio compagno.

E  nei momenti oscuri di questo tempo

Sarò con te.

A  darti aiuto e consolazione.

A  proteggerti ed a sostentarti.

Guarda, con questa freccia

Che perfora l’occhio del cocco

Io distruggo ogni male

Che ti turbina intorno.

Spicco dal serto della speranza,

Frammenti  perché tu vi costruisca

Tutti i tuoi sogni.

Premo la mano sulla tua testa;

Che i tuoi nervi trasmettano il messaggio

Che mai io t’abbandonerò.

Tutto questo e altro ancora

Farò per te.

Ma prima dentro di me la sete

Spegnerò con latte ancora tepido.

Con il vino di palma che ribolle

Senza fermare il tempo.

Succhio dalla lunga canna di bronzo

Mastico un pezzo di pesce secco

Muthappan è soddisfatto;

Muthappan è felice.

Muthappan ha parlato.

Più non gli sono necessario.

La mia corona del potere è fatta d’erba vizza.

Scorre sulla mia fronte il sale del sudore.

Con dita che un tempo cercarono  perfezione,

Di dosso mi rimuovo la maschera del dio.

Donna, sono di nuovo chi io ero,

Un uomo con la pelle ed occhi

Che cercano i tuoi.

Donna, che al tuo desiderio il mio s’unisca.

Che la mia bocca  sia sigillo alla tua.

Che la mia fame bruci la tua pelle.

Perché ora mi sfuggi?

Perché senti l’odore di selvaggio?

Temi colui che fui?

Ascolta donna,

Io sono un uomo;

Solo talvolta un dio.

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[1] Muthappan, il cui nome letteralmente significa “zio maggiore del padre”, è il benevolo  Dio Cacciatore del Kerala. Il suo culto antichissimo  risale all’India prevedica. Il dio viene fisicamente  impersonato ogni giorno da un uomo che ne indossa i coloratissimi panni e i pesanti ornamenti, che ricordano i più antichi personaggi della danza Kathakali.. In quel momento l’uomo perde la sua natura umana e diventa il dio. Muthappan racchiude la doppia natura di Vishnu e Shiva. Il cane è il suo animale sacro. (N.d.T.)

*******************************************************

 

Possa tu dormire un milione di anni, Shiva

 

 I

Padrone dell’universo

Signore della distruzione,

Sono di fronte a te

Ma non ti temo.

Hai mai avvertito

Le ossa di tuo figlio pungerti il palmo?

Hai mai sentito

Il pianto perforante della fame?

II

Ho placato

Ormai le  richieste e il mio richiamo.

Ho cantato il tuo nome

Per milioni  di volte.

E tuttavia, certo ritorneranno i miei avi

Vampiri avidi dei resti della mia colpa.

Ché sanno che rinunziando a te

Rinunzio a loro.

III

Più non raccoglierò fiori di campo

A nascondere la tua nera tumescenza

Coi rossi petali della speranza

Che sbocciano, fioriscono e poi muoiono dentro questi cortili.

Non arderanno lampade, tuo occhio che tutto vede.

Non il tuo fiato di canfora strinerà le pareti.

Mai più io fingerò che tu esista.

I tuoi doni, soltanto cenere che mi strozza la gola.

IV

Per un’ultima volta

Mi sono immerso nella piscina verde.

Le lacrime degli uomini prescelti, come fui io, insozzate dal fango.

Per un’ultima volta ho retto il filo che a te mi lega.

E che nel dirti addio così  ti maledica:

Possa tu vivere prigioniero del tuo sonno.

E, quando sarò andato, nessuno ti risvegli

Mai più per te richiamo di campana.

************************************************

Un’impronta di Baga[1]

 

I

Fiammeggiante

una linea di giallo

dardeggiò.

Inquisendo

saggiando

l’abisso fiammeggiante.

I fianchi doloranti

le labbra gonfie.

Onde si sollevarono

prosciugano le fiamme

inghiottono il calore,

il seme tumultuoso.

Speranza.

Un desiderio muto

di creare

nutrire

un essere dorato

per un istante breve.

II

Polvere d’ossa calcinate

di qualche antico abisso.

Orlano  l’occhio dell’oceano

arginando le grandi lacrime di sale.

Non scompaiono

nemmeno se inondate

ed a volte sommerse

dalle onde.

Che mai cessano di tentare

la fuga.

Imprigionate

dentro insensati accoppiamenti,

chicco e chicco

e chicco e chicco

ciascuno separato

ciascuno indistinguibile

dall’altro.

Non ricordi.

Non sogni.

Non paure.

Non desideri.

Non pena.

Se gettati

pestati

o trascinati

da un’onda negligente

ancora sono intatti

ancora paghi.

III

Il sole in ritirata

lasciò che il panneggio

del letto dell’oceano

si levasse sempre più in alto

finché ciò

che rimase

fu una chiazza

a macchiare i cieli;

alcune nubi illividite

ricordi alla deriva

di una presenza

persa

ed uno strano vuoto

insopportabile.

Poi

dalle onde

un ponte emerse

tra la terra dei vivi

e la città dei morti.

Incrostato di corallo

di raggi d’oro

racchiuso tra le perle

e sotto pesci a fare serenate

e delfini a danzare.

Dal punto

in cui il sole stillava sangue

dilagava

fino alla punta dei tuoi piedi.

Calpestalo

se osi

dove  vivi e i morti s’uniscono.

Segreti che s’intrecciano

sogni

saggezza

speranza.

Sfiora una guancia

tocca un dito.

Cammina

in un tunnel del tempo.

Solo per un momento

un battito di palpebra

e poi non resta nulla.

IV

Olio d’anacardio.

Barche annerite.

Ricci di mare aculeati.

Ascelle rasate.

Orme sulla sabbia.

Panchine copulanti.

Cozze al vino bianco. Cozze masala. Coppa di conchiglia.

Moto. Vichinghi.

Hippy fatti plutocrati.

Cani addormentati.

Ombre lunghe.

Bambini nudi.

Potenza del vento.

Sale marino. Brezza marina. Mare che azzitta l’orizzonte.

Ascelle pelose.

Cani chiassosi.

Teste ondulanti.

Teli solitari.

Reti da pesca annodate.

Vecchi con voglia di morire.

Onde battenti. Onde arretranti. Onde volventi dal ventre d’oro.

Corvi in picchiata.

Ombelichi perfetti.

Ciabatte di plastica.

Venditori di ananas.

Pescatori che pescano la sabbia.

Sirene in sarong.

Sole stanco. Sole calante. Sole a sognare il mattino.

Due uomini su una roccia.

Scogliere incombenti.

Baia ricurva.

Nube che esplode.

Macchie di sale.

Oceano in una conchiglia intrappolato.

Spiaggia in ombra. Spiaggia coperta di salsedine. Spiaggia addormentata.

Mezzaluna del pube del cocco.

Faro sfavillante.

Mozziconi piegati.

Grugnir di maiale.

Nave fantasma.

Giocolieri.

Sospiro di mare. Sospiro di sabbia. Sospiro di sole.

*********************************************

Salve lascivia

 

L’avrei dovuta vedere la lascivia quand’è arrivata

Avrei dovuto saperlo a questo punto.

Poiché viene a trovarti

Scuotendo campanelle sulla porta

Profumata di sole, d’erba, di astuti desideri.

Poiché ti striscia una piuma sull’anima

e sommuove il tuo cuore catatonico

ed invia al tuo cervello piccole note ritmiche.

Poiché ti stringe fra le braccia

e soffoca le incertezze quotidiane.

E poi ti fissa negli occhi e ci si pianta.

Poiché nulla promette

e poi ti lascia andare alla deriva

a calcolare il tempo con un mucchietto crescente di “perché”.

Poiché in seguito finge di non esserci stata

e che tutto ciò ch’è accaduto altro non era che uno stato d’animo

che va dimenticato e gettato alle spalle.

____________________________

[1] Baga è una città di mare nello stato di Goa, famosa per  la sua spiaggia dalla sabbia bruna. (N.d.T.)

********************************************

Maschera  di bellezza

Con polvere di sandalo e di curcuma

Con yogurt inacidito

E gocce di speranza annaffiate d’acqua di rose

Preparo un volto nuovo e risplendente

Per  questa nuova me.

Con questa maschera esfolierò

 Il passato maculato di  “forse” giallastri

Penetrerò a raccogliere residui di rifiuto

Spianerò vecchi sentieri inutili

E asporterò ogni traccia di deboli elogi devastanti.

Traduzione di  Francesca Diano (C) 2012 Riproduzione Riservata 

(C) 2002 by Anita Nair per i testi originali.

Quaderno di traduzione

NOTA

Riporto qui alcune mie riflessioni sulla traduzione letteraria da un post pubblicato su Moltinpoesia, per cui ringrazio Ennio Abate che mi ha voluta gentilmente opsitare e che, da me scritte in forma di commenti, hanno preso alla fine, grazie ai numerosissimi commenti di altri, ( ringrazio di cuore per questo Erminia, Emy, Rosanna, Larry, Giorgio), la forma di un piccolo seminario sulla traduzione.
Per me è stata un’utilissima occasione di dare rilievo ad alcuni aspetti che, mi accorgo, sono frutto della mia ormai lunga esperienza e in fondo posso dire formino la mia idea di traduzione letteraria.
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Per me diventare traduttrice è stato un caso – se mai caso esiste. Ho iniziato a farmi le ossa quando a 16 anni mio padre mi diede un piccolo preziosissimo libro , in una traduzione francese dall’originario giapponese, Il libro del Tè di Kakuzo Okakura, e mi disse: traduci! Io il francese lo mastico molto male, non l’ho mai veramente studiato e gli dissi che era impossibile. Mi rispose che niente è impossibile se lo vogliamo col cuore. Così mi ci misi e la cosa strana era che…capivo.
Poi ho davvero iniziato nel modo più duro che si potesse immaginare, quando ho tradotto dal tedesco, lingua che invece ho studiata, uno dei testi più difficili che ci si possa trovare in mano, un testo di un grandissimo critico d’arte viennese dei primi del 900, la Grammatica storica delle arti figurative , di Alois Riegl,(mia traduzione  poi pubblicata da Cappelli nel 1983).
Iniziai la traduzione per la mia tesi su quel libro e la seguitai anche dopo. Ci misi due anni. Questo perché nel frattempo facevo altre cose e perché il tedesco di questo autore è il più difficile e specialistico che ci sia. In seguito ho tradotto un libro meraviglioso, quello che ha cambiato la mia vita. Un libro antico di leggende irlandesi. Le Leggende e tradizioni dell’Irlanda meridionale  di Thomas Crofton Croker. All’inizio lo tradussi per i miei bambini, solo in seguito cercai un editore. Da quel libro è iniziata una collaborazione costante anche come consulente editoriale con un grande editore, per il quale costruii gli inizi di una collana di autori indiani, molti dei quali ho tradotto, tra cui Anita Nair che allora era giovane e sconosciuta. Ma nel numero dei molti autori tradotti, solo  tre  sono grandi autori: T.C. Croker, Sudhir Kakar e Anita Nair, gli altri, non solo indiani, erano autori di medio valore o di nessun valore, appunto di quelli da cassetta. Come importanza  letteraria poca o nulla. Traducendo questi  “miei” autori, ho imparato moltissimo in termini di stile, di struttura narrativa, di coerenza e compattezza. Questo è per me un aspetto molto importante della traduzione; quando si traduce, in un certo senso si “entra” nella struttura di un testo, la si vede dal suo interno, perché è solo così che la si può poi ricreare. Dunque questo ti insegna quelli che sono gli strumenti di base, i ferri del mestiere della scrittura. Senza questo, è difficile fare una buona traduzione. Dunque tradurre non è un’operazione a senso unico – tu che traduci l’autore – ma uno scambio reciproco – l’autore ti mette a disposizione i suoi segreti e te li dona.
Ho sempre considerato la traduzione un compito importante che unisce epoche, culture e popoli e in questo sono molto, ma molto lontana da tutte le querelles che ammorbano l’attuale panorama di molti dei traduttori italiani e delle loro cammarille.
Ho visto veri e propri orrori di incapaci a cui vengono affidate traduzioni di grandi autori, poeti e scrittori, che massacrano e distruggono.
Una pratica che mi ha insegnato moltissimo è quella  di tradurre me stessa (testi narrativi e poetici o saggi)  o di scrivere direttamente in inglese, che nelle poesie mi viene molto naturale. Questa pratica è utilissima ad esempio per perfezionare un testo scritto in italiano, perché i problemi posti dall’inglese esigono che il testo italiano sia chiarissimo e lineare. Consiglio a tutti quelli che siano in grado di farlo, di autotradursi per capire se un testo scritto in italiano funziona. E’ una pratica meravigliosa.
Ribadisco che le scuole di traduzione e comunque le teorie della traduzione in genere, non sono di molta utilità, se non come interessantissima lettura. Arte è fare. Le teorie vengono a posteriori, come le grammatiche. Per quanto mi riguarda, mi considero un’operaia o un’artigiana della traduzione, proprio nel senso che ho iniziato con un lungo apprendistato e con la fortuna di aver imparato direttamente da un grande Maestro.
Nella traduzione poetica credo che l’orecchio musicale sia indispensabile,  dato che la poesia, anche quella senza apparenti regole metriche, è musica, e se il traduttore non ha un orecchio musicale, né percepirà quella musica nell’originale, né sarà in grado di ricrearne una nella propria lingua. E’  per questo motivo che dico che si deve essere poeti, cioè si deve essere in grado di trasporre in una forma poetica un teso poetico. E se uno non è poeta, se non conosce per natura e per frequentazione pratica la tecnica, come fa? Lo stesso Fortini, grande maestro di traduzione, lo sapeva bene e lo ha in più sedi detto e messo in pratica.
L’Italia credo sia uno dei o il paese dove si traducono più libri stranieri e i motivi sono molti. Non certo perché da noi si pubblichino pochi autori. Ma salta agli occhi il fatto che quando si va in una libreria in Francia, in Inghilterra o negli USA, il reparto dei libri stranieri in traduzione è davvero esiguo rispetto al numero di quelli in inglese e francese. Quello che si pubblica in inglese poi ha un mercato immenso, dall’UK agli USA dall’India all’Australia e a molti altri paesi orientali, dove l’inglese è lingua franca. Si parla di un bacino di moltissime centinaia di milioni di possibili lettori. Dunque, anche se ovunque l’editoria tira meno, lì gli editori hanno meno problemi dei nostri, per non dire che la distribuzione non è così esosa e quindi ciò che viene tradotto è in genere ciò che si ritiene abbia qualche valore e chi traduce tende ad essere specializzato, gode di maggiore rispetto e viene pagato meglio. Da noi si traduce tutto e l’enorme diffusione dell’inglese, oltre alla sua apparente facilità, dà l’idea errata che basti conoscerlo un po’. Con le conseguenze del caso.
Mi viene in mente una delle due volte che ho accettato di rivedere una traduzione altrui. Si trattava di una scrittrice cinese americana, di quel filone minimalista. Niente di importante, ma raccontini graziosi. Il primo racconto era la narrazione in prima persona di una vecchia donna cinese trapiantata negli USA e del suo modo di vedere la vita americana. L’inglese era smozzicato e bizzarro, come di chi non sia riuscito ad adattarsi e anche dopo molti anni non sia padrone della lingua, con “errori” che diventavano giochi di parole molto divertenti. L’incapace traduttore a cui era stato affidato il testo non aveva capito quasi nulla, né lo stile riproduceva l’intento e il sapore dell’originale. Così sono andata in un ristorante cinese e ho parlato più volte con la moglie del proprietario, che pur non anziana, aveva una certa età e parlava italiano male. Mi sono fatta l’orecchio e ho riprodotto nella traduzione quella modalità. Ero pure riuscita a ricreare dei giochi di parole nati da errori. Che fa l’editore? (con cui lavoravo da 7 anni) dice che no, non si può….perché è poco corretto… ma così era nell’originale! I bravi editor hanno appiattito tutto in una lingua banale e il racconto ha perso ogni senso.
 Però c’è perfino  chi arriva a porre una questione di base: si deve (si può) o non si deve (non si può) tradurre? Introducendo l’idea di una legittimità o meno della traduzione tout court.
Vorrei dire che, partendo da questo punto di vista, perfino la lettura di un testo è un “tradurre”, perché, come ben sa chi scrive, per quanto si lavori sul testo, perché la parola convogli “quel” preciso senso-segnale, nessuno potrà mai ricostruire tutto il percorso – e dunque il vero senso – che ha portato a quella scelta.  Anche leggere è tradurre. Dall’autore al lettore – tanto più se ciò che leggiamo appartiene a epoche da noi lontane – ciò che un lettore “comprende” non sarà mai quello che potrà comprendere un lettore contemporaneo all’autore e persino l’autore stesso. La medesima cosa è ben nota anche nel campo dell’arte.
Iniziare a porsi la questione del perché si traduca è, a mio avviso, una questione di lana caprina, pura perdita di tempo, non ha senso, oltre ad essere stupida. Eppure c’è chi, non avendo mai tradotto nulla in vita sua,  lo fa.
Si traduce da sempre. Perché? Perché l’uomo vuole sapere quello che l’altro dice, vuole ascoltare storie venute da lontano. Pascal diceva che se la gente se ne stesse a casa sua invece di uscire di casa, la storia del mondo sarebbe diversa. Ma la gente esce di casa ed è curiosa. Con le traduzioni si sono cambiate intere culture.
Ciò su cui si può puntare è una sorta di “quintessenza” che il testo contiene e che, nel caso di grandi opere, attraversa i tempi, gli spazi e le culture. In genere questi li chiamiamo “classici”.
Partendo dal linguaggio tecnico-scientifico: qui parrebbe che la questione non si ponga. In effetti non è del tutto così. Se prendiamo testi scientifici in cui si presentano ricerche in campi prima inesplorati, per i quali l’autore conia termini e concetti nuovi, chi traduce non ha referenti precedenti e dovrà coniare un neologismo che gli corrisponda nella propria lingua.
In realtà la questione, questione che si è posta fin dall’antichità (la necessità della traduzione è antichissima, anche perché è proprio grazie alle traduzioni che si sono diffuse le idee, con tutto il loro carico di trasformazione – (si pensi ai filosofi greci tradotti dagli arabi e così tornati in occidente) non ha sfumature di maggiore o minore legittimità o possibilità, man mano che dal linguaggio scientifico si procede verso quello letterario, narrativo e poetico.
La vera priorità, più che una competenza semplicemente antropologica, è l’analisi filologica del testo. E un’analisi filologica richiede competenze e conoscenze che non sono di tutti.
Dunque, la specializzazione del traduttore, che soprattutto per i classici o i grandi, non può essere il primo raccomandato o infilato.
Io posso portare la testimonianza di un grande maestro, che è stato anche grandissimo traduttore dei tragici greci, che attraverso un’analisi filologica, storica, filosofica – a volta perfino di una singola parola – ecc. di quei testi, ne ha rovesciato spesso il senso ormai passivamente acquisito.
Quanto alla poesia, valgono gli stessi principi, con in più la difficoltà di trovare una forma poetica. Certo, nessuna traduzione, per quanto meravigliosa, filologica, che diventa prima di tutto un atto di conoscenza per chi la fa, potrà ritrovare certe sottilissime ambiguità, allusività, sonorità dell’originale. Ma ci si prova e il lavoro è entusiasmante.
Figurarsi dunque cosa avviene quando si affidano a dei traduttori avventizi, che di grande hanno solo l’ignoranza, ma sono da noi acclamati come eccelsi, testi che richiedono studio di anni, amore e molta, molta umiltà.
 E’ bene precisare che qui si sta parlando di traduzione letteraria. Cioè di letteratura vera, non di roba di cassetta. Dunque il mio discorso a quella si riferisce. Non ho la ridicola pretesa di escludere  assolutamente i giovani traduttori che devono farsi le ossa. E ci mancherebbe altro! Dovranno pure imparare. Anche se ci sono casi in cui un giovane traduttore di eccellenza, con molte competenze e capacità già acquisite, sia in grado di produrre traduzioni di qualità assai più alta di certi vecchi barbogi ben appollaiati sui loro rami.
Quello che intendevo è che chi commissiona una traduzione, DEVE capire a chi affidarla. Affidare un grande autore a un principiante solo perché si risparmia, o all’amico che non conosce l’autore e l’argomento, ma solo perché è l’amico è, oltre che stupido, controproducente. Ai principianti si potranno affidare testi – e gli editori italiani ne sfornano a bizzeffe – di autori magari di cassetta, ma mediocri scrittori. Così anche se il giovane principiante fa una mediocre traduzione, va bene lo stesso, non è n gran danno.
Affidare a chi ha conoscenza, esperienza e qualità un testo letterario (saggio, romanzo, poesia, poema ecc.) significa rispettare quel testo e il risultato non potrà essere che soddisfacente da ogni punto di vista.
Un buon traduttore delle teorie non sa che farsene. Ci vuole pratica ed esperienza – fermo restando che anche per fare i traduttori ci vuole una predisposizione. Certo che  ascoltare le esperienze e gli errori che tutti i traduttori esperti hanno fatto non possa che far bene, ma poi ciascuno si deve fare gli errori suoi.
L’unica pratica utile può essere l’analisi testuale e sul testo le motivazioni del perché si scelga di tradurre in un modo piuttosto che in un altro. Ma non è teoria, è pratica.
Tim Parks, uno dei più noti traduttori, che tiene corsi di traduzione letteraria allo IULM, nel suo libro “Tradurre l’inglese”, in realtà non fornisce alcuna teoria sulla traduzione, ma prende famosi testi letterari in inglese e esamina (cioè fa le bucce a) con molta attenzione le varie traduzioni italiane che ne sono state fatte (ad esempio Virginia Woolf, D H Lawrence). Sono piene di errori, fraintendimenti, anche molto grossolani, stile mediocre. Non teorizza, ma indica punto per punto gli errori e li corregge. Detto tra parentesi, io fossi uno di quei traduttori o traduttrici andrei a nascondermi.
Esiste una traduzione de The Dubliners, che è illegibile tanto saltano all’occhio gli errori, per non dire dello stile. Chi l’ha fatta non è giovane, ma non sa tradurre. Il che significa che pratica ed esperienza non bastano.
Quando ho velocemente riassunto il mio percorso, ho specificato che ho avuto un grande Maestro, mio padre. Non perché si metteva a teorizzare come si traduce, ma perché osservavo come traduceva lui. Non tutti hanno questa fortuna, ovvio. E io stessa ho imparato – e ancora non ho finito di imparare – solo con gli anni. Io stessa non mi sentirei di tradurre tutto, come molti fanno. A parte cose non molto importanti, so di poter tradurre solo quello di cui almeno ho conoscenza. Poi qualcosa ci si inventa. Una volta dovevo tradurre un testo di un autore indiano in cui si parlava di rugby. Io non so nulla del rugby, così sono andata a vedermi una partita e ho messo l’allenatore in un angolo finché non mi ha spiegato le regole e i termini.
 Ho ritrovato con molta gioia che le idee che Fortini aveva della traduzione, non si discostano molto dalla mia. Mi sarebbe molto piaciuto poter ascoltare quelle lezioni, di cui non so quanto nell’operazione della Quodlibet resti, ma è lo stesso Fortini a sostenere che chi teorizza sulla traduzione non è necessariamente un buon traduttore e un buon traduttore può aver difficoltà a spiegare le proprie scelte.
Voglio fare un esempio in base una realtà di cui ho diretta conoscenza. (credo sempre alla potenza dell’esempio pratico) Nella musica indiana, il metodo che si usa da centinaia di anni a tutt’oggi si chiama guru-shishya parampara, che significa “apprendimento diretto pratico dal maestro all’allievo”. In genere si inizia fin dalla prima infanzia, mettendosi a seguire la pratica (pratica!) di un maestro che non ti impartisce alcuna lezione teorica. Nemmeno per sogno. Ti metti lì a guardare e ripeti esattamente quello che fa lui. E ripeti, ripeti, ripeti, per anni e anni. Il maestro non ti spiega nulla. Nulla! Mostra solo e ti mette a fare. In India si parla di un “giovane musicista” di uno o una verso i 40 anni. Tanto lunga è la pratica che si richiede. Altro esempio: nelle botteghe degli artisti del passato, si entrava ragazzini e si iniziava a spazzare il pavimento, a pulire a mettere in ordine. Questo permetteva di conoscere intanto gli strumenti del mestiere, di prendere contatto, Dopo alcuni anni si potevano pestare i colori, fare le mestiche ecc. Poi, solo poi si iniziava a dipingere e solo dei particolari. Rarissimi sono gli esempi di geni che iniziarono a fare capolavori molto giovani. Cioè a qualunque pratica creativa ci si avvicina con rispetto, pazienza e pratica.
Nel riportare l’esempio del guru-shishya parampara,(tecnica di apprendimento che in India si estende a ogni campo del sapere) che di fatto si basa sull’apprendimento naturale, come quando i bambini imparano a parlare (non gli si insegna certo la grammatica per imparare a parlare!) mi pare evidente che l’apprendimento non è affatto meccanico, come qualcuno molto malaccorto e assai poco informato di questa cosa ha pensato bene di osservare una volta,  ma al contrario, mette in condizione l’allievo di sperimentare ogni possibile sfumatura della tecnica e della conoscenza per poter poi essere libero di interpretare la disciplina mettendoci del suo. La teoria è inclusa nella pratica e, come chiunque insegni sa, la dimostrazione è la miglior maestra. La conoscenza della tecnica, che si acquisisce con la pratica e l’esperienza, rende liberi. Chi padroneggia la tecnica è finalmente in grado di “iniziare a fare”. Tutto tranne che meccanico!
Ovvio che molti non saranno d’accordo oggi. Oggi le idee sono molto diverse. E ben venga. Ognuno deve trovarsi la via che più risuona con ciò che si è.
Io, ripeto ancora, non sono una teorica e non ho nulla da insegnare a nessuno, se non raccontare ciò che ho imparato io e quel poco che ho capito. Se per via c’è chi lo condivide ne sono felice, perché ci si trova tra compagni a fare un pezzo di strada insieme, se invece non lo condivide va bene lo stesso. La mia non è insoddisfazione, ma constatazione. Mi dispiace solo che poi molti capolavori vengano lasciati intradotti (si può usare questo termine?) per la cecità, stupidità e ignoranza di molti editori.

(C)2012 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Un Valentino di Edgar Allan Poe tradotto da Francesca Diano

Andrea Rambaldi, Amore. China nera su carta.

Il testo proposto di seguito fu scritto da Poe il 13 febbraio 1846  per la donna di cui era innamorato, da leggere in pubblico il giorno successivo, 14 febbraio, ad una riunione in cui lui non sarebbe stato presente, e pubblicato il 21 di quello stesso mese sul New York Evening Mirror. La donna era Frances Sargent Osgood (Boston 1811-New York 1850) e il testo, (in inglese A Valentine), nella sua prima pubblicazione era intitolato To her whose name is written below, mentre successivamente recava la dedica: TO – – . Il testo infatti è un acrostico complesso, un vero e proprio indovinello, perché il nome dell’amata si può leggere solo collegando  la prima lettera del primo verso alla seconda del secondo, alla terza del terzo e così via.  Questo pone notevoli problemi di traduzione, poiché mantenere questa struttura e allo stesso tempo darne una traduzione fedele risulta pressoché impossibile. In tutte le traduzioni italiane che ho esaminato, l’acrostico è inesistente, è stato completamente annullato. Ma, dal momento che il modo in cui io intendo la traduzione è quello di non tradire il testo, di non piegarlo a facili soluzioni, magari inventandosi termini inesistenti per faciloneria, ho adottato una soluzione che mi è parsa l’unica possibile. Almeno per quanto io sia in grado di fare. Ho mantenuto la massima fedeltà al testo, mantenendo l’acrostico nell’unico modo che mi è parso possibile in italiano. In questo caso però il nome Frances Sargent Osgood si leggerà collegando l’una all’altra  le prime lettere di ciascun verso.

Frances Sargent Locke, sposata Osgood, fu una delle più famose poetesse e scrittrici americane del suo tempo. Conobbe Poe nel 1845, dopo che lui aveva pubblicamente apprezzato i suoi versi. Frances era già separata dal marito, col quale in seguito si riconcilierà, mentre la moglie di Poe, Virginia, era ancora viva, seppure già malata di tubercolosi. Poe e la Osgood iniziarono uno scambio pubblico di poesie, alcune molto romantiche, anche se sembra che la loro relazione sia rimasta platonica. Tuttavia la loro relazione suscitò un enorme scandalo pubblico,  che amareggiò non poco Poe. A Valentine, che molti erroneamente traducono “una Valentina”, come se si trattasse di un nome, mentre in inglese significa “un biglietto d’amore” o “biglietto di San Valentino”,  è comunque un’aperta dichiarazione d’amore a chiave.

Andrea Rambaldi, particolare

 

 

***

UN  VALENTINO

di Edgar Allan Poe

 

 

Forma hanno preso i versi per colei, i cui occhi lucenti,

Rifulgenti espressivi come i gemelli di Leda,

Arriveranno a trovare il dolce nome, annidato

Nella pagina, celato a ogni lettore

Cerca attenta tra i versi! – racchiudono un tesoro

Eccelso – un talismano – un amuleto

Sul cuore da indossare. Esplora metro – e

Sillabe – parole! Non trascurare

Alcun punto sia pur di poco conto, o vano è il faticare.

Racchiuso in questo tuttavia non v’è nodo

Gordiano da recidere con spada,

E invece basta comprenderne la trama.

Nel foglio che ora scrutano occhi lucenti d’anima

Tre parole eloquenti  si celano molte volte scandite

Ove sono poeti da poeti – poiché anche quel nome è di poeta.

Seppure per natura le sue lettere

Giochino inganni come il Cavalier  Pinto Mendez Ferdinando –

Ognor sinonimi son di Verità – Più non provare!

Ormai non scioglierai l’indovinello,

Dato e concesso tu faccia del tuo meglio.

 

*************

valentine_big

A Valentine

To _ _ _

For her     this rhyme is penned, whose luminous eyes,
Brightly  expressive as the twins of Leda,
Shall find her own sweet name, that nestling lies
Upon the page, enwrapped from every reader.
Search narrowly the lines!- they hold a treasure
Divine– a talisman- an amulet
That must be worn at heart. Search well the measure-
The words– the syllables! Do not forget
The trivialest point, or you may lose your labor
And yet there is in this no Gordian knot
Which one might not undo without a sabre,
If one could merely comprehend the plot.
Enwritten upon the leaf where now are peering
Eyes scintillating soul, there lie perdus
Three eloquent words oft uttered in the hearing
Of poets, by poets– as the name is a poet’s, too,
Its letters, although naturally lying
Like the knight Pinto– Mendez Ferdinando-
Still form a synonym for Truth- Cease trying!
You will not read the riddle, though you do the best you can do.

 

NB La foto del testo manoscritto di Poe è la prima versione, che venne successivamente lievemente modificata, come si può vedere, non ultimo il numero dei versi che Poe corresse, in quanto qui aveva erroneamente calcolato le lettere del nome, scrivendo un cognome come fosse Sargeant invece del corretto Sargent. Come si vede, anche i più grandi possono sbagliare.

 

(C)2012 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Nota: Il bellissimo disegno che ho aggiunto è di mano di Andrea Rambaldi, un giovane artista di talento a cui auguro il successo che merita. F.D.

L’arte del tradurre

Beginning of Written Language

Tradurre, è un’arte o una scienza?

Per chi è convinto del secondo caso, in italiano è ormai in uso il termine, che io trovo orribile, di “traduttologia”, esso stesso traduzione del francese “traductologie”. Meglio, molto meglio, se è questo il modo in cui la si intende,  “teoria della traduzione”, che si apre a campi molto più vasti del freddo traduttologia, che tanto mi suona come tuttologia e che relega in una sorta di obitorio livido le competenze e le qualità letterarie che un traduttore deve avere.
Siamo sommersi da studi, saggi, convegni sulla traduzione, ci sono dipartimenti universitari ad essa dedicati eppure, e so di suonare blasfema, di essere una voce fuori dal coro, di scandalizzare gli “esperti” arroccati nella loro accademia, sono convinta che tutto questo a poco serva.
Come a nulla servono le Scuole e i Corsi di scrittura, a parte insegnare delle tecniche. Che però non sono sufficienti per produrre degli scrittori o dei poeti. Di sicuro potranno migliorare lo stile, grammatica e sintassi, la capacità di costruire una frase o un periodo. Di far comprendere meglio a questi allievi profumatamente paganti l’opera di scrittori e poeti (che è quanto fa un buon corso di letteratura, per inciso). Ma non produrranno alcuno scrittore o alcun poeta. A meno che tra di loro non ce ne sia già uno, che comunque, per essere tale, dovrà, come è sempre accaduto, dimenticare TUTTO quello che gli hanno insegnato e scoprire da sé la sua lingua e il suo stile.
Milioni di opere letterarie nei secoli sono nate senza scuole di scrittura. Opere assai migliori di quelle che oggi si producono, a dispetto dei tanti che insegnano e imparano a scrivere.

L’arte non è una catena di montaggio. Non è un prodotto che si confeziona in fabbriche di scrittori. Come ci hanno insegnato gli americani e come abbiamo imparato a scimmiottare noi.  Se i loro “prodotti” ben confezionati vendono come hamburger, perché non adottare le loro formulette? Certo, qui si parla di quei fabbricanti di best sellers  a cui tanti autori de noantri guardano con invidia e soffocato rancore e non di gente come Foster Wallace, Franzen, Palahinuk, ma anche il tanto bistrattato (dai critici) e adorato da milioni di lettori adoranti, ora riconosciuto come un o dei maggiori e più originali scrittori americani, che è Stephen King. Questa recentissima consacrazione infatti è stata immediatamente registrata anche da noi, affidando la traduzione dell’ultimo suo geniale romanzo, 22/11/63, a Wu Ming1.

Uno scrittore però  si forma, con immensa fatica, a parte rarissime e felici eccezioni, su Maestri, che sono gli altri scrittori. E sulla propria capacità di vivere la vita in ogni istante e senza risparmio.
Ma scrittori si nasce (e poi si diventa), così come artisti si nasce (e poi si diventa).

Preciso meglio: una scuola di traduzione forse serve moltissimo a chi affronta un testo scientifico, tecnico, ma non certo a chi affronti un testo letterario.
Ho osato dire una volta, ad un Convegno di traduttori (italiano) che per tradurre letteratura si dev’essere uno scrittore e per tradurre poesia un poeta… apriti cielo! Tutti i traduttori e le traduttrici presenti (tutti noti) mi si sono scagliati contro scandalizzati. Ma come!? Per tradurre un testo letterario è necessario conoscere la teoria della traduzione, seguire corsi (per inciso, al convegno erano presenti molti giovani allievi dei corsi tenuti da questi noti traduttori) fare pratica presso case editrici ecc. ecc. e basta fare esperienza. Ma quale scrittore, ma quale poeta! …Già, altrimenti la quasi totalità dei presenti sarebbe risultata obsoleta. Si sono sentiti minacciati. Bisognava zittirmi.

Ebbene, nella mia esperienza ormai quasi trentennale (ho iniziato nel 1981) di traduttrice di svariate decine di testi letterari e di saggistica, ho sperimentato che un buon traduttore letterario tanto giovane non può essere, perché la capacità di tradurre un testo simile è l’insieme di doti letterarie (o poetiche), che sono innate ma vanno incessantemente affinate, pratica e pratica e pratica e ancora pratica, vasta cultura generale, profonda conoscenza di campi specifici (che sono quelli in cui sarebbe consigliabile muoversi nel tradurre) conoscenza APPROFONDITA dell’epoca, del mondo, della cultura e dell’autore dell’opera. E infine, ancora pratica. Esattamente le qualità che servono a uno scrittore.
Questo è il bagaglio scientifico necessario a un buon traduttore letterario.
Tradurre è innanzitutto conoscenza.
E non la si accumula se non in anni di studio e di pratica. Questo è il motivo per cui un esperto traduttore letterario, che spesso tra l’altro, ha anche il naso più degli editori stessi, per autori interessanti da proporre, va pagato e va pagato bene. Perché la competenza si paga.

Moltissime case editrici si avvalgono di giovani traduttori con poca conoscenza e poca esperienza, perché li sottopagano e poi si trovano traduzioni pietose, irte di errori e prive di qualunque valore letterario.
Io stessa mi sono trovata due volte e solo per particolarissime circostanze (ma mai più) a dover rifare daccapo delle simili traduzioni e mi sono chiesta con che coraggio questi signori avevano consegnato all’editore degli obbrobri simili, dato che non conoscevano nemmeno la materia che stavano traducendo, per non parlare della lingua originale, con gli svarioni di interpretazione immaginabili. Ma ci sono editori che preferiscono pagare poco piuttosto che pubblicare opere dignitose.

Non parliamo poi di certi dilettanti che accettano di essere sottopagati o addirittura non pagati, pur di vedere il proprio nome all’interno di un libro. Questa gente contribuisce a svilire la professionalità dei traduttori letterari. Perché, ormai è assodato, ben pochi sono gli editori che prestano attenzione al valore letterario di una traduzione.
Dunque, un buon traduttore letterario deve avere delle competenze vastissime, a volte persino maggiori dell’autore, (mi è capitato di dover correggere macroscopici errori di un autore, ovviamente vivente, di tipo storico e informativo, dunque di fare anche un lavoro di editing e parlo di un testo già pubblicato in lingua originale, che di conseguenza nelle edizioni successive è stato modificato in tal senso) e non può limitarsi a esercitare le sue capacità esclusivamente come traduttore, ma deve anche essere autore. Solo così infatti, si rende conto di cosa significhi costruire un testo letterario e dunque comprendere le difficoltà e le sottigliezze tecniche che richiede la struttura, l’architettura, di un’opera letteraria. Solo così può proporre un testo che sia letteratura anche nella propria lingua e non una semplice traduzione meccanica. Che comunque, in questo senso, non sarebbe una traduzione.

E’ cosa simpatica tenere seminari sulla tecnica della traduzione (ne ho fatti anche io, ma a mio modo), laboratori di traduzione, incontri sulla traduzione dei proverbi e sui modi di dire, convegni sulla filosofia e sulle tecniche e sulle teorie della traduzione e via dicendo. Ma tutto questo, i discorsi astratti, non servono poi quando ti trovi da solo col tuo autore e devi dargli una voce nella tua lingua.

Anzi, proprio coloro che più si danno da fare in questo senso sono poi i traduttori più mediocri.
Perché è questo che fa un traduttore letterario: dà una voce all’autore.
Il traduttore letterario è come un attore, come l’interprete di un testo musicale. La naturalezza è ciò che chiediamo a un attore, no? Un attore se vero e tale è, non deve “recitare”. Ma deve recitare facendoti dimenticare che sta recitando.
E tradurre un testo letterario significa far sì che non ci si possa render conto che di una traduzione si tratta.
Chi ti può insegnare a riprodurre un’atmosfera, uno stile, una sonorità? Ma del resto, mediocri traduttori vanno bene per mediocri opere di narrativa.
In Italia si traduce tutto e molto di questo è mediocre. E allora, non importa se anche il traduttore non svetta. Anche questa è una forma di armonia.
Se poi l’autore è morto e non può aiutarti a risolvere i dubbi sul senso o la sfumatura che può avere una frase o una parola, se non può difendersi dai tuoi errori di interpretazione, allora ti può venire in aiuto solo la tua conoscenza, a volte devi fare un lavoro filologico, ti viene in aiuto l’intuizione, ti viene in aiuto la voce dell’autore come ha parlato nel resto delle sue opere che tu non stai traducendo, ma che devi conoscere.
A quel punto non ci sarà “traduttologia” che tenga. Ci sei tu e c’è l’autore e c’è questo dialogo intimo e profondo che ci lega. Devi lasciare che ti parli. Devi ascoltare quella lingua che non è fatta di parole in nessuna lingua. Solo così puoi filtrarla nella tua.
Ed è per questo che uno dei punti essenziali del tradurre letteratura è il massimo rispetto per il testo.
Non lo puoi “riscrivere”. Non puoi mettere ai personaggi di Shakesperare le divise naziste… certo, lo si fa, ma…. grazie a dio ci sono autori che sopportano qualunque obbrobrio, anche se ne escono acciaccati e pieni di lividi.

Molto s’è detto anche sul fatto che le traduzioni invecchiano.
Io dico di no. Una bella traduzione non invecchia affatto. Come non invecchia la lingua di un grande scrittore, non invecchia affatto la lingua di un grande traduttore. Se poi parliamo di una traduzione così così….beh, certo, quella invecchia, perché non era letteratura nemmeno all’inizio.
La traduzione che Foscolo ha fatto del “Viaggio sentimentale” di Sterne, non è invecchiata, ma è limpida e smaltata come allora.
Un traduttore deve “sentire” lo stile del suo autore e cercare di ricrearlo nella sua traduzione.
Dunque deve sapere cos’è lo stile, cos’è la forma letteraria. Come traduci letteratura altrimenti? La puoi solo appiattire e falsare.
Non è poi il caso di dire che si debba conoscere a perfezione sia la lingua (e la cultura) d’origine che la propria. Altrimenti si finisce per produrre delle frittatone illeggibili come quella traduzione, zeppa d’errori e pesantissima, in cui la lingua meravigliosa e aerea di Kerouac è morta e sepolta, perché la tanto osannata Pivano era in realtà una mediocrissima traduttrice, cattiva conoscitrice dell’italiano letterario, che ha castigato tanti capolavori. Cosa che  tutti da sempre sapevano e si dicevano sottovoce ma, per il solito ossequio italiano ai poteri acquisiti,  non osavano (e ancora poco osano)  dire.

E tradurre poesia?
Questo, in una prossima nota.

(C) 2012 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA


Lamentazione di Felix McCarthy per la morte dei figli (XVII sec.) Traduzione di Francesca Diano

Una veglia funebre irlandese (incisione acquarellata XIX sec.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le tradizioni funebri irlandesi, che sono da molti anni un mio oggetto di studio, all’interno dello studio specialistico del folklore irlandese, sono un campo  vastissimo e di interesse unico in Europa, perché, come più volte ho scritto, l’Irlanda ha mantenuto la più ricca tradizione folklorica europea.

Le tradizioni funebri  culminano essenzialmente in due momenti fondamentali: la veglia funebre (wake) e la lamentazione funebre ritualizzata (keen – irl. caoineadh) . Tali tradizioni erano entrambe assai vive  ancora fino agli inizi del ‘900, anche se la seconda si andava affievolendo e rimaneva soprattutto in aree rurali o sulle isole.

Entrambe si sono sviluppate nel corso dei secoli, quando il dominio inglese, dopo la conquista di Elisabetta I, aveva vietato lo svolgimento di riti cattolici (battesimi, messe, funerali, matrimoni), ma in realtà gli irlandesi hanno semplicemente enfatizzato e riversato nelle antiche tradizioni precristiane il sentimento antiprotestante e la volontà di preservare la loro identità culturale e religiosa. Dunque, le messe si svolgevano all’aperto, usando dei massi come altare, e la sepoltura era solo l’atto conclusivo di una serie complessissima di riti, che iniziavano con la veglia funebre.

La lamentazione funebre ritualizzata veniva recitata da donne, le keeners, che in parte conoscevano a memoria un’enorme numero di versi, ( gli antichi keen tramandati a memoria nei secoli) e in parte improvvisavano. La lamentazione funebre, a volte recitata da una prefica, a volte, per le famiglie più ricche, da più prefiche, celebrava il defunto, ne illustrava le virtù e le imprese, ne piangeva amaramente la perdita. Ma non con semplici formule stereotipate, bensì in forme poetiche raffinatissime ed elaborate, in cui versi aulici si succedevano in decine di strofe.

Il keen che qui presento, nella mia traduzione, risale alla fine del XVII sec. è uno dei più famosi ed è attribuito allo stesso Felix McCarthy. La tradizione vuole che Felix fosse uno di quei seguaci di Giacomo II, il re inglese che appoggiava i cattolici, nel corso delle lotte contro Guglielmo III d’Orange, quando re Giacomo sbarcò in Irlanda per tentare di ritornare in Inghilterra. Come si sa, le forze giacobite furono sconfitte nel corso della Battaglia del Boyne (1689) e Giacomo tornò poi in esilio in Francia.

Nel corso di quei disordini, Felix, del clan dei McCarthy, si rifugiò in una regione montagnosa del Munster, nella zona del West Cork, con la moglie e i quattro figli ma, durante un’assenza sua e di sua moglie, la capanna di legno che aveva costruito come rifugio per la sua famiglia, crollò seppellendo i bambini.

La lamentazione, terribile e disperata, in cui la ferocia del dolore è durissima, segue tuttavia lo schema classico e codificato.  Inizia con la manifestazione della sofferenza della perdita, prosegue con l’elogio delle qualità dei figli, di cui ricorda le nobili ascendenze, inserendo la loro nascita nella genealogia di stirpe  regale.  La chiusa, che precede il Ceangal (il tradizionale Commiato o  Ripresa) consiste in una terribile maledizione (l’interdetto druidico), pronunciata in modo solenne all’interno della lamentazione e dunque di efficacia spaventosa, contro la valle e contro tutta la natura che ha condannato a morte precoce i suoi piccoli,  nei secoli a venire.

Come si vedrà, il metro, che nelle strofe è incalzante e che, nella mia traduzione, ho cercato di rendere tale da mantenere il ritmo ondulante e ipnotico, tipico della recitazione classica del keen, nel Ceangal cambia e si fa più disteso. Anche questo rientra nella struttura della lamentazione funebre ritualizzata.

La grande tradizione poetica che il keen rappresenta in Irlanda, fu da sempre osteggiato sia dalla Chiesa, perché vi si credeva di scorgere (e in fondo con ragione) una forma di paganesimo, sia dagli inglesi, che, non comprendendo il gaelico e sentendo solo i suoni gutturali, tipici della recitazione del caoineadh, bollavano tanta bellezza come una manifestazione di ignoranza e arretratezza. Questo è il motivo per cui la tradizione si è andata spegnendo.  Ma non la sua memoria e il suo studio.

Nota di Traduzione

Questa mia traduzione poetica è stata condotta non sull’antico testo in gaelico, ma su una bellissima e fedele traduzione in inglese della prima metà dell’ 800. Lo preciso perché trovo estremamente scorretti quei traduttori (e ce ne sono molti anche notissimi) che traducono dall’inglese o dal francese testi in altre lingue ma non lo dicono, anzi appoggiati in questo dai loro altrettanto scorretti editori. Poiché la ritengo una truffa nei confronti del lettore, desidero sia chiaro. In questo senso, le ineffabili sfumature e raffinatezze stilistiche dell’originale saranno certo in parte perse, ma mi sono attenuta il più possibile alla bellissima versione inglese, cercando allo stesso tempo si creare una lingua poetica che si avvicinasse il più possibile all’anima poetica irlandese come io la conosco e amo.

 

LAMENTAZIONE DI FELIX MAC CARTHY PER LA PERDITA DEI SUOI QUATTRO FIGLI (XVII sec.)

 

Pur strozzato dal pianto – tenterò di cantare

I miei cari adorati, con profondo dolore –

Mia la perdita dura a cui corre il pensiero

E la piena del cuore porterà a traboccare.

Oggi, giorno di Pasqua, io non ho più sostegni

Questo giorno crudele che squarcia il mio petto!

Lontano da amici e da ciò che più amo

Solitario mi tocca vagare nell’ovest.

Sospinto a parlare da atroci ferite

Lasciate ch’io pianga il mio lutto infinito:

La testa sconnessa, fiaccato da pena

E il cuore mi scoppia e non trova sollievo.

 

Dolore di vedova mai è quanto il mio

O dello sposo per il suo letto vuoto.

Solo io sono col gelo d’inverno

Vuoto è il mio nido – i miei piccoli morti.

Così, come il cigno su onde in tempesta,

Sia dolce il mio canto, funebre e cupo.

Il canto di morte che onora i morenti

E sussurra la musica oltre l’abisso.

 

Mio piccolo Callaghan – o crollo funesto;

E Charles dalla pelle di tenera seta

Mary – e Ann, che di tutti eri più amata

Che un ammasso di pietre tutti ha sepolti.

Miei quattro bambini – puri come la luce

Di alto lignaggio – in un giorno soltanto

Tutti morti vi ho visti – o visione fatale

Che rende il mio cuore triste e riarso.

Rami del nobile albero d’Heber

Nel fior della vita – tutti verità e amore –

Miei figli! Via siete andati da me

Nell’alba gioiosa della prima età vostra.

Pur di stirpe più fiera – tuttavia essi pure

Col re della Scozia si potevan legare –

E i sovrani di Spagna, riccamente adornati

Poiché quello era il ceppo dei loro natali.

Con molti audaci di sangue milesio

Potevan vantare uno stretto legame

E da cronache antiche potevan provare

Con i re sassoni un legame di sangue.

 

La loro voce era dolce al mio orecchio

Quando indulgevano in giochi infantili,

ma ora non suono allegro mi giunge –

muto è il loro labbro, come la terra.

E chi potrà dire quanto soffre la madre?

Per i figli che amava con amore di fuoco

Nutriti alla fonte del suo stesso cuore –

Suo sarà tutto il dolore che resta.

Le bianche mani ha tutte infiammate

Per lo strofinarle in disperazione

Grosse lacrime versano gli occhi. Incessanti

È folle il suo cuore, scomposti i capelli.

Ma strano sarebbe se meno soffrisse

Ché ha perso il sostegno della sua intera vita;

Né in Innisfail vi è chi inchiodata

Più alla sua croce sia e piegata.

 

 

Su quella valle triste e tetra

Dove quasi di senno è uscito il mio cuore

Possa Iddio apporre il Suo suggello

In memoria del mio greve fardello.

Valle del Massacro, da questo momento

Battezzo quel luogo nei tempi a venire;

Sia ricoperta del veleno più nero

E cancellata dalle inondazioni.

Non la illumini più la luce del sole

Né vi brilli una stella né raggio di luna;

Foglie, fiori e boccioli bruciati e appassiti,

Non uccelli né insetti vi facciano il nido.

E mai risvegli una voce trionfante

L’eco di quella maledetta vallata

Ma angoscia di morte e di carestia

Per sempre e per tutti il suo nome sia.

 

Ceangal (Commiato)

Causa della mia disperazione e fiaccante dolore

Tal che morte mi appare una benedizione

È la perdita dei miei figli, chiusi in un unico avello

Ann, Mary, il mio bel Charles e Callaghan, mio fiore novello.

 

(C)2007 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

IL CORVO di Edgar Allan Poe, tradotto da Francesca Diano

The Raven. Gustave Doré

Oltre ad essere quello scrittore di incredibile ingegno e genio, uno dei maggiori sperimentatori, dei maggiori rivoluzionari della letteratura di tutti i tempi, Poe  è  – come già dal suo nome in certo senso preannunciato – uno dei maggiori poeti americani e non solo americani. Un poeta che ha percorso vie ancora ignote, che lui stesso s’è tracciato, scrivendone nei suoi saggi, The Rationale of Verse, The Philosophy of Composition ( saggio in cui Poe analizza in modo puntuale la composizione di The Raven e la tecnica e teoria della composizione letteraria)  e The Poetic Principle.

Poe ha condotto ai suoi confini estremi l’idea, in realtà molto antica, che la poesia sia inscindibile dalla musica, stabilendo che sia musica essa stessa. La poesia è musica e il suo significato è  quella stessa musica.

La via nuova, la grande rivoluzione poetica che Poe operò nella poesia, non fu battuta dai suoi contemporanei americani, ma arrivò come un tuono all’anima di Baudelaire, suo primo e grandissimo traduttore, che fu preso da un amore totale e assoluto per questo genio infelice e tradito dai suoi contemporanei.  Cosa poi questo significò per Baudelaire e quale seguito ebbe nella scuola dei Decadenti francesi ed europei è noto. Rimando alla lettura del meraviglioso saggio che Baudelaire scrisse su Poe. Quel saggio famosissimo. scritto nel 1852, che così inizia:

“Di recente, fu tradotto dinanzi ai nostri tribunali un infelice la cui fronte era illustrata da un raro e singolare tatuaggio: Sfortuna! Egli portava così al di sopra dei suoi occhi l’etichetta della propria vita come un libro porta il suo titolo, e l’interrogatorio provò che quella bizzarra scritta era crudelmente veritiera. Nella storia letteraria ci sono destini analoghi, dannazioni, dannazioni di uomini che portano la parola scalogna scritta in caratteri misteriosi nelle pieghe sinuose della loro fronte. L’Angelo cieco dell’espiazione si è impadronito di loro, e li sferza senza pietà, a edificazione degli altri. Invano la loro vita mette in mostra talenti, virtù, grazia: ad essi la Società riserva uno speciale anatema, e li accusa delle menomazioni che la sua persecuzione ha provocato loro. Cosa mai non fece Hoffmann per disarmare il destino, e cosa non intraprese Balzac per scongiurare la sorte? Esiste dunque una Provvidenza diabolica che prepara la sventura sin dalla culla, che getta in modo premeditato nature spirituali e angeliche in ambienti ostili, come i martiri nei circhi? Ci sono dunque anime consacrate, votate all’altare, condannate a marciare verso la morte e verso la gloria attraverso le loro proprie rovine? L’incubo di Ténèbres assedierà eternamente queste anime elette? Invano si dibattono, invano si conformano al mondo, alle sue previdenze, alle sue astuzie; perfezioneranno la prudenza, tapperanno ogni uscita, imbottiranno le finestre contro i proiettili del caso; ma il Diavolo entrerà dalla serratura; una perfezione sarà il difetto della loro corazza, e una qualità superlativa il germe della loro dannazione.”

 

Questa ricerca ossessiva e maniacale del valore musicale della parola, che in realtà è presente anche nella sua prosa, rende difficilissima e in alcuni casi impossibile, la traduzione (una traduzione degna di questo nome) delle poesie di Edgarpoe (come lo chiamano i suoi innamorati, me compresa).

Penso ad esempio a The Bells, Le campane, il cui effetto è tutto giocato sulla riproduzione del suono delle campane a festa, a morto, ad allarme. Un testo poetico che è una partitura musicale, un pezzo di jazz, un fuoco d’artificio di effetti sorprendenti, mai uditi, che ti scagliano sulle montagne russe più estreme e che fanno tremare i polsi.

Tradurre la poesia di Poe dunque, è davvero un’impresa. Ma io amo le imprese e già molti anni fa mi venne voglia di misurarmi con la bellezza siderea, soprannaturale dei suoi versi.

In italiano ci sono varie traduzioni delle poesie di Poe, ma nessuno dei suoi traduttori  più illustri ha mai nemmeno provato a mantenere il ritmo musicale dei suoi versi. Dove non siano traduzioni in prosa, la fedeltà al testo originale si perde.

In seguito, al noto editore con cui allora collaboravo, quelle mie traduzioni piacquero moltissimo  mi propose di pubblicarle. Il fatto è che il contratto che proponeva era un semplice contratto di quelli con cui si torce il collo ai traduttori letterari in Italia: a cartella e una tantum! Dato che il numero di cartelle tra l’altro sarebbe stato esiguo e il mio lavoro un lavoro non certo di semplice traduzione, ma un’opera poetica, io proposi un normale e giusto (e dignitoso) contratto a royalties. All’editore  la cosa non andò e non se ne fece nulla.

NOTA

Nella mia  traduzione ho mantenuto la massima fedeltà al testo originale e ho cercato di riprodurre il ritmo musicale più simile possibile a quello del poemetto originale. Un ritmo ondulante, ipnotico, sovrannaturale, quasi da incantatore di serpenti. Ho mantenuto perciò, per quanto possibile, l’uso del doppio ottonario e del settenario della metrica originale.

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Il CORVO (1845) 

Edgar Allan Poe

Traduzione di Francesca Diano

*

Una tetra mezzanotte, meditando, fiacco e stanco

Sopra tomi antichi e strani di perdute conoscenze,

Con il capo tentennante, quasi mezzo addormentato,

Ecco a un tratto un lieve battito, come chi grattasse piano

Come chi grattasse piano alla porta della stanza.

<<Non è che un visitatore>>, mormorai, <<Che batte piano

alla porta della stanza –

Questo solo, e nulla più.>>

*

Ah, ricordo chiaramente ch’era un tristo assai dicembre,

E ogni brace moribonda proiettava il proprio spettro.

Agognavo all’indomani: – vanamente avea cercato

Di trovare nei miei libri qualche tregua alla mia pena –

Pena per Leonore perduta –

Per la rara e risplendente giovinetta a cui hanno dato

Nome gli angeli  Leonore –

Che qui un nome avrà mai più.

*

Ed il serico frusciare, così incerto delle tende

Rosse mi facea tremare – mi colmava

di fantastici terrori sempre prima sconosciuti.

Così ora, per tacere il pulsare del mio cuore, ritto in piedi ripetevo

<<Non è che un visitatore che mi supplica d’entrare dalla porta della stanza; –

Qualche ospite in ritardo che mi supplica d’entrare;

Questo solo e nulla più.>>

*

E d’un tratto ebbi coraggio; cancellai l’esitazione,

<<Oh signore>>, dissi, <<o Dama, perdonatemi, v’imploro;

Ma di fatto ero assopito e così lieve bussaste

E così sommessamente voi bussaste alla mia porta,

Che mi parve appena udire>> – e qui spalancai la porta; –

Solo buio e nulla più.

*

Scrutai a lungo nella tenebra, ritto, incerto, spaventato,

Dubitante e poi sognando sogni che prima mortale

osò mai nemmen sognare.

Ma il silenzio era profondo e la tenebra spietata

Ed un’unica parola – bisbigliata – fu <<Leonore!>>

Questo era il mio sussurro ed un’eco mormorante

mi rispose, <<Leonore!>>

Solo questo e nulla più.

*

Ritornando nella stanza, la mia anima un incendio,

Presto ancora udii bussare con più forza del passato.

<<Di sicuro>> dissi, <<certo è qualcosa alla finestra:

Su vediamo cos’è mai; ch’io disveli quel mistero –

Che il mio cuore un po’ si calmi e che io sveli il mistero; –

Solo il vento e nulla più!>>

*

E l’imposta spalancai quando, un frullo e un batter d’ali,

Entrò un Corvo maestoso, di remoti giorni sacri.

Non mi fece riverenze; né un istante stette fermo,

Ma s’andò a posare sopra l’architrave della porta

come un nobile signore o milady, appollaiato

sopra il busto di Minerva che sovrasta la mia porta.

Fermo, immoto e nulla più.

*

Poi l’uccello nero ebano fece sì che in un sorriso

Io sciogliessi le atre angosce, col decoro grave e nobile

del severo atteggiamento.

<<Pur se il ciuffo hai tu rasato, di sicuro tu sei fiero>>, dissi,

<<corvo torvo, orrido e antico che veleggi dalle plaghe

della Notte – dimmi quale nome nobile hai tu

sopra il lido plutoniano  ch’è confine della Notte!>>

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

Molto mi meravigliai nell’udir quell’uccellaccio favellare tanto chiaro,

Pur se quella sua risposta non aveva senso alcuno

e a sproposito veniva;

Ché chi mai può convenire, che vivente creatura

Mai abbia visto un tale uccello sulla porta di una stanza.

Un uccello o altro animale sopra il busto cesellato sulla porta della stanza.

Il cui nome è <<Mai non più.>>

*

Ma, posato solitario sopra quel busto sereno, solamente disse il Corvo

Sol quell’unica parola, come se vi riversasse

per intero la sua anima.

E null’altro disse ancora – e non piuma scosse o mosse –

Finché appena bisbigliai, <<Altri amici son fuggiti prima d’ora-

E domattina egli pur mi lascerà, come già ogni mia speranza.>>

E l’uccello: <<Mai non più.>>

*

Mi sorprese quel silenzio, rotto solo dalla replica

così a senso pronunciata.

<<Senza dubbio>>, dissi allora, <<quel che dice non è altro

che soltanto dire sa

E l’ha appreso da un padrone incalzato da Sciagura impietosa

Ancora e ancora, tal che un solo  ritornello era quello dei suoi canti –

Che i suoi pianti disperati con quel triste ritornello ebber chiusa

Sempre quello, sempre quello

“Non più mai – mai non più”.>>

*

Ma quel Corvo, trasmutò le mie tristi fantasie

nuovamente in un sorriso

Ed allora trascinai proprio accanto a lui e alla porta

e poi al busto una poltrona:

Poi, affondato nel velluto, presi allora a collegare

Fantasia e fantasticare e mi chiesi che volesse

dire mai quell’uccello antico e infausto –

Cosa mai quel tristo, goffo, spaventoso e infausto uccello –

Dir volesse nel gracchiare  <<Mai non più.>>

*

Ciò, seduto, riflettevo, ma non sillaba volgevo

All’uccello  i cui occhi accesi mi bruciavano nel petto;

Questo ed altro ripensavo, con la testa reclinata

Sul velluto del cuscino che la lampada assetata riguardava avidamente,

Ma il velluto del cuscino viola, che la lampada assetata

riguardava avidamente

Lei non premerà mai più!

*

Poi parve addensarsi l’aria, con profumi ch’esalavano

da invisibile incensiere

Oscillato da alati angeli, i cui passi tintinnando

risonavano sul marmo.

<<Infelice>>, gridai allora. <<è il tuo Dio che li ha mandati –

con questi angeli ti invia un sollievo ed un nepente

al ricordo di Leonore!

Su trangugia quel nepente e dimentica Leonore!>>

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

<<Oh Profeta!>> dissi, <<creatura dell’inferno! – ma profeta nondimeno

che sia tu diavolo o uccello! –

Che ti mandi il Tentatore, o tempesta abbia inviato,

Solitario ma indomato in questo deserto incantato –

In codesta mia magione dell’Orrore – dimmi imploro –

Vi è – vi è un balsamo in Gilead? Dimmi, dimmelo, t’imploro!>>

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

<<Oh Profeta!>> dissi, <<creatura dell’inferno! – ma profeta nondimeno

che tu sia diavolo o uccello!

Per quel Ciel che ci sovrasta – per quel Dio che entrambi amiamo –

Di’ a quest’animo gravato dal tormento, se nell’Eden

Sì distante stringerò la cara santa a cui  Leonore

nome gli angeli hanno dato –

Stringerò la risplendente giovinetta rara a cui hanno dato

nome  gli angeli Leonore?>>

Disse  il Corvo, <<Mai non più.>>

*

<<Sia un addio questo tuo dire, uccellaccio di sventure!>>

gridai alzandomi all’impiedi –

<<Fa’ ritorno alla tempesta ed al lido plutoniano

della Notte!

Non lasciare piuma nera a ricordo del mentire che hai dianzi pronunciato!

Lascia intatto il mio silenzio! Lascia il busto sulla porta!

Togli il becco dal mio cuore e il tuo corpo dalla porta!

Disse il Corvo, <<Mai non più.>>

*

Ed il Corvo non s’alzò; sempre posa, sempre posa

Sopra il bianco busto pallido di Minerva sulla porta;

E i suoi occhi hanno l’aspetto di un demonio sognatore

E la luce della lampada che lo inonda getta l’ombra

sua di sopra il pavimento;

La mia anima dall’ombra che per terra aleggia immota

non si alzerà – mai più!

  • * § *

(C) copyright 2006 by Francesca Diano

RIPRODUZIONE RISERVATA

Ma un recensore non dovrebbe conoscere la materia di cui parla?

Mi è capitato di leggere alcune interessanti recensioni di romanzi indiani tradotti in italiano, non firmate, o firmate solo col nome proprio, su di un sito dedicato al cinema indiano. In realtà l’ennesimo blog dedicato (e ti pareva) al cinema di Bollywood. Ben fatto, non c’è che dire. Peccato sia tutto anonimo, dato che nessun nome o firma sono in alcun modo rintracciabili su questo blog.

Detto per inciso, pensavo che, chi scrive una recensione, su qualunque argomento, dovesse firmarsi con nome e cognome, tanto per assumersi la responsabilità di ciò che mette per iscritto. Non è solo una simpatica abitudine, ma anche un atto di civiltà e professionalità, magari solo per risultare più credibili.

Anche perché su questo sito, si citano ampi stralci tratti da opere coperte da copyright e non credo sia sufficiente mettere le mani avanti e dichiarare: “se abbiamo violato il copyright, o se non abbiamo chiesto il permesso all’editore, ce ne scusiamo”!

Tra le varie, la recensione  di Un uomo migliore, di Anita Nair, che potete leggere qui  e, nello stesso sito, un’altra, quella di Nettare in un setaccio, di Kamala Markandaya, che potete leggere qui e ancora una recensione di La Stanza della Musica, di Namita Devidayal, che potete leggere qui.

Ho scelto queste recensioni perché riguardano romanzi di autrici indiane che conosco molto meglio di altre per vari motivi. Ovviamente Anita Nair perché sono la sua traduttrice italiana, ma la Markandaya perché avevo letto il suo romanzo di una bellezza che ti strappa il cuore, agli inizi degli anni 70, quando vivevo a Londra e il romanzo era un caso editoriale. Nectar in a sieve, il titolo originale,  dell’edizione ancora in mio possesso, è un romanzo che descrive, nello stile tipico di quella corrente di naturalismo narrativo che la letteratura indiana conobbe agli inizi del 900, la dimensione più tradizionale dell’India, quella rurale e del villaggio. Markandaya ha una scrittura di una delicatezza estrema, raffinatissima e lirica, eppure riesce a ricreare l’atmosfera apparentemente semplice di sentimenti primari, essenziali. Quasi primordiali. Ma non è solo questo, è stato anche il primo romanzo che ha rivelato una scrittrice indiana che scriveva in inglese all’Occidente.

Il romanzo conserva tutta la freschezza e la poesia e la forza che si trova in una scrittrice tra le più grandi che l’Italia abbia avuto e che ha dimenticato: Grazia Deledda.  Dunque, dare un giudizio come quello contenuto  nella recensione denota non solo cecità per la bellezza e la forza del romanzo, ma anche una limitata conoscenza sia della letteratura indiana che della cultura e della società indiane.

Analogo discorso va fatto per la recensione di Un uomo migliore, di cui ho già scritto ampiamente sul mio blog e di cui ho spiegato i profondi meccanismi e significati.

Dopo aver fatto degli appunti allo stile, come se proprio quel modulare lo  stile a seconda del personaggio (variando da registri drammatici a comici, a grotteschi a poetici e sognanti) non fosse la chiave di interpretazione dei singoli personaggi, Si arriva addirittura a dichiarare “alcune tappe rituali fanno sorridere”….  sorridere chi? Un’espressione davvero infelice, perché tradisce un atteggiamento di supponenza che parrebbe fuori luogo. Il significato semantico  di questo sorriso infatti è: guarda che ingenuona è questa Nair, i mezzucci letterari che usa sono infantili e io, dall’alto della mia conoscenza, non ci casco di sicuro.

A quali  tappe rituali (tappe rituali?) poi si riferisce?   Forse intendeva quell’intuizione geniale per cui Mukundan viene rinchiuso in una enorme giara per rivivere una sorta di ritorno all’utero. Credo che chi ha scritto questo non sappia molto di antichissimi riti, atavici, e della dimensione ancora intrisa di magia religiosa che permane in molte zone rurali del subcontinente indiano, specialmente nell’India meridionale, dove il Kerala si trova. I culti religiosi che vi si praticano non sono di tradizione hindu. Questa  non è l’India vedica, ma dravidica.

Per quanto riguarda La Stanza della Musica, che è un romanzo, almeno nella versione originale, che molto perde nella traduzione italiana, di folgorante bellezza, è ovvio che per apprezzarlo appieno sarebbe auspicabile sapere qualcosa di musica indiana classica e semiclassica. In questo caso, di  canto.  Magari non in modo superficiale. Magari saper apprezzare il diversissimo senso del tempo, musicale, ma anche interiore, dell’anima indiana, che la raffinatissima musica, narrata con altrettanto raffinatissimo linguaggio (poiché qui forma e idea si uniscono in una sintesi mirabile) racchiude.

Allora, ho trovato un po’ bizzarro che la nota “negativa” del recensore sia: “ci metterete più di un paio di giorni a finirlo”…

Lo spero bene, è un libro piuttosto corposo!

E questo mi ha aperto gli occhi! Se  la velocità di lettura di questo recensore anonimo è tale, forse per questo si perde le finezze, le sottigliezze, le sfumature di una letteratura che chiede tempo, amore e rispetto. E apertura mentale a ciò che è diverso da noi.

 

Ma quand’è che l’Italia uscirà da questo provincialismo che fa sì che tutti strillino alla meraviglia quando le mode arrivano da noi – in genere quando ormai sono quasi finite altrove? Quand’è che la gente si prenderà la briga di conoscere  gli argomenti di cui parla? Decenni fa proposi Nectar in a sieve, allora da noi sconosciuto (ovvio) e strapremiato ovunque nel mondo, a qualche editore. NON ERA INTERESSANTE. Chi voleva leggere un romanzo scritto in inglese da una donna indiana? Il massimo che si conosceva da noi era Tagore, e magari solo per sentito dire, perché aveva avuto il Nobel.

Ma non parliamo di Tagore anche oggi, per carità. Girano traduzioni che….

N.B. Il sito rende impossibile lasciare dei commenti se non si è membri del team, nessuno dei quali appare col proprio nome… capito?

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