Andrea Molesini, scrittoreditorepoeta dall’anima ardente.

Ho conosciuto Andrea Molesini grazie a un progetto che mi stava molto a cuore e che, con mia meraviglia, ha immediatamente trovato in lui un’entusiasta accoglienza. Dico con meraviglia perché, pur essendo la materia di straordinario valore e pressoché nuova per l’Italia, conosco molto bene il mondo dell’editoria – piccola, media e grande – ed è raro trovare risposte così immediate e sinceramente interessate. Questo è un uomo che sa riconoscere lo splendore appena lo vede – ho pensato – e non se lo lascia sfuggire; per un semplice fatto: che si ri-conosce negli altri solo ciò che tutto o in parte si possiede già. E questo tratto, che è anche segno di generosità, è fondamentale per chi voglia condividere, in qualunque modo questo avvenga, ciò che ama. Sarebbe in effetti il compito di chi vuole fondare e guidare una casa editrice. Lo ammiravo come scrittore e traduttore (non conoscevo il poeta) ed è stata una sorpresa scoprire l’editore. Un editore, per di più, che ha scelto di diffondere per il vasto mondo poesia, sia italiana sia in traduzione ma che sia, prima di tutto, di altissima qualità. Non i soliti noti, dunque, che affollano festival, riviste letterarie online, blog, interviste televisive o youtubiane, giornali, quotidiani, rotocalchi (ci sono ancora?) sempre le e gli stessi, tanto da far sospettare si tratti di replicanti o di sosia, ché il dono della bilocazione o trilocazione ce lo hanno solo i Santi.

Se come editore è giovane, quando definisce cosa sia per lui una casa editrice (“Una casa editrice è una comunità imbarcata in un fragile scafo che sfida il mare, l’àpeiron pullulante di demoni e di dèi.”) rivela una grande sapienza ed esperienza. Forse perché anche la scrittura è qualcosa di analogo, e poi quale altra metafora poteva scegliere questo “figlio del mare e delle pietre di Venezia”? Ma mi colpisce che in questa sua singolare definizione riverberi anche l’immagine del fortunoso viaggio di Brendano, che solcò mari ignoti e perigliosi con un pugno di confratelli per raggiungere le Isole dei Beati. L’ardore del santo, la follia dell’ignoto, l’amore per la parola e per la sua potenza trasformatrice io le ritrovo tanto nello scrittore che nell’editore.

Francesca Diano

D – Nel mondo complesso della letteratura ci sono molte diverse anime: c’è chi è nato per la narrativa, chi per la poesia, chi per la saggistica e poi chi si muove meravigliosamente fra tutte, magari arricchendo il già ricco quadro con il talento del traduttore. A me piacciono queste personalità molto eclettiche, che, come è naturale, sono rare. Tu sei una di quelle. Che tu sia anche un accademico è cosa che ti si perdona volentieri, dato quanto appena detto. Ma, e questa è cosa ancor più rara, sei anche un editore. C’è differenza e quale nella prospettiva da cui si pone uno scrittore e quella da cui si pone un editore rispetto al mondo della letteratura e dell’editoria? Trovarsi contemporaneamente dai due lati della barricata ha delle implicazioni?

R – Faccio l’editore da meno di un anno, non conosco ancora questo mestiere affascinante. Sto imparando, ogni giorno mi sembra di fare un passetto, spesso piccolo, qualche volta vado addirittura indietro, come un gambero, altre volte, per grazia o fortuna, faccio un passo in avanti che mi pare un po’ più lungo del solito. Tutto mi sembra illusorio, però, ho davvero poche certezze. Bisogna aver studiato molto per sapere poco, e io temo di non aver studiato abbastanza. Trovarsi dai due lati della barricata, però, non mi sembra un problema. I libri vanno scritti, pubblicati, distribuiti e venduti. Sono attività molto diverse tra loro e non sono sicuro che la prima sia la più difficile. Penso spesso alle parole beffarde di Vito Laterza, che cito a braccio: “Io faccio libri belli, se poi vendono pazienza”.

D – Potresti raccontare quale coraggio visionario ti ha portato a scegliere di fare l’editore, e per di più editore di poesia, in un momento così oscuro, ma anche così superficiale, soprattutto in Italia? E come scegli gli autori che vuoi pubblicare?

R – Ne Gli irati flutti W.H. Auden dice che più che temere la tirannia dovremmo temere la prostituzione. L’intellettuale dei nostri giorni rischia sempre di più di essere asservito alla richiesta di dare facile e immediato piacere, di distrarre. Credo che Orwell abbia esagerato nell’indicare il terrore come prima arma del potere, è la lusinga del piacere e del successo immediato che crea lo schiavo. Nel mondo che chiamiamo Occidentale la trivialità trionfa dovunque! Ricordo un aforisma di Karl Kraus: “Io mi esprimo in tedesco, se qualcuno non mi capisce mi rifiuto di tradurmi in giornalese”. Ecco, io credo che la poesia sia un antidoto al giornalese. Non chiede di piacere, disdegna l’applauso, ha il coraggio di essere meravigliosamente inutile, questo le costa la pubblica indifferenza, ma parla alle anime ardenti, e ce ne sono sempre in ascolto, poche, certo, ma ci sono. È un onore battersi con loro, per loro. Perché il desiderio dell’uomo probo è sempre qui, fra noi: vivere in semplicità, nella luce della conoscenza.

Come scelgo gli autori? Istinto, esperienza, fortuna. Mi avvalgo però dell’aiuto – davvero indispensabile – di meravigliosi collaboratori, amici appassionati tra cui ora credo di poter includere anche te. Una casa editrice è una comunità imbarcata in un fragile scafo che sfida il mare, l’ápeiron pullulante di demoni e dèi.

D – Nel tuo ultimo bellissimo romanzo, Il rogo della Repubblica, mi ha profondamente colpita la tua frase: “La poesia e la giustizia sono farfalle… mi correggo… sono le due ali della stessa farfalla che va di fiore in fiore, senza posa…”. Non avevo mai sentito esprimere questo concetto da un contemporaneo, poiché mi ricorda uno dei cardini attorno a cui ruota l’intera tradizione dell’antica poesia bardica e da cui trae vita l’arte, ma anche la visione del mondo degli antichi Celti in generale: la verità è giustizia e la poesia è verità. Puoi spiegare quale significato hanno per te queste parole?

R – Lo stesso espresso da Keats nella sua splendida Ode. La verità mi sta a cuore, anche se di rado mi sento alla sua altezza. La vita associata si fonda sulla bugia. Se dicessimo tutta la verità o la sentissimo pronunciare intorno a noi non avremmo nemmeno un amico e nessun rapporto d’amore, amicizia o altro durerebbe più di una mezz’ora… Nel libro della Genesi le prime parole dette da Adamo (in ebraico significa il Terrestre) sono una bugia. Le prime parole che il Dio Pantocratore gli rivolge (la prima volta che l’uomo sente la voce di Dio) sono “Dove sei?” e l’uomo risponde dicendo che si nasconde perché è nudo… Al che Dio gli fa presente che se ha coscienza della propria nudità significa che ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, il frutto proibito. C’è qualcosa di comico, di meravigliosamente infantile in questo primo incontro dell’uomo con Dio. L’ingenuità di Adamo è commovente, giustifica la sua colpa tirando in causa il pudore generato dal suo corpo nudo. Non si tratta di una vera bugia, ma ci assomiglia molto. La nascita della coscienza, la scelta di trasgredire il comandamento divino lo consegna alla Storia, all’angoscia del mutamento e all’ineluttabilità del dolore e della morte. Ma la scelta è obbligata, la creatura che porta in sé una traccia dell’immagine del Dio onnisciente non può che scegliere di scegliere, di conoscere e morire. E così eccolo condannato alla ricerca del vero, che gli sfugge come gli sfugge l’orizzonte. Si scrive contro la morte e l’oblio. La battaglia sarà comunque perduta, ma niente giustifica la resa. Non c’è onore nella resa. Scrivere è forse solo una fremente, incerta preghiera che invoca Verità, la sconosciuta.

D – Quali sono i progetti e quali gli obiettivi che hai in mente e più ti stanno a cuore, sia in un prossimo ma anche in un più distante futuro?

R – Proprio oggi ho cominciato a correggere le bozze di un romanzo breve che uscirà presso Sellerio. Si tratta di una commedia nera, un apologo sul denaro e sulla sua energia che ci contamina e spesso travolge, che non per caso ha un titolo ironico: Non si uccide di martedì.

Sto anche progettando un nuovo libro, molto diverso, di cui conosco solo i contorni, per il momento, una storia che mi coinvolge nel profondo ma di cui preferisco non parlare, forse per scaramanzia.

Per la casa editrice, poi, nutro l’ambizione di coinvolgere e incoraggiare giovani poeti italiani, diciamo sotto i quaranta, che mi sembra oggi abbiano pochi luoghi dove esprimersi.

D – E infine, Boris, il lupo che vive e respira nel grande protagonista de Il rogo della Repubblica, è lui la parte che alimenta segretamente lo spirito della tua casa editrice?

R – Credo di sì. Il lupo mi è sempre stato caro. Cito un paragrafo tratto da Dove un’ombra sconsolata mi cerca (Sellerio, 2019): “La lana del lupo è la migliore delle lane, ma non si può tosarla, perché il lupo non te lo lascia fare […] Il pensiero ha lo stesso carattere del lupo. Lo puoi uccidere, perché non c’è niente su questa terra che sfugga alla morte, ma non lo puoi asservire. Era mio padre che diceva così, le porto sempre con me le cose che mi ha insegnato. Mio padre sapeva la foresta e sapeva la montagna. Sapeva che alle galline il tepore del pollaio piace, ma l’aquila vola sola nel cielo vuoto, diceva. E tu sei nata, me lo diceva spesso, nel paese delle aquile, nessuno può spennare un’aquila. Ricordatelo sempre, bambina mia, ti possono abbattere, ma non farti mai spiumare come un pollo”.