Ancora da PARADISO di Giorgio Linguaglossa – con una nota di Francesca Diano

 

 Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avermi permesso di pubblicare altre parti del suo Paradiso, cui accosto una tavola di Galeazzo Viganò, grande dipintore in Padova, per le sottili correnti che legano questa poesia e quella pittura.

Di Paradiso ho già detto qualcosa nel mio precedente post che lo riguarda. Vorrei però aggiungere qualcosa sul “valore” che il tempo rappresenta nella sua poesia. Intendo valore proprio in senso matematico e precisamente la nozione di “valore assoluto”. In termini matematici, rappresentando numeri reali su una retta reale, il loro valore assoluto è la distanza dallo zero. Ancora in termini matematici, il concetto di distanza è generalizzato come “il più breve percorso tra due punti di uno spazio curvo”. Ma non si dà distanza – cioè spazio – senza tempo.

Ed è esattamente su questo concetto di distanza che è costruito Paradiso. Lo spazio-tempo che separa e unisce i suoi personaggi è curvo, il che permette il contatto temporale e spaziale in una vicinanza altrimenti impossibile tra loro. Tutto diventa contemporaneità, tutto volge incessantemente attorno a un centro.

Newton, nei suoi Principia, afferma che:  «il tempo assoluto vero e matematico, in sé e per sua natura, fluisce uniformemente senza relazione a qualcosa di esterno, e con un altro nome si chiama durata; il tempo relativo, apparente e comune, è la misura sensibile ed esterna […] della durata attraverso il mezzo del movimento, ed esso è comunemente usato al posto del tempo vero; esso è l’ora, il giorno, il mese, l’anno». E ancora: «Lo spazio assoluto, per sua natura privo di relazione a qualcosa di esterno, rimane sempre simile a se stesso ed immobile […]» .

Il tempo, in Linguaglossa, è tanto quel “più breve percorso tra due punti di uno spazio curvo”, che il tempo e lo spazio assoluto di cui parla Newton. Perché? Perché quel tempo e quello spazio in cui si muovono senza ostacoli le anime che popolano il suo Paradiso, coesistono in uno spazio-tempo curvo e assoluto, “privi di relazione a qualcosa di esterno”, sempre simili a se stessi e immobili in un sistema chiuso e circolare, che mischia e mestica in un continuum passato presente e futuro.

Francesca Diano

(C) 2013

Giorgio Linguaglossa è nato ad Istanbul nel 1949 ma vive a Roma. Ha pubblicato tre raccolte di poesia ed è critico militante. Opere di poesia: “Uccelli” (Scettro del Re, 1992) e “Paradiso” (Edizioni Libreria Croce, 2000), “La Belligeranza del Tramonto” (LietoColle, 2006). Presente in alcune antologie, ha tradotto poeti dall’inglese, dal francese e dal tedesco; ha inoltre tradotto, in collaborazione, alcune poesie di C. Milosz. Nel 1993 ha fondato il quadrimestrale letterario  Poiesis  fino al 2005. Da “Paradiso”:

Galeazzo Viganò – Estro sopra Simon Mago. 2009

PRIMA NAVIGAZIONE

I

Affidarsi a più solida barca, traghettare,

l’inconfutabile Eutimia offrire agli stolti,

un vento divino ci condurrà.

«Dimmi Caronte, è grave disaccortezza

negare all’ospite l’ingresso? La verità

è nella polvere della superficie

o nelle profondità del Tempo?»[…]

[…]Gabriele è l’arcangelo del tempo,

fulgido nel suo panneggio celeste.

L’alito non scuote il drappeggio sottile.

Tutto lì è chiaro e trasparente,

nessuna oscurità, nessun contrasto,

nessuna piega o increspatura,

nessuna motilità senza nervatura

o screzio incide la chiarità d’albume.

La quiete non è scissa, il moto non è scosso.

Il vento della Storia che un tempo

Ha soffiato, ora si è raggelato

E, sullo stipite, compare un angelo

Malinconico che indica un corridoio.

Coro:

«il fuoco vige nella dimora delle pure forme.

È fiamma algida, sostanza in tattile.

Lingueggia dietro il sipario, tende verso l’alto,

lampeggia verso l’incorporeità

fra tutti i corpi il più sottile e brilla

e splende quasi fosse un’idea.

L’occhio si dissolve nel sole, l’iride

Brilla di luce propria come la stella

Meridiana e la Bellezza accende la nostalgia

Verso l’empireo, la patria d’origine,

ove una serena follia fiammeggia.»

È come aver dimenticato qualcosa

In fondo alla propria infanzia che arretra

Quasi un filo la riconduca al mondo

Portando un gusto da allegare i denti.

Un angelo dalle ali di fuoco

Indica il mio volto disperso nella tenebra.

«Sono proprio io l’eletto

e tu sei l’angelo dell’annunciazione?»

Un canto di baritono nell’aria e le note di un fagotto.

«Sono io il pictor e tu porti la buona novella?»

Che il fiammeggiante azzurro resti

Nel mosaico d’oro impresso ad encausto nell’abside.

Le farfalle ritornano ai fiori

gli uccelli cantano agli alberi

il vento piega la docile erba,

e noi di nuovo unti piangiamo.

Un suono di violini sulle acque dell’oceano

E una donna nuda vi s’immerge.

Un coro argentino di arcangeli e la nebbia

Inghiottono il mondo.

«Compilo per l’imperatore Basilio

con destrezza questo sontuoso salterio.

Interlineo con abilità le preghiere ai canti,

ai colori, alle chimere.

Perseguo l’unità dello stile ingombro

di mosaici e di maniere, adulto Lucifero

nel chiostro compio il trionfo dell’ortodossia,

perché restino le colonne trionfali di Costantinopoli.»

II

Il moto della storia è la ruota

il cerchio che eternamente dura.

L’alto fattore intende la mota,

il sole, le stelle che internamente abiura.

Mia madre danza tra gli ulivi.

Un bambino gobbo la scruta, ha il labbro

leporino. Nell’oscuro fogliame

un uccello di fuoco prende il volo.

Mia madre è nuda e parla.

Ora è nel paradiso ove scorre il quieto fiume

dell’oltretomba. Parla agli uccelli, il suo corpo

solleva l’oscurità……….

Scorre un fotogramma, un demone

scarlatto spia nel futuro: un signore

del ventesimo secolo guarda il vuoto.

È ancora giovane. Nei suoi occhi

corre una casa immersa tra gli aranci,

un grande albero di fichi, un bambino

nudo e una fettuccia di mare limpido.

L’uomo cammina col bambino.

Una ringhiera di ghisa e il mare.

Due mele di sonno ha il secolo sovrano.[…]

UN ANGELO RIVELA

La sfericità è l’essenza dell’universo.

La verità di una sfera non coincide

con la verità della sfera sottostante

né con quella che immediatamente la circoscrive.

Ovvero, la soprastante sfericità

Racchiude e annulla la verità delle sfere

Inferiori, sigillate nella quiete

del loro silenzio. La numericità

delle sfere armillari del mostro

dell’universo impallidisce nel riflesso

cangiante dell’immagine musiva.

Nella disputa tra i mathematikoi

E gli akousmatikoi scelgo questi ultimi

Perché nell’orizzonte del mondo forse

Non esiste né deve esistere l’armonia.

ASRAELE

[…]III

La soprastante felicità di Asraele

parla senza parole. Il suo corpo

ignudo dalle ali spiegate mostra

eburnea chiarità. La sfericità

della Storia conosce la morte e il

sangue. – Vola Asraele! attimo fermati

non sei bello quanto impossibile.

Fra gli angeli il più superbo,

candido di giovinezza e melancholia

il vento non scuote le sue ali.

Le nottole del tramonto sul

Pallore del suo volto volteggiano.

ASRAELE PARLA

V’è un demone astuto e ingannatore

che discetta sul computo del cosmo,

sul motore universale. La ruggine,

regina del metallo, rode ogni certezza,

devasta la materia il dubbio, principio

del Male. Ma voi sapete approfittare

di ogni incompletezza come cosa manifesta,

per luce naturale. Allora, rompere

gli indugi, spezzare l’incertezza,

l’indecisione. Nemici dell’irresolutezza

sappiamo che la malaria è l’ordine

del cosmo.

La casa che vedi salda sulle quattro colonne crollerà.

Sbrigati, è un passaggio obbligato la via della realtà.

*

La verità è nella polvere della superficie.

Avere la forma trilobate del giglio,

l’arco acuto della lince, lo stilobate

d’un tempio dorico, la lussuria della lonza.

Possedere la spina dorsale del rettile

e la bifide lingua della vipera,

vestirsi del piumaggio dell’aquila,

avere l’occhio sincipitale della lucertola.

Dare il colpo di coda.

Forse in un’altra vita foste uccelli.

SHEMCHELE PARLA

III

Già il gallo insidia la notte

e la risacca trascina le pallide meduse.

Ora ha inizio la seconda navigazione.

Poiché nel mondo non v’è rivelazione

Dovrete cercare altrove la disperazione:

armonia dell’arco e della lira

la sostanza non è aberrazione.

Perché in te è il sigillo del mondo

Tu non credi agli dei della città.

IL POETA BIANCO

Nel mio giardino il giallo limone risplende

e tra le araucarie e le acacie il gallo cedrone

ridacchia con la sua cresta d’oro.

Nel recinto, all’ombra d’una quercia,

depongo la mia eternità.

Siamo in prossimità del mare che verdeggia.

Il pappagallo sull’asse, la cornacchia

Che prende alto il volo, la zattera dei lèmuri.

L’universo, il rovescio della giacca di dio,

mi è indifferente.

Forse tra le poltrone dell’aldilà anch’egli

si cruccia dell’universale.

L’universo si ritrae nel giardino,

il giardino nell’albero di limone.

E il mattino contemplo il frutto oscillare,

risplendere in accordo con la Ruota.

IL POETA AZZURRO

Io porto con me l’oscurità del bosco

dove il pazzo corre all’ombra della luna

io porto con me un presagio fosco

d’allodole.

Ho salutato dal treno in corsa mia madre

Correva l’alce leggera sull’algida luna

s’impigliavano le corna

il boscaiolo e il Faraone dissipava la clessidra

Correva il re pazzo all’ombra dei pensieri

Sollevava un nero vento l’oscurità

“Perdonate i miei corvi neri – dice la strega –

essi non hanno colpe, sono malvagi

ed hanno freddo”

Venivano a stuolo gli angeli gobbi

infreddoliti e un nero diavolo li scherniva

Il calzolaio parlava alla luna, il re pazzo

correva nel bosco e la strega biascicava

parole vane: il delirio dei corvi neri

ed io salutavo mia madre addormentata

partita all’alba con gli uccelli nel bosco

Io porto con me l’azzurra oscurità

corvi neri e il delirio del girasole

QUESTA FALSA BISANZIO

Questa falsa Bisanzio incimurrita

inghirlandata dai trofei delle cupole

della cattolicità, dai parlamenti

d’un potere eterno, spettrale, è la mia città,

il mio luogo devastato, il teatro

della mia marionetta, il mio necrologio,

il mio orologio, la mia cecità.

Questa carta toponomastica che porto

nel taschino della giacca – tu lo sai –

mi servirà nel caso che perda la memoria

o la coscienza, magari trovandomi nel porto,

nell’orto, o in un bordello notturno

con nient’altro addosso che il portafogli

e un amuleto per il computo del tempo.

Tu lo sai che finirà così. A raschiare la morchia

Prima o poi mi servirà un indizio, una traccia,

rammentare la giacca, la pergamena,

la torcia tascabile.

Di tutto ciò

resterà il fumo che il vento divora.

MIO PADRE

Ora che guardo la tua foto sul comò

accanto all’orologio di ottone, penso

che se tu fossi rimasto immobile

nel tempo, saldo sulle gambe, netto

il profilo, avrebbe varcato la negazione

che ci divide (una scucitura nient’altro).

Ora tutto mi appare come una marcia

inarrestabile verso la meta scandita

dall’orologio, dal comò, dal televisore.

Senza tono, senza aura.

Rigido. Nello spazio gelatinoso

della fotografia ti ho osservato

attraverso lo specchio. Oltre la mia

immagine tu eri sutura, coordinate

capovolte, sfere scoperchiate,

il fumo della sigaretta raggelato,

sgualcito, ancorato nella cornice

come tra le sbarre.

Ora che sono saggio, se la bronzea

legalità fosse un diaframma,

saltando come salta un pianeta

da un’orbita all’altra, entrerei

nello specchio per dirti:

«Sono anch’io un’immagine sottile,

fluttuante. Ora siamo amici finalmente».

I testi e gli estratti riportati sono tratti da: Giorgio Linguaglossa. Paradiso Roma, Edizioni Libreria Croce, 2000

 

Simone Gambacorta intervista Francesca Diano

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Riporto qui la bellissima intervista che gentilmente mi ha voluto fare Simone Gambacorta per il blog della Galaad Edizioni da lui curato. Ho conosciuto Gambacorta in occasione del Premio Teramo, che la Giuria ha generosamente voluto assegnarmi e  per il quale svolge l’oneroso e complesso ruolo di segretario (vedi organizzatore, coordinatore, angelo alla cui vista nulla sfugge). Lo ringrazio per la sensibilità con cui ha saputo  scegliere le domande, per nulla ovvie e per lo spazio che mi ha concesso.
http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=471 
Francesca Diano ha vinto nel novembre 2012 la XLII edizione del Premio Teramo con il racconto “Le libellule”. Nata a Roma, si è trasferita a Padova quando ancora era piccolissima, aveva infatti appena due anni, a seguito del padre, il celebre grecista, filologo e filosofo Carlo Diano, che era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Letteratura greca di Manara Valgimigli all’Università. Quando aveva dieci anni, Diego Valeri, colpito dalla sua scrittura, volle farle pubblicare delle poesie nella rivista «Padova e il suo territorio». Laureata in Storia della critica d’arte con Sergio Bettini, ha vissuto a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e ha tenuto corsi di Storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura. In Irlanda ha invece insegnato all’University College di Cork. Ha anche tenuto corsi estivi in lingua inglese di Storia dell’arte Italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha curato la prima traduzione in italiano, dal tedesco, della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl ed è stata la prima a tradurre in italiano “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland”, di Thomas Crofton Croker, il primo testo di leggende orali sulle isole britanniche. È la traduttrice italiana delle opere della scrittrice indiana Anita Nair. In questa intervista Francesca Diano, che è anche autrice del romanzo “La Strega Bianca”, parla della traduzione, ma soprattutto racconta la sua storia, il suo percorso professionale, il suo amore per la cultura e per tutto ciò che è pensiero.Penso a suo padre, il grecista Carlo Diano, e le chiedo: che cosa significa nascere e vivere in un ambiente familare di per sé intriso di cultura? Che tipo di porosità comporta, tutto questo? E in che modo indirizza o ispira le scelte che, più avanti, si compiranno?
«È una domanda a cui non saprei dare una risposta precisa, perché è come chiedere a un pesce cosa significhi nuotare nel mare, o a un uccello volare. Una cosa del tutto naturale. Se sei un pesce o un uccello, ovviamente. Ecco, il punto è questo. Si può essere immersi in un elemento che risponde alla tua natura – e questo è un dono della vita – oppure che non ti è congeniale e in questo caso l’ambiente non inciderà, oppure inciderà in senso negativo, per una sorta di rigetto. Per me è stato un grande privilegio – me ne sono resa conto solo quando tutto questo è finito – nascere figlia di quel padre, e ancora più fortunata mi ritengo per aver ereditato, assorbito. la sua sete di conoscenza. Il mondo in cui vivevo non era solo un ambiente intriso di letteratura ma – l’ho capito in seguito, confrontandomi con altre esperienze – una sorta di aristocrazia del pensiero, del meglio che il ‘900 abbia visto. E non solo in Italia, perché nella nostra casa arrivava un po’ tutto il mondo. Studiosi, filosofi, poeti, artisti, letterati, storici delle religioni, musicisti. Oltre a italiani, anche francesi, tedeschi, inglesi, svedesi, americani. La bambina che ero li guardava e li ascoltava con immensa curiosità. Ho avuto come padrino e madrina di battesimo Ettore Paratore e la sua bellissima moglie Augusta, nipote del grande Buonaiuti, che non è un cattivo esordio. Nella prima parte della mia vita sono vissuta in un mondo privilegiato, che a me pareva l’unico e in seguito l’impatto con altre realtà non è stato facile. Mi rendo conto che sono vissuta in un mondo scomparso, che se da una parte mi ha dato degli strumenti unici di approccio alla vita, dall’altra ora mi fa sentire come in esilio da una patria perduta. È un mondo che riesco a ritrovare però nei libri, nella gioia dello studio e della scrittura. E, forse perché ormai ho accumulato molti anni e molte vite, nel custodire quei ricordi. La stessa università di Padova raccoglieva contemporaneamente cervelli come mio padre, Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco, dei Maestri che davvero hanno aperto nuove strade. Personalità come queste hanno lasciato un vuoto non più colmato. Poi c’era la sterminata biblioteca di mio padre, da cui mi hanno parlato secoli di sapere, da cui attingevo in modo disordinato e vorace. Ho letto libri come “Vita di Don Chisciotte” di Miguel de Unamuno, o “Delitto e castigo”, o “Iperione” di Hölderlin a undici, dodici anni. Capivo la metà di quello che leggevo, ma era proprio quello che non capivo che mi affascinava. In quella biblioteca di oltre 10.000 volumi, c’erano le letterature di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e libri di filosofia, di arte, di critica, di scienze matematiche e naturali, di storia delle religioni, di teatro e molto altro e insomma era lo specchio della mente e del sapere di mio padre, che non è stato solo filosofo, grecista e filologo, ma anche pittore, scultore, poeta e compositore di musica. È stata la sua ecletticità che mi ha insegnato a essere curiosa di tutto, a non temere di esplorare campi non miei (se mai ho avuto dei campi miei), a inoltrarmi lungo vie ignote. Insomma, proprio come per le parti dei libri che non capivo, mi ha sempre attratto quello che non so. Non ho una mente accademica – e vedendo molti cosiddetti accademici di oggi la ritengo una cosa positiva – ma più di una curiosa, di un’innamorata del sapere. E questo è quello che di me più mi piace. Eppure, immersa in tutta questa sapienza e conoscenza, la lezione più grande che ho tratto da mio padre è stata di aver visto come tutto questo suo sterminato sapere non abbia mai soffocato in lui un’umanità traboccante, una generosità impetuosa e un’innocenza del cuore che ben pochi intellettuali possiedono. Spesso una mente cui si dà eccessivo spazio invade ogni altro campo della vita e soffoca e inaridisce il cuore. La sua mente era mossa dal cuore e non l’opposto. Sì, direi che è stato questo l’insegnamento più grande. Mio padre si è sposato piuttosto tardi e quando è morto avevo ventisei anni e già da tempo vivevo lontana. Spesso mi chiedo quanto sarebbe stato importante averlo accanto più a lungo, quanto ancora avrei imparato – ormai adulta – da lui, che dialoghi ricchissimi avremmo potuto fare. E quanto mi sarebbe stato preziosa la sua presenza in momenti difficili della mia vita. Ma ci sono le sue opere e, leggendo i suoi scritti e le sue carte, anche inedite, quel dialogo e quella vicinanza esistono comunque, pur se in modo diverso»

.Nella sua vita la poesia è arrivata molto presto, e nel nome di Diego Valeri…
«Per me la poesia è arrivata assai prima della prosa. Mi dicevano che da molto piccola parlavo in rima, quando ancora non sapevo leggere e scrivere. In effetti la poesia per me è sempre stata una questione di musica, di ritmo. All’inizio emerge da non so che recesso, fino a un istante prima silenzioso, una sorta di musica, una sequenza ritmica, priva di suoni e quella musica si traduce poi in due o tre parole o in un verso. E’ come uno spiraglio che si apre su qualcosa che vuole essere detto. È sempre stato così. Poi però arriva il lavoro più duro, quello di decodificare in un discorso poetico l’idea che a livello inconscio è molto chiara, ma deve affiorare alla coscienza e trovare la sua forma. Valeri, insieme alla sua compagna di affetti e di vita, Ninì Oreffice, è stato fra i primi amici di mio padre a Padova, insieme a Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco e, come tutti questi uomini eccezionali, mi voleva molto bene. Gli piacevo perché, anche a quattro o cinque anni, ero capace di rimanere ad ascoltare questi adulti che parlavano di cose che non capivo affatto ma che mi affascinavano, anche se poi, in realtà, nel quotidiano ero una specie di Gianburrasca. Quando sono nata mio padre, che è stato anche un grande poeta, scrisse per me una bellissima poesia in greco con la sua traduzione italiana e poi componeva molte filastrocche che mi cantava per farmi addormentare. Insomma, la poesia l’ho respirata. Tra i molti poeti che frequentavano casa nostra c’era Quasimodo, di cui ho ricordi bizzarri. Lui e mio padre erano molto legati; si erano conosciuti da giovani ed entrambi avevano avuto un padre capostazione e un inizio della vita difficile. Dunque, la poesia è stata per me un primo linguaggio, che mi pareva molto naturale e così, quando avevo dieci anni, Valeri volle far pubblicare tre delle mie poesie in rivista»

.Come storica dell’arte – il suo maestro è stato appunto Sergio Bettini – ha insegnato in Inghilterra e in Irlanda. Se non sbaglio, è nella storia dell’arte che trova inizio la sua attività di traduttrice: penso infatti alla traduzione dal tedesco della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl, che lei ha realizzato nel 1983 per l’editore Cappelli, firmando anche le pagine introduttive e gli apparati di note. A proposito di quella traduzione, che le valse anche una menzione speciale al Premio Monselice, vorrei porle due domande. Cominciamo dalla prima: che cosa ha significato, e che lavoro ha richiesto, affrontare un’opera così complessa e tecnica?
«Sì, a Londra tenevo dei corsi di storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura, poi un corso estivo a docenti americani all’Università per Stranieri di Perugia e un corso pubblico di arte italiana contemporanea all’University College di Cork. Mi sono molto divertita. «In effetti è vero, ho iniziato a tradurre nel “modo duro”, per così dire, perché tradurre Alois Riegl è un lavoro difficilissimo e di alta specializzazione, che non si può certo affrontare se non si hanno degli strumenti adeguati. Non so pensare a un modo più “brutale” di trovarmi a iniziare quella che poi sarebbe diventata, dopo molti anni, una delle mie attività. Ma Riegl è stata un’ottima scuola. Un Maestro come Sergio Bettini è la seconda grande fortuna che ho avuto nella vita. Lui e mio padre erano legati più che se fossero stati fratelli, erano l’uno per l’altro quel che in Irlanda si chiama «anam cara», spiriti, anime affini ed è stato proprio nel corso di una passeggiata in montagna, sopra Bressanone, dove alla fine degli anni ’50 mio padre aveva contribuito a fondare dei corsi estivi dell’Università di Padova, che negli intenti avrebbe dovuto essere una sorta di piccola università europea, che loro due si misero a discutere su quale argomento avrei dovuto scrivere la mia tesi. Era da poco stata pubblicata in Austria, a cura di Karl Swoboda e Otto Pächt, l’edizione postuma di alcune lezioni che Riegl aveva tenuto per gli studenti dei suoi corsi e l’argomento era interessantissimo: una grammatica storica delle arti figurative. Io avevo studiato tedesco, sia a scuola che con mio padre e così fu deciso che quello sarebbe stato l’oggetto della mia tesi. È per questo che la mia traduzione, pubblicata da Cappelli nel 1983, la prima traduzione italiana, è dedicata a Sergio Bettini e Carlo Diano. Riegl ha sempre posto dei grandi problemi ai suoi traduttori, motivo per cui le sue opere sono state tradotte parcamente e solo a partire dagli anni ’50 in italiano. In inglese addirittura molto dopo. Bettini era il maggior conoscitore italiano di Riegl e in un certo senso un diretto allievo della Scuola viennese di Storia dell’Arte. Anche mio padre conosceva il pensiero di Riegl e ha scritto splendide pagine, in “Linee per una fenomenologia dell’arte”, sul senso del “Kunstwollen”. I problemi posti dai testi di Riegl sono essenzialmente di due ordini: il primo è semantico e lessicale e il secondo ermeneutico. Il tedesco di Riegl è una lingua di una logica stringente, dall’architettura rigorosa e tuttavia estremamente complessa. Spesso però ci si trova di fronte a termini che lui stesso conia ex novo – come appunto “Kunstwollen” – e allora è necessario trovare un termine nuovo anche nella lingua di arrivo, ma che sia filologicamente corretto e preciso. Il che implica la conoscenza del suo pensiero, delle sue opere, dell’epoca e di quanto accadeva allora nel campo degli studi storico-artistici della Vienna del tempo. Ecco, non è un lavoro che chiunque possa fare, né tanto meno in tempo brevi, poiché richiede competenze tecniche, storiche, filologiche non indifferenti e, ovviamente, un’ottima conoscenza del tedesco. Per la mia tesi, all’inizio mi limitai a una lettura approfondita della “Historische Grammatik der bildenden Künste” e ne discussi a lungo con Bettini, che mi offrì delle chiavi interpretative fondamentali. Sicuramente senza il suo sostegno e aiuto non mi sarebbe stato possibile nemmeno il faticosissimo lavoro di traduzione. Solo in seguito iniziai la traduzione sistematica, che in tutto mi richiese oltre un anno e mezzo di lavoro e il saggio introduttivo, lavoro che poi fu pubblicato da Cappelli appunto nel 1983 e che fu presentato al Premio Monselice di traduzione, dove ricevette una menzione d’onore. Il testo fu poi adottato in molte università ed ebbi bellissime lettere di apprezzamento non solo dagli stessi Swoboda e Pächt, ma anche, tra gli altri, da Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Cesare Brandi e Filiberto Menna. Insomma, non ci si improvvisa traduttori di Riegl, magari sfornando una traduzione in pochi mesi avvalendosi di traduzioni già esistenti».

L’altra domanda è invece questa: qual è il valore culturale, nell’ambito della storia dell’arte, dell’opera di Riegl?
«È necessario dire che Riegl è stato un rivoluzionario, nonostante questa definizione poco sembri attagliarsi al suo carattere di rigoroso e metodico studioso dalla forma mentis squisitamente austro-ungarica. Eppure, dotato di una monumentale conoscenza dei materiali e delle tecniche, delle arti applicate – fu Curatore del reparto dei tessuti presso l’ Österreichischen Museum für Kunst und Industrie di Vienna – e di una solidissima formazione di storico dell’arte, esponente di spicco di quella che divenne nota come Scuola viennese di Storia dell’Arte, Riegl si incammina lungo una via nuova: la via che lo porterà alla creazione di una nuova estetica. Ciò che distingue Riegl dai suoi contemporanei, oltre alla necessità, per lui essenziale, di scoprire – scoprire, forse più che formulare – una teoria universale, oserei dire unificatrice, delle dinamiche artistiche, quale strumento di comprensione del farsi dell’arte dal suo stesso interno, delle sue origini e dei suoi «principia», è il coraggio di essersi avventurato su un terreno oscuro, scivoloso, incerto e sconosciuto: nelle sabbie mobili della ricerca di una chiave di lettura che abbia valore universale, ma allo stesso tempo non rigida o fissa, dei fenomeni artistici nel loro alterno manifestarsi nel flusso del tempo e dello spazio. Non rigida, ma fondante. Dunque il suo non può essere che un proceder cauto, come chi cammini su terreno tanto pericoloso e ignoto. Dei pericoli, Riegl è ben conscio. Questa è cosa che s’ha da aver chiara. E per questa ricerca egli crea di volta in volta delle categorie duttili e direi quasi plastiche. Questa chiave di lettura così unica, proprio perché elastica, capace di trasformazioni e mutamenti, direi prismatica, altro non è che ciò per cui Riegl conia il termine di «Kunstwollen». Il «fattore direttivo» appunto, come Riegl stesso lo definisce, tradotto da me, sulla scia di Bettini, con l’espressione «volontà d’arte», (e non un fuorviante «volere artistico», come da altri è tradotto). Una direzione. Una volontà appunto, come la direbbe con Schopenhauer. Un filosofo che Riegl non aveva affatto cancellato dal suo paesaggio. Ma anche un vettore. Capace di convogliare forze e proiezioni. Ed è per analizzare come di volta in volta, di civiltà in civiltà, questo motore della creazione artistica si sia manifestato, che Riegl scrive questa Grammatica storica. La «volontà d’arte» non è che una necessità profonda di espressione dell’uomo, che si concretizza in opere d’arte, non meno di quanto la necessità di espressione del pensiero si concretizzi nelle forme della lingua. Ho poi ritrovato, nella grammatica generativa di Noam Chomsky delle analogie sorprendenti. Alcuni anni fa tradussi poi per Neri Pozza un testo molto importante, “Vasari, le tecniche artistiche”, di Gerard Baldwin Brown, a cui premisi un mio saggio introduttivo. Il testo, pubblicato nel 1907, comprende la prima traduzione in inglese dei capitoli sulle tecniche artistiche delle “Vite” del Vasari, capitoli che non erano mai stati inclusi nelle versioni inglesi dell’opera, ma soprattutto è arricchito da un commentario vastissimo di Baldwin Brown, che è un’opera in sé. Dunque è vero che la mia anima di storica dell’arte è filtrata anche attraverso quella di traduttrice. Ma l’origine è più antica. L’arte della traduzione l’ho respirata fin da bambina, quando sentivo mio padre “cantare” a bassa voce i versi della sua traduzione delle tragedie greche che andava facendo. Magari durante una passeggiata, o mentre guidava, o mentre aveva le mani impegnate in un lavoro pratico. Gli piaceva moltissimo aggiustare le cose, anche se poi poco ci riusciva».

Uno dei suoi campi di studio è quello delle folklore e della tradizione orale irlandese. Com’è nato questo amore?
«Questa è una storia molto affascinante, perfino per me che l’ho vissuta, perché tutto nacque a Londra, in una libreria di libri antichi e usati. Proprio insomma come in un film o in una fiaba. E difatti, di fiabe si trattava. Fu in questa libreria che “fui trovata” – dire che lo trovai io è riduttivo, dato il destino che a quel libro mi lega – da un delizioso piccolo volume di autore anonimo, datato 1825 e pubblicato da John Murray, all’epoca il più importante editore inglese, che pubblicò anche il nostro Ugo Foscolo in esilio a Londra. Il titolo recitava “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland” ed era costellato di bellissime piccole incisioni. Il libraio antiquario, di cui ero diventata ormai amica perché ci passavo quotidianamente, me lo vendette a un prezzo irrisorio, 3 sterline e 6 scellini. A quell’epoca ignoravo tutto del folklore irlandese e, pur amando moltissimo le fiabe, le leggende e i miti, non mi ero mai interessata in modo specifico di folklore. Quel libro ebbe subito su di me una presa molto speciale e, nel leggerlo, mi rendevo conto che l’autore anonimo non doveva essere stata una persona qualunque, perché la cultura davvero enciclopedica che dispiegava nelle note poste alla fine di ogni leggenda era fuori del comune. Era un erudito ma allo stesso tempo uno scrittore pieno di ironia, fantasia, ampiezza di visione. E ancora più sorprendente era la struttura stessa dell’opera. Le varie leggende erano presentate più o meno così come evidentemente gli erano state narrate dalla gente contadina e l’intervento del Compilatore (così si autodefiniva nel testo l’autore anonimo) era limitato solo e unicamente ai ricchissimi commenti alla fine di ogni leggenda. Questa struttura mi colpì subito, perché la trovai molto moderna, anche per l’idea di commentare alla fine ogni leggenda. Evidentemente l’autore aveva voluto lasciare il massimo della spontaneità ai suoi racconti, soprattutto se paragonata alla raccolta dei fratelli Grimm, pubblicata tredici anni prima. Si sa che i Grimm infatti rielaborarono pesantemente le storie che avevano raccolto dalla bocca di signorine della buona società e soprattutto di Dorothea Viehmann, una donna dalla straordinaria capacità di narratrice e l’unica che avesse tratto le sue storie dalla bocca popolare. Una volta tornata in Italia decisi di tradurre per mio conto quel libro meraviglioso, anche per leggerle la sera ai miei bambini, a cui per anni ho raccontato e letto favole prima di dormire. Il modo più efficace per conoscere e capire veramente un’opera è tradurla, perché nel tradurre si entra dentro la sua struttura più profonda e si stabilisce un legame intimo con l’autore. E difatti fu soprattutto traducendolo che mi resi conto sempre di più dell’eccezionalità di quel libro e della sua struttura. Un’opera che nel 1825 era così moderna. Dunque mi pareva impossibile non sapere chi ne fosse l’autore. E perché quell’anonimato? Come mai un testo di leggende irlandesi era stato pubblicato a Londra e per di più dal maggiore editore del tempo? Così, spinta da tutte queste curiosità, che stuzzicavano la mia anima segreta di detective, mi misi alla ricerca delle risposte. Ma vivevo ormai in Italia e all’epoca non esisteva internet. In Italia l’opera era del tutto sconosciuta e all’epoca l’Irlanda non era ancora diventata di moda, come poi fu. Così mi ci volle molto tempo e ricerche e pomeriggi in biblioteca finché, un giorno, durante un breve soggiorno a Londra, trovai l’antologia di fiabe irlandesi pubblicata da W.B.Yeats nel 1888 ed ecco, tra quelle, due delle leggende della mia raccolta, ma…con il nome dell’autore: Thomas Crofton Croker! Che sorpresa e che emozione fu per me! Come scoprire la tomba di un faraone sconosciuto. Avevo il nome del mio autore. Da quel momento tutto fu più facile. Cominciai a trovare molto materiale, ovviamente in Inghilterra, attraverso i prestiti internazionali e le ricerche proseguirono per altri due anni. In tutto erano passati molti anni da quel pomeriggio nella libreria antiquaria, ma quello che accadde dentro di me fu qualcosa di inaspettato. L’amore, la passione che quel libro mi avevano acceso dentro, mi avevano sospinta lungo una strada di ricerca che pian piano mi aveva fatto scoprire l’Irlanda, il suo folklore, la sua storia, la sua cultura e la storia del mio amatissimo autore. Dunque è stato davvero un percorso interiore, una sorta di iniziazione, alla fine della quale ho trovato il mio tesoro. Una nuova vita, che poi mi ha portata anche in Irlanda, dove ho trovato ancor più di quanto mai mi potessi aspettare. Qualcosa di così unico che ne è nato un romanzo, “La Strega Bianca”».

Che rapporto ha stabilito con “quella” copia di Croker?
«Quella copia che è in mio possesso e che per me non è un libro, ma una parte della mia vita, oserei dire un essere che parla e respira, è una delle 600 pubblicate nel maggio del 1825 in forma anonima e che andarono esaurite in una sola settimana. Era la prima raccolta di leggende orali mai pubblicata nelle Isole Britanniche e per di più irlandesi. Croker è stato un personaggio straordinario. Nato a Cork, che allora era chiamata l’Atene d’Irlanda per l’intensità della sua vita culturale e per la ricchezza della sua economia, apparteneva all’Ascendency, cioé la classe dominante sia politicamente che economicamente in Irlanda, costituita dai discendenti degli “invasori” inglesi che vi giunsero durante il regno di Elisabetta I e, come tale, ancora oggi odiata. Fin da bambino dimostrò una passione molto singolare per tutto ciò che era antico o strano e a quindici anni si mise a girare le campagne del Munster per raccogliere dalla voce dei contadini racconti e leggende. A quella stessa età fondò, insieme ad alcuni amici, una società antiquaria e in seguitò contribuì a crearne molte altre. Era un ottimo disegnatore e incisore ed espose in mostre d’arte. A diciotto anni però rimase orfano di padre e andò a Londra, dove trovò impiego come cartografo all’Ammiragliato. A Londra conobbe il meglio dell’intellighentia del tempo e, dopo un primo libro sull’Irlanda, decise di tornare in patria per un breve periodo per raccogliere altro materiale. Da poco era stata pubblicata la traduzione inglese delle fiabe dei Grimm, da cui Croker era stato molto colpito, soprattutto dall’idea di preservare una tradizione che si andava perdendo e che invece costituiva lo spirito del popolo. Così, nel 1825 pubblicò questa raccolta, che ebbe un successo strepitoso, ebbe molte nuove edizioni e gli diede la fama. Fama che crebbe negli anni e ne fece uno dei maggiori protagonisti della vita culturale nella Londra vittoriana. Ma la prima edizione, quella del 1825, uscì in forma anonima perché, per varie circostanze, Croker aveva perso il manoscritto e dovette rimetterlo insieme in breve tempo. Così si fece aiutare da alcuni amici di Cork nel ricostruire vari testi e, per onestà intellettuale, non volle firmare questa edizione. I fratelli Grimm, che non lo conoscevano ma che l’anno precedente avevano letto la sua prima opera, ricevettero in dono da un amico di ritorno dall’Inghilterra questo testo e ne furono così colpiti da volerlo tradurre in tedesco e scrivere un importantissimo saggio introduttivo. Si può capire quanto si sentì onorato il giovane Croker nel vedere che i famosissimi fratelli avevano ritenuta degna della loro attenzione la sua opera e si mise subito in contatto con loro, svelando il proprio nome. Iniziò così una lunga amicizia e una collaborazione che prevedeva anche il progetto di una storia comparata del folklore europeo. Tuttavia questo progetto non andò mai in porto, almeno non nella forma che i tre avevano auspicato, né si incontrarono mai di persona. Le “Fairy Legends” comunque, non sono importanti solo per essere stata la prima raccolta di racconti orali mai pubblicata sulle Isole Britanniche, ma per il metodo di ricerca che ha fatto di Croker un pioniere della ricerca folklorica. E’ un metodo sul campo, per così dire, in cui massimo è il rispetto per gli informanti e per il sapore spontaneo della loro narrazione. Così pionieristico è questo metodo, che solo nel ‘900 esso è stato capito appieno e ripreso. L’opera di Croker però non si limitò a questo. Per tutta la sua vita – morì a 56 anni nel 1854 – seguitò a raccogliere e pubblicare materiale preziosissimo, sia sulle leggende che sulle canzoni popolari, che sulle tradizioni, tra cui quella della lamentazione funebre irlandese. Pur angloirlandese, fu proprio lui a far conoscere fuori dell’Irlanda l’immenso patrimonio orale per cui questa nazione è ancora oggi tra le più importanti al mondo. Nessun inglese, o angloirlandese, aveva mai ritenuto di prestare alcuna attenzione a una cultura che riteneva inferiore, come allora si pensava».

Ma che cosa è “diventato” per lei Thomas Crofton Croker?
«Croker è diventato un caro amico, direi un membro della mia famiglia, certo della mia vita e in effetti ancora oggi lavoro alle sue opere, che sono ancora tutte da scoprire qui da noi. Alcune di esse, in qualche modo offuscate dalla fama delle Leggende, note e amate in tutto il mondo e dal 1998 anche da noi, non sono ancora state abbastanza studiate. Devo così tanto al mio “Crofty” – così avevo preso a chiamarlo e poi rimasi allibita nello scoprire che proprio così lo chiamavano i suoi amici più intimi! – che vorrei ripagarlo almeno di una parte dei tesori e delle gioie che mi ha dato».

La traduzione italiana dell’opera ha avuto molto successo…
«Anche se mi ci sono voluti degli anni per trovare alle “Leggende” un editore – come ho detto, quando le proponevo l’Irlanda non era ancora di moda – poi l’opera fu pubblicata una prima volta da Corbo&Fiore e in seguito, in diversa edizione, nel 1998 da Neri Pozza, con cui all’epoca collaboravo attivamente come traduttrice e consulente editoriale. L’opera ha avuto numerose edizioni ed è ancora in stampa. Cosa rara oggi, che i libri hanno vita tanto breve. Ma, ovviamente, si tratta di un’opera immortale! Ho potuto verificare nel tempo di avere un certo “naso” per autori e opere da proporre. Ogni volta che l’ho fatto sono sempre stati dei successi editoriali».

Quali sono le differenze tra la traduzione di un’opera saggistica e la traduzione di un’opera letteraria?
«Questo è un problema che non mi sono mai posta in realtà, poiché non ho alcuna teoria della traduzione da seguire, mi sento forse più un’artigiana della traduzione. Proprio nel senso di arte applicata. Forse potrei desumere delle considerazioni a posteriori. Tradurre è un’arte, non vi sono dubbi, ma soprattutto una pratica, non teoria. Le teorie le lascio volentieri ai teorici. In quanto pratica, la si apprende col tempo e con l’eperienza, ma credo sia necessaria una predisposizione, come per tutte le cose. La predisposizione di cui parlo è forse il desiderio di condividere con gli altri il piacere o la gioia di una scoperta. Il mettere a disposizione di altri la conoscenza che da un’opera ci è giunta, ma anche una certa plasticità lingusitica e mentale. Ma, riflettendo sulla sua domanda, mi rendo conto che forse tutta questa differenza non c’è, se non per un aspetto. Sia nell’un caso che nell’altro è importante che il traduttore abbia il polso dell’autore e dell’argomento. Che conosca cioé l’oggetto di cui si tratta e la visione che vi sta dietro. Che abbia una conoscenza approfondita della lingua e della cultura che ha prodotto quel testo e, ovviamente, del suo autore. Questo, se non altro, per non incorrere in fraintendimenti pacchiani o per non trovarsi nell’impossibilità di capire il contesto, cosa che accade più spesso di quanto si creda. Tuttavia, quando si tratta di un’opera letteraria, credo che nessun bravo traduttore letterario possa non essere anche uno scrittore e, a maggior ragione, chi traduce poesia deve anche essere un poeta. Non tutti sono d’accordo su questo, soprattutto chi non è di suo scrittore o poeta, ma io invece sono convinta che sia fondamentale. Perché in un’opera letteraria uno degli aspetti essenziali è lo stile. Ogni autore ha il suo, un suo, per così dire, DNA dello scrivere, che lo caratterizza e che è parte inscindibile della sua poetica. Ora, se non si riconosce questo e se non ci si sforza di ricreare, pur nei limiti del possibile, quella specialissima “voce” nella propria lingua, si reca un enorme danno all’opera e al suo autore e se ne vanifica in buona parte il senso. Tutti sappiamo che la letteratura non è tanto e solo quel che si dice, ma come lo si dice. Ed è questa forse la maggiore difficoltà per ogni buon traduttore. Del resto, quel che è sempre emerso dal Premio Monselice e che Mengaldo ha anche sottolineato, è che i maggiori traduttori di poeti sono stati altri poeti. Ma, come dice il buon Schopenhauer, per andare lontano si deve avere qualcosa da scrivere. E che quel qualcosa ti stia a cuore. Ci sono opere la cui grandezza sta soprattutto nello stile, nella sonorità, nella luminosità della lingua. Penso, un esempio per tutti, a Kerouac e a quel suo inglese ora vellutato ora duro ora fumigante, non affatto prescindibile dalla sua scrittura. Ovviamente qui parlo di letteratura e non di semplice fiction o narrativa. Per quello è sufficiente essere buoni conoscitori della lingua, la propria e quella dell’autore. Farei invece una distinzione fra tradurre prosa e tradurre poesia. Che si tratti di versi ancorati al rigore della metrica o di versi liberi, il linguaggio poetico ha comunque in sé una musicalità, un’armonia intrinseca, una timbricità, che sono legati alle specifiche sonorità della lingua e che chiedono al traduttore un orecchio musicale o, per lo meno, un orecchio capace di percepirli. Ora, nel passaggio da una lingua romanza all’altra è ancora possibile conservare o ricreare quella sonorità originale, o almeno ci si può provare, ma da una lingua germanica a una romanza questo è più difficile, per non parlare poi di altre lingue dalla nostra ancora più lontane o di strutture metriche estranee all’italiano. Allora, in questi casi, sarà necessario trovare comunque una soluzione che in qualche modo sia eco del significato del testo. Un po’ come musicare un libretto d’opera insomma. Ma in realtà non saprei dire come poi emergano da dentro di noi certe soluzioni, certe risposte – sì, risposte – alla voce dell’autore che ci sussurra. Forse ci guida. Credo che si debba ascoltare. Tutto nasce dall’interazione fra chi siamo noi, di cosa siamo fatti, quanto sappiamo ascoltare e chi è l’autore. Un dialogo costante e uno scambio. Questo è il motivo per cui uno stesso testo, tradotto da uno, sarà diverso se tradotto da un altro. Ogni traduttore trova ciò che sa trovare».

Lei è anche la traduttrice della scrittrice indiana Anita Nair. Che cosa significa attraversare e ricreare le pagine di un’autrice che appartiene a un’area culturale completamente diversa? Torniamo a quanto abbiamo detto: dietro le quinte di una traduzione c’è un vero e proprio percorso di studio…
«È proprio così, è in parte quello che dicevo in precedenza. Tradurre è un modo profondo di conoscere, ma è anche una forte spinta alla conoscenza. Mi sono trovata a tradurre le opere di vari scrittori indiani, in realtà angloindiani, cioé autori indiani che hanno scelto di scrivere in inglese. In India, come si sa, l’inglese è non solo una lingua franca, ma anche il veicolo di quella cultura postcoloniale che ha dei complessi meccanismi ed esiti. Dunque, gli scrittori che in India scelgono di scrivere in inglese compiono una scelta precisa e cioé quella di scrivere per un mercato internazionale. Allora, anche i contenuti delle loro opere, in un certo senso, tengono d’occhio quello che, a loro avviso, a un pubblico occidentale può interessare dell’India. In un certo senso è un principio d’esclusione. La letteratura indiana moderna e contemporanea che si avvale di lingue diverse dall’inglese, è assai differente da quella che arriva in Occidente, sia nello stile che nei contenuti. Perché proprio diversa è la forma mentis. Lo stesso si può dire per i poeti indiani. Oggi molti, soprattutto i più giovani, scrivono in inglese e imitano in modo marcato poeti americani e inglesi, in una sorta di minimalismo o realismo che non è nelle corde della poesia indiana tradizionale. In ogni caso tutto questo lo so non perché conosca l’hindi, o il bengali, o il malayalam, o l’urdu ecc. ma perché mia figlia Marged è un’indologa che parla hindi correntemente, conosce urdu e bengali, dunque conosce molto bene e direttamente la situazione culturale, politica e sociale dell’India. È soprattutto a lei che devo molte delle informazioni che ho in proposito, oltre naturalmente a quanto ho voluto approfondire e oltre a quello che della cultura indiana classica consoscevo attraverso le opere presenti nella famosa biblioteca. Tuttavia il mio impatto con le scritrici indiane moderne è avvenuto molto presto. Nel 1957 era uscito “Altro mondo”, un libro di Sonali Dasgupta, la moglie indiana di Roberto Rossellini e quel punto di vista di una donna indiana sull’Occidente mi aveva colpita moltissimo. A parte Rabindranath Tagore, che mio padre amava molto e mi pare avesse conosciuto attraverso Giuseppe Tucci, era la prima opera di una scrittrice indiana che incontravo. Poi, a Londra, negli anni ‘70, acquistai un libro bellissimo, “Nectar in a sieve” – tradotto anche in italiano solo di recente – di Kamala Markandaya, scritto negli anni ’50 e ambientato nell’India rurale. Un grande classico della letteratura indiana femminile moderna. Mi affascinò a tal punto, che mi ripromisi di tradurlo, ma poi non trovai un editore a cui interessasse. Per quanto riguarda Anita, si tratta di una storia molto bella, perché quando ancora era una scrittrice esordiente, poco nota anche in India e del tutto sconosciuta fuori, mi fu dato da leggere il suo primo romanzo, quello che poi fu pubblicato col titolo “Un uomo migliore”. Mi piacque, mi commosse, mi colpì la conoscenza che della natura umana aveva questa giovane autrice e volli che fosse pubblicato e che fossi io a tradurlo. Da questo suo primo meraviglioso libro è nata poi una vera e duratura amicizia, che si è approfondita negli anni e che è stata preziosissima anche per capire in modo privilegiato la sua opera. È bellissimo poter seguire un autore fin dai suoi esordi e discorrere della sua opera, capirla nel profondo. Anche questo mi ha permesso di avvicinare l’India contemporanea in modo privilegiato e diretto e dunque di avvicinare altri scrittori e poeti – o meglio poetesse – indiani che poi ho tradotto».

Fra gli altri, lei ha tradotto Kushwant Singh, Themina Durrani, Pico Iyer, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Uzma Khan. Quali sono gli autori, fra quelli che ha tradotto, che sente più suoi?
«Da quello che ho detto, è chiaro che il mio autore è Thomas Crofton Croker. Ça va sans dire! Ma poi devo anche aggiungere Sudhir Kakar, un grandissimo scrittore, tra i più grandi che io abbia incontrato, psichiatra e saggista di fama internazionale, oltre che uomo di grande generosità e umanità, che negli anni ’90 ha iniziato a scrivere narrativa. Ho avuto la fortuna di poter tradurre quasi tutti i suoi romanzi, il più grande dei quali è senz’altro “L’ascesi del desiderio”, una biografia immaginaria di Vatsyayana, il misterioso autore del Kamasutra, narrata da un giovane kavi, uno studioso poeta. L’affresco dell’India d’oro della dinastia Gupta, la descrizione del mondo raffinato delle cortigiane, la scrittura elegantissima e colta, lo stile aristocratico e austero ne fanno un vero capolavoro. Poi devo aggiungere la poesia di Edgar Allan Poe, con cui mi sono misurata per l’amore sconfinato che ho per questo autore e soprattutto per la sua poesia, che, essendo anche pura musica, è davvero una sfida per un traduttore. Tradurre i testi poetici di Poe mi ha aperto prospettive nuovissime sul resto della sua opera».

Quando deve tradurre un libro, quali sono le fasi che scandiscono il suo lavoro?
«Forse sarò banale, ma in genere parto dalla sua lettura. A meno che non si tratti di un testo che già conosco. In quel caso traduco e basta. Nel corso della traduzione però non stacco mai, nemmeno quando non traduco. Mi ronzano in testa le parole, le frasi, la soluzione a un problema che pareva di difficile scioglimento e che balena all’improvviso. Ecco, è un’immersione totale. Una sorta di viaggio a due, in cui ci si conosce sempre più a fondo. Ho notato che in genere all’inizio la traduzione è più lenta, poi diviene quasi un processo naturale, come se fossi ormai entrata nel meccanismo della scrittura e la traduzione fluisse in modo naturale. Mi piace molto anche la fase della ricerca, perché comunque, traducendo s’imparano moltissime cose».

Giorgio Caproni diceva che tradurre equivale a «doppiare». Lei che cosa ne pensa?
«Caproni è stato un grande traduttore e sono completamente d’accordo con lui quando, in un suo discorso in occasione della vincita del premio Monselice, nel 1973, dichiara: «Non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si tratta soltanto di cercar di esprimere me stesso nel modo migliore: nel cercar di far bene qualcosa che valga a esprimere quanto ho in animo. L’impegno per me resta, in entrambi i casi, il medesimo e di egual natura, e di diverso non vedo in essi che l’impulso, il movente». Mi pare che proprio in questo discorso egli si dichiari lontano «dal sognare una traduzione quale perfetto double dell’originale». Non so, tradurre è in fondo un procedimento bizzarro. Da un lato ti chiede un abbandono totale al testo e all’autore, quasi un atto di resa, uno svuotamento di sé; dall’altro esige tutto te stesso, la totalità delle tue capacità, delle tue competenze, delle tue risorse. È come svuotarsi e riempirsi di nuovo, ma con un atto di consapevolezza assoluta. In realtà tradurre è un percorso di conoscenza di se stessi».

Un autore che vorrebbe tradurre?
«Sono due o tre, ma non ne dico il nome per non dare dei suggerimenti».

Un traduttore che ammira?
«Solo uno? Foscolo, Leopardi, Pavese, Fortini, mio padre».

Un traduttore o una traduzione che considera sopravvalutati?
«Fernanda Pivano».

Senta, ma se lei dovesse spiegare in parole estremamente semplici che cosa vuol dire tradurre, che cosa direbbe?
«Che è un atto d’amore».

E se dovesse spiegare qual è il bello del lavoro del traduttore? 
«L’emozione travolgente della scoperta di se stessi».

(C)2012 by Simone Gambacorta e Francesca Diano TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Spazio e tempo umano e sovraumano nella tradizione della lamentazione funebre irlandese – Francesca Diano

Acer Image

 

Foto di Eurwen Trumper (C) 2012

SPAZIO E TEMPO UMANO E SOVRAUMANO NELLA TRADIZIONE DELLA LAMENTAZIONE FUNEBRE IRLANDESE

 

(Comunicazione al Convegno internazionale  AIREZ per il decennale della morte di Elémire Zolla. Montepulciano 2012 pubblicata negli Atti del Convegno, dicembre 2012)

di

Francesca Diano

Agli irlandesi era stato tolto tutto. Tranne la morte. E della morte hanno

fatto poesia. E della poesia, mito.

Lo speciale rapporto che gli irlandesi hanno con la morte, quasi intimo e scevro da forme di terrore o rimozione, è certamente collegato all’eredità culturale e spirituale propria  dei loro antenati Celti, che è tuttora profondamente presente nel tessuto del quotidiano.

Nella visione celtica, la morte non esiste. È solo un altrove, un diverso stato dell’essere, uno degli innumerevoli e successivi stati dell’essere che costituiscono l’essenza stessa dell’Altro Mondo. “La morte è il punto centrale di una lunghissima vita”, tramanda  la tradizione esoterica druidica.

Questo concetto della morte, e dunque della sopravvivenza dell’anima, è unico nel mondo antico e rese possibile la rapida conversione dell’isola al Cristianesimo  a opera di San Patrizio e, successivamente, di San Colombano.

L’atteggiamento verso la morte, dunque, non è di terrore, né essa è vista come un evento “innaturale”, un atteggiamento che sopravvive in Irlanda ancora oggi e che l’Occidente ha perso da tempo immemorabile.

L’identificazione dell’Altro Mondo con un luogo di benessere e di felicità, da cui è assente ogni idea di punizione e quindi di “inferno”, è testimoniata anche dai numerosi nomi con cui l’Aldilà celtico era indicato: la Terra dell’Eterna Giovinezza, la Terra del Miele, l’Isola delle Donne, le Isole Fortunate, la Terra dei Viventi,  ecc.

Pur avendo, l’Irlanda, accolto il Cristianesimo e dunque la visione cristiana dell’Aldilà, è rimasta profondamente radicata nella tradizione, in particolare quella popolare, ma non solo, l’antica visione precristiana, che vi si è sovrapposta e che con essa si è fusa.

L’applicazione delle Penal Laws, famigerate restrizioni dei diritti, imposte ai cattolici dagli inglesi dal 1695, limitava anche la possibilità di esplicare il culto attraverso la libera celebrazione dei riti e questo almeno fino alla loro abrogazione, che avvenne in modo graduale a partire dal 1778. Accadeva così che le messe venissero celebrate all’aperto, in mezzo alla natura, spesso su massi di pietra  usati come altare e i sacerdoti non avessero la possibilità di celebrare pienamente il rito funebre, pur accompagnando il corteo funebre  all’inumazione.

È in questo contesto che, proprio dal XVII sec., gli irlandesi cattolici tornano con forza rinnovata alla tradizione, già testimoniata comunque nei secoli precedenti, e che in realtà non era mai scomparsa del tutto, della celebrazione rituale della morte, attraverso modalità e tecniche precristiane.

Le autorità cattoliche, tuttavia, osteggiavano le pratiche della wake e del caoineadh, così come ogni evento o celebrazione, che evocasse le antiche pratiche pagane, come evidenziano i ripetuti Sinodi della Chiesa, che sanciscono una serie di divieti, in particolare contro l’ubriachezza, le lamentazioni funebri, gli eccessi ecc. ma si può ipotizzare che gli irlandesi trovassero proprio in questo il pieno recupero della propria antica identità culturale, un potente ed efficace strumento di resistenza alla sua repressione. Che la Chiesa non vedesse di buon occhio queste manifestazioni di “paganesimo”, è confermato dalla loro condanna con un atto di scomunica, soprattutto dopo il Concilio di Trento, eppure la loro potente vitalità e permanenza  è attestata dal Sinodo di Maynooth che ancora in data recentissima, nel 1927, ribadisce la condanna ufficiale di queste pratiche che, com’è evidente, erano ancora capillarmente diffuse al di là della libera professione del cattolicesimo.

Un funerale irlandese da un taccuino di Thomas Crofton Croker. Il disegno potrebbe essere di Daniel Maclise. (Trinity College Library, Dublino)

La wake, la veglia funebre – con la sua variante della merry wake, la “veglia allegra”, e il caoineadh, o anche lament (keen  in inglese) la lamentazione funebre ritualizzata, che ne è parte essenziale, si strutturano secondo modi e riti precisi, le cui radici affondano in un lontanissimo passato, soprattutto di ambito indoeuropeo. Tra tutte le popolazioni celtiche che colonizzarono l’Europa, gli irlandesi, abitanti di un’isola al di là di un’altra isola e, per ragioni storiche, rimasti in qualche modo incapsulati all’interno di una bolla culturale, hanno mantenuto un legame diretto e vivo con la tradizione. Più di qualunque altra popolazione in Europa. Non ultimo, come una vera e propria forma di resistenza. Un legame con la tradizione che, in alcuni casi, ha conservato intatti riti e forme di matrice indoeuropea. Il caoineadh ne è un esempio chiarissimo.

Ancora, fino alla prima metà del secolo scorso, era possibile trovare non solo  esempi della wake tradizionale, ma  della merry wake, di cui diremo in seguito e che ha un esempio illustre nella Finnegans Wake di Joyce.

Scopo della veglia e della lamentazione funebre è quello di accompagnare il defunto nel suo viaggio verso l’Aldilà in modo sicuro e protetto,  così che, attraverso atti e riti, possa compiersi in modo sicuro e definitivo, non solo per il defunto, ma anche per coloro che rimangono. Allo stesso tempo, la veglia dà un senso e un ordine al dolore e all’evento della morte, sia da un punto di vista sociale, che religioso, che psicologico. Dunque, in un certo senso, ristabilisce l’ordine sociale sconvolto dalla morte, ricompone lo strappo operato dalla morte all’interno del gruppo.

Secondo l’ipotesi di Van Gennep[1] e di Ò Crualaoich[2], la wake e il caoineadh, sono parte di quei riti di passaggio necessari a rendere sicuro un momento liminale quale la morte è per eccellenza.

Alla veglia funebre partecipano non solo i parenti, gli amici e i conoscenti, ma tutti i membri  del gruppo sociale, essendo questa una sorta di assemblea sacra e sociale aperta, in cui si svolgono importanti funzioni, il cui scopo è quello di integrare il defunto tra gli antenati. È dunque un rito di passaggio e di integrazione, oltre che di ricostituzione dell’ordine sociale. Quale tipo di integrazione, lo vedremo in seguito.

Un ruolo fondamentale vi hanno le figure femminili. Innanzitutto la donna che svolge ufficialmente il compito di lavare e vestire il cadavere e di prepararlo per la veglia – an béan bhàn, la “donna bianca” – essendo proibito ai familiari di toccare il defunto. Tutto quanto è connesso a questo rito – acqua di lavaggio, candele, vesti, biancheria, ceneri del focolare che scalda l’ambiente – acquista un valore magico e sacrale. Tutti questi materiali verranno poi accuratamente riposti in un luogo dove nessuno potrà calpestarli, ma non saranno gettati via. Verranno invece usati sia a scopo curativo che propiziatorio, in particolare l’acqua di lavaggio. Questo nella credenza popolare. Ma è chiaro che il loro contatto con la morte – dunque con la dimensione del Sacro – e l’uso lustrale e purificatorio, ne fanno potenti agenti di energia trasformatrice.

Bhàn, in gaelico bianco, bello, luminoso, è l’appellativo della Bana Dhia Bhàn, la Dea Bianca di Robert Graves, la Grande Madre, la Triplice Dea, Colei che dà la vita, che dà la morte e dunque la vita. Signora del Tempo, Signora della Trasformazione e della Poesia. Dunque, an  béan bhàn, la donna bianca che si occupa della preparazione e purificazione del cadavere, è la Dea nella sua veste di Signora della morte, mentre la prefica è la Dea nella sua veste di Signora della Trasformazione e della Parola poetica. Non a caso è la sola a cui si riconosca il diritto di toccare il cadavere. E non perché il cadavere sia impuro, come erroneamente si afferma, ma perché, in quella veste e in quelle circostanze eccezionali, le si riconosce la sua appartenenza  alla sfera del Sacro, interdetta ai comuni mortali.

Appena la morte è presente, il cadavere viene tolto dal suo letto e composto sul tavolo di cucina, o talvolta a terra, in genere nella direzione opposta a quella in cui la persona è spirata rispetto all’ingresso, soprattutto se si tratta del capofamiglia. Accorgimento che dovrà confondere la morte, perché non colpisca ancora.

L’idea del “rovesciamento”, come rito di protezione da forze soprannaturali, è presente anche nel folklore nel rapporto con gli esseri fatati. Rovesciare il mantello o la giacca in un luogo che si presume frequentato dalle fate, protegge dai loro scherzi o tiri maligni. Il mondo rovesciato, del resto, è un mondo speculare al nostro e dunque in contatto con l’invisibile.

Nel meraviglioso racconto di Isaac B. Singer, Jachid e Jechidà, Jechidà, un’anima femminile, attende in una prigione la sua discesa a Sheol, l’inferno che lì chiamano Terra. E tutto il racconto è la narrazione di una nascita/morte ove la realtà dell’esistenza è totalmente capovolta. La morte è la vita e la vita è la morte. Analogamente alla visione di Singer e a quella cristiana, l’Aldilà celtico è un luogo di vita e la béan bhàn è l’agente, in un certo senso la levatrice di questa nascita.

Una volta che tutti i preparativi siano dunque  stati completati, ci si assicura che vi sia abbondanza di cibo (pane, burro, marmellata), di bevande (birra, tè ben forte, e poteen, il robusto whiskey irlandese fatto in casa), ma soprattutto di tabacco, sia da pipa, sia da fiuto che da masticare. Anche i vicini contribuiscono a portare qualcosa, a maggior ragione nei casi in cui la famiglia sia indigente. Ma nulla deve provenire dalle provviste di casa, ogni cosa deve essere acquistata appositamente per la veglia ed è ritenuta cosa assai grave la scarsità di cibo, alcool o tabacco.  L’uso del tabacco è ritualizzato e la sua distribuzione amministrata da una donna. Il fumo viene soffiato sul cadavere in segno di rispetto, come fosse acqua benedetta.

Vi sono leggende secondo le quali l’uso rituale del tabacco fu istituito dalla stessa Vergine che, vedendo pipa e tabacco accanto al sepolcro del Cristo, abbia detto: “Se avessimo avuto pipa e tabacco, il nostro dolore avrebbe trovato un po’ di sollievo.” Il tabacco giunge in Europa intorno al XVII sec. proprio quando più dure si fanno le condizioni dei cattolici in Irlanda. È probabile che il suo uso durante la veglia sia legato non solo alle qualità specifiche della nicotina, ma anche al valore simbolico del fumo, quale sostanza volatile e trasparente, che tanto ricorda quella dell’anima che si leva dal corpo verso l’alto. Dunque, da questo punto di vista, il fumo diviene sostanza  e agente del passaggio.

Nel corso di quell’assemblea funebre che di fatto è la veglia,  accadono altre cose, che rivestono un interesse specifico. Si narrano storie. Questo è compito dello seanchaì, lo storyteller, la persona a cui la comunità riconosce doti  particolari di affabulazione, arte della narrazione, oratoria e memoria, quale depositario di una antichissima tradizione orale. Le storie narrate nel corso della veglia, tuttavia, non hanno alcun rapporto con la vita o la figura del defunto. In genere lo seanchaì è un uomo.

L’altro elemento, di importanza ancora maggiore, è la recita del caoineadh, la lamentazione funebre ritualizzata, recitata da una o più donne, appositamente convenute e in genere ricompensate con doni in natura se non in denaro e che non fanno parte della famiglia.

Esse sono le mnà chaointe (sing. béan chaointe, letteralmente, la donna del compianto. In inglese keener)

A parte alcune eccezioni, i testi delle lamentazioni funebri iniziarono ad essere trascritti solo dalla metà del XIX sec., ma vi sono testimonianze di alcuni visitatori stranieri che già nel XII sec. riferiscono di quello che veniva definito Irish cry (che corrisponde al nostro “pianto greco”) e nei testi epici ve ne sono numerosi esempi, come il “Lamento di Emer” per la morte dell’eroe Chùchulainn. Ancora più antico è l’esempio della lamentazione che il monaco Balthnac (VIII sec.) dedica alla Vergine e gli atti di accompagnamento ivi descritti – ritmico batter di mani, il cantilenare della recitazione – sono del tutto simili a quelli che ancora si riscontrano fino agli inizi del XX sec.

Il caoineadh irlandese è un testo poetico, una vera e propria elegia, in versi rosc, un metro molto antico, composto da versi brevi rimati, in parte improvvisato secondo specifiche regole, in parte memorizzato, di grande complessità e spesso lungo alcune centinaia di versi, recitato da una o più prefiche sul corpo di un defunto (più raramente di una defunta) e “in cui vengono espressi sentimenti non standardizzati o convenzionali, ma personali, di perdita, di dolore, di amore, tristezza, rimpianto e amarezza.” [3].

Nel caoineadh i registri non sono solo solenni, ma possono essere anche d’invettiva, di ribellione, di ironia e insomma attraversare tutta la vastissima gamma della tradizione retorica celtica,

La lingua usata nella recitazione della lamentazione funebre è naturalmente il gaelico e dunque non comprensibile ai parlanti inglesi che si trovassero ad assistere dall’esterno ad un funerale irlandese. La foga della recitazione, i toni che via via si facevano più rochi, il batter di mani, i capelli sciolti e scomposti delle prefiche, rendevano l’evento impressionante e, apparentemente, poco cristiano. L’incapacità di cogliere l’altissimo registro poetico dei testi e l’antichissima tradizione che vi era dietro dunque,  hanno a lungo impedito la comprensione del significato culturale di cui il caoineadh era portatore. Ma che di cristiano vi fosse poco, era del resto vero.

La tradizione del thrènos o pianto rituale, è antichissima e documentata, particolarmente in ambito indoeuropeo.   Ciò che è interessante è il ruolo, rigorosamente canonizzato e distinto, che, nelle celebrazioni funebri irlandesi vi hanno uomini e donne. Donne sono coloro che preparano il cadavere, donne sono le prefiche, donne sono le distributrici del tabacco, mentre uomini sono gli seanchai e i borekeen. Nella merry wake, il borekeen organizza e dirige i giochi – travestimenti, scenette e battute scurrili, gare varie – veri e propri giochi funebri. Dunque una rigorosa separazione dei ruoli che vede la donna sempre in contatto diretto con quella dimensione liminale, di passaggio – nascita e morte – e l’uomo a controllo del piano umano, sociale, nel quale ha il compito di ricomporre lo strappo operato dalla morte.

La donna ha dunque tutte le funzioni archetipiche della Grande Dea Madre preindoeuropea, colei che dà la vita e dà la morte, operatrice di trasformazione e Signora del Passaggio.

Nel dolore espresso poeticamente e in forme ritualizzate dal caoineadh, è assente ogni senso del perdono. Domina invece l’amarezza per la perdita, la celebrazione del valore del defunto, il desiderio di rivincita se la morte è ritenuta ingiusta o peggio causata ingiustamente. Ed è anche per questo che la Chiesa vedeva nel caoineadh una pericolosa forma di allontanamento dai precetti cristiani, tanto che, nel corso del XIX sec. la ricusa della Chiesa cattolica si avvicina a quella della Chiesa protestante.

La prefica è tanto il simbolo che l’agente attivo della transizione del defunto nell’Aldilà e della sua integrazione fra gli antenati. Lo fa attraverso la recitazione ritualizzata  della lamentazione. Si tratta di un rito di riconciliazione tra il defunto e la sua famiglia, ma anche tra il defunto e la comunità. Questa riconciliazione avviene attraverso l’espressione, in forma poetica, delle lodi per il defunto e del dolore per la sua perdita, ma anche del riconoscimento delle ingiustizie da lui subite e, quando le circostanze lo richiedono, della sua genealogia. Egli è in grado di sentirla e questo è un aspetto di non poca importanza poiché, nella tradizione irlandese, il defunto possiede la capacità di sentire fino al momento in cui il sacerdote non abbia gettato tre palate di terra sulla sua bara.

Proprio l’esposizione della genealogia e dell’ascendenza del defunto, conferma il ruolo che il caoineadh svolge quale strumento di integrazione tra gli antenati, e di passaggio dalla dimensione temporale, storica a quella atemporale, mitica.

Il caoineadh, recitato come s’è detto da prefiche professionali, è spesso improvvisato nell’atto di recitarlo, ma l’improvvisazione avviene secondo una complessa tecnica codificata. Questa modalità non è dissimile dall’improvvisazione codificata nella musica classica indiana. In genere la lamentazione viene dedicata a un membro maschio della famiglia. Tuttavia, accanto alla parte improvvisata, v’è una consistente parte che viene memorizzata e tramandata oralmente. Questo richiede alla prefica, che molto spesso è illetterata e in genere appartiene ai ceti più bassi, eccezionali doti di improvvisazione poetica, ma anche di eccezionale memoria.

In occasioni più solenni, o di personaggi particolarmente importanti, le prefiche possono essere più d’una, ma una sola conduce e controlla l’esperienza della lamentazione, mentre le altre fanno da coro alla fine di ogni strofa, emettendo un suono gutturale: och, ochòn o ul-lu-lu, simile quindi al greco eleleu.

Il metro rosc usato nel caoineadh è, come s’è detto, antichissimo ed è certo da ricollegarsi alla tradizione dell’eulogia propria dei filìd, i druidi poeti, o bardi, poiché, nella sua forma più nobile ed elevata, la poesia bardica e l’esercizio della parola erano strettamente interconnessi nel tipo di metro usato, al contenuto e alla circostanza. In antico infatti, era compito dei bardi di corte levare il compianto per il nobile capo, mentre successivamente a questa pratica si unisce e poi si sostituisce la figura della prefica.

Questo filtrare della tradizione di corte, aristocratica, fino agli strati più bassi della popolazione, coincide con la fine dell’indipendenza irlandese. Le antiche famiglie nobili perdono i loro diritti e privilegi e con essi le raffinate corti, ma la tradizione si mantiene. Essa trapassa alla classe contadina, che conserva, insieme all’immenso patrimonio orale, anche le tradizioni funebri.

La recitazione del caoineadh è, come s’è detto,  cantilenante, con picchi di intonazione acuti e drammatici e suoni gutturali sempre più aspri, che si accompagnano al movimento cadenzato e rullante del corpo e a un ritmico batter di mani. Gli osservatori che descrivono l’andamento di un caoineadh  recitato da più prefiche, attestano come la donna che guida il lamento ne stabilisca il ritmo e canti o cantileni i versi in una sorta di recitativo, cantando molte sillabe o persino intere frasi sulla stessa nota. Alla fine di ogni strofa, la prefica  intona, come s’è detto, un grido corale, il gol, – in genere Och, ochòn – cui si uniscono le altre prefiche  e le donne della famiglia

I testi scritti pervenuti non sono moltissimi, prima di tutto per essere la natura delle lamentazioni  quella dell’oralità e poi perché, pur tramandati e continuamente rinnovati nelle veglie, l’oggetto e la causa restano quel defunto e la loro trasmissione avviene di prefica in prefica. Difatti, quando gli studiosi di folklore, prima nella seconda metà del XIX sec. e poi con il lavoro di ricerca dopo l’istituzione della Irish Folklore Commission, creata a Dublino negli anni ’30, tentarono di trascrivere e più tardi di registrare esempi di caoineadh direttamente dalla bocca delle prefiche, trovarono grande difficoltà nel convincere le prefiche di professione a misurarsi nel loro repertorio, in quanto: “qui non c’è un cadavere”, si sentì dire uno di loro. Così qualcuno giunse a stendersi sul pavimento con il cappello tra le mani e gli occhi chiusi, nell’atteggiamento di un cadavere composto, per ottenere una recitazione spontanea.

Tuttavia esistono eccezioni e, tra queste, il famosissimo Lament Airt Uì Laoghaire, la lamentazione per Art O’Leary, composto nel 1773 dalla poetessa Eibhlìn Nì Chonaill, sua moglie e zia di Daniel O’Connell, “il Liberatore”.  Il testo a noi arrivato è lungo circa 400 versi.

Airt, che aveva servito come ufficiale nell’esercito austriaco, era stato ucciso a fucilate in un’imboscata tesagli da un certo Morris, un proprietario terriero a cui Airt aveva rifiutato di vendere il suo famoso purosangue per la somma di cinque sterline. Secondo quanto stabilito dalle Penal Laws infatti, nessun cattolico poteva possedere beni immobili o cavalli che superassero il valore di cinque sterline, privando così le antiche famiglie nobili d’Irlanda sia delle loro proprietà terriere che dei pregiati purosangue, per cui l’Irlanda era ed è famosa. Appellandosi alla legge dunque, Morris pretendeva di entrare in possesso per una cifra infamante di un cavallo pregiatissimo. Di qui la disputa finita in tragedia.

Questo caoineadh è uno degli esempi più classici della grande tradizione e si articola in più parti, corrispondenti alle diverse località in cui si svolse la tragedia e che Eibhlìn, vedova prima ancora di mettere al mondo il figlio di Airt,  ripercorre come fossero le stazioni di un Calvario.

Parti di questa lamentazione funebre si continuavano a recitare ancora fino a metà del ‘900 nella zona del Gaeltacht. Trascrizioni parziali ne furono fatte molto presto, agli inizi del XIX sec. in particolare raccogliendo il testo da una prefica della Contea di Cork, luogo della morte di Airt, che poi, nel 1873, poco prima della sua morte, ne diede una versione completa.

Il testo è appunto strutturato in sezioni successive, che lasciano intendere come non solo il caoineadh si snodasse lungo le diverse stazioni – la casa, la veglia funebre, il luogo dell’assassinio, il cimitero – ma anche come Eibhlìn recitasse quelle parti in qualità di prefica “corifea” e un coro le rispondesse. La scena dell’uccisione è descritta in toni drammatici e, in un gesto teatrale e terribile, giunta sulla scena, Eibhlìn, folle di dolore, incorpora in sé per sempre l’amato, raccogliendone il sangue ancora caldo e bevendolo. Un gesto che richiama quello di Emer con l’eroe Cuchulaìnn. Ed è in questo gesto che si compie la definitiva incorporazione, non solo simbolica, del defunto tra i vivi e dei vivi tra i defunti.

“Il primo balzo fu verso la porta

Il secondo verso il cancello

Col terzo raggiunsi la sella.

Strinsi insieme le mani

Spronai il baio al galoppo

Più veloce che mai.

Finché lì, tu eri morto

Dinanzi ai miei occhi

Accanto a un cespuglio

Senza Vescovo o Papa

Senza chierico o prete

Che recitasse un salmo per te

Ma soltanto una vecchia

Che avea steso un mantello

Come fosse un sudario.

Ancora fluiva il tuo sangue dal cuore

Non volli asciugarlo

Lo raccolsi e lo bevvi.”

La struttura della lamentazione, costruita secondo sequenze spazio-temporali, che ripercorrono fedelmente gli eventi secondo i quali il destino di Airt si compie nei luoghi stessi in cui il dramma della morte si verifica, li trasforma, ripetendoli, in rito. Il rito richiede un sacrificio. Ed il gesto di Eibhlìn, quel raccogliere il sangue dell’amato e berlo, è un bere di fatto il sangue della vittima. In tal modo, gli eventi della vita di Airt perdono ogni significato accidentale e divengono forma. Il tempo non è più quello umano, ma è il tempo del rito e dunque del mito. È nel tempo del mito che il defunto viene integrato. E la ripetizione del Lamento per Airt O’Leary che l’affidarlo alla tradizione orale garantisce, assicura che il rito si compia incessante.

L’esempio del Lamento per Airt Uì Laoghaire ben indica come la tradizione letteraria si intrecci a quella popolare, pur rimanendo confinata all’oralità, poiché esso fu poi affidato alla tradizione orale.

Fu solo nel 1813 che il pioniere della ricerca folklorica in Irlanda, Thomas Crofton Croker, (Cork 1798 – Londra 1854) si rese conto del valore letterario e della bellezza di questa antichissima tradizione. Aveva solo quindici anni, ma gli avvenne di presenziare a un Pattern, la festa di un Santo Patrono, San Finnbarr, il fondatore di Cork, presso il lago di Gougane Barra, la notte del 23 di giugno di quell’anno. Croker ascoltò un’anziana donna recitare un caoinedh per il figlio morto, Flory Sullivan. Trascrisse quelle strofe e ne fece una traduzione poetica in inglese, che pubblicò e che attrasse l’attenzione del poeta Thomas Moore. Da questo episodio nacque un interesse davvero unico al suo tempo per le tradizioni orali della gente contadina, a cui dedicò poi i suoi studi, la sua vita e le sue ricerche.[4]

Trent’anni dopo pubblicò un saggio sul keen,[5] che è il primo pioneristico studio sull’argomento e in cui diede delle traduzioni poetiche dei più famosi keens.  Croker incontrò le più famose prefiche della Contea di Cork e fece non poca fatica a farsi recitare da loro i caoineadh.  Nel suo testo, arricchito da una introduzione illuminante e preziose e coltissime note, sono raccolti esempi a partire dal XVII sec. Croker, che con geniale anticipo si pone dal punto di vista di quello che oggi definiremmo un antropologo, nutre un profondissimo rispetto per questo aspetto della cultura irlandese e ne comprende la portata poetica e la valenza letteraria, il valore simbolico, il senso di identità culturale e di appartenenza. A differenza dei suoi contemporanei della classe sociale a cui apparteneva, cioè l’ascendency, la classe dominante degli angloirlandesi protestanti.

Leggendo questi testi, la prima considerazione è che si tratta di una straordinaria forma d’arte, i cui registri attraversano tutta la gamma dell’arte retorica e poetica di tradizione bardica, vere e proprie elegie per gli eroi. L’oralità della loro trasmissione non impedisce l’apporto personale e creativo di prefiche particolarmente dotate.

Agli irlandesi era stato tolto tutto, tranne la morte e della morte hanno fatto poesia. Ne hanno fatto un serbatoio di identità nazionale. Infiniti sono i compianti funebri per i giovani patrioti impiccati dagli inglesi, magari solo per aver cantato una canzone di ribellione, come nel caso del diciottenne Flory Sullivan. E queste lamentazioni per la loro morte ne hanno fatto degli eroi. A questi si uniscono i grandi caoineadh per i nobili  appartenenti agli antichi clan.

Il gaelico, incomprensibile ad orecchio inglese, rendeva libera l’espressione del dolore, della rabbia, del senso di ingiustizia, della ribellione. La morte come rivalsa, come punizione per il persecutore, come dimostrazione e attestazione della verità. Quella che gli antichi Celti chiamavano “la verità di un uomo”.

Soprattutto a partire dalla perdita dell’indipendenza, con Elisabetta I, la lamentazione funebre ritualizzata assume un significato politico fondamentale. È certo questo il motivo per cui in Irlanda le antiche tradizioni funebri, e in particolare il caoineadh, si sono conservate tanto a lungo.

Nonostante in altre culture, tra cui quella meridionale studiata da Ernesto De Martino, siano rimaste tracce di pianti rituali, nulla può paragonarsi alla ricchezza, al valore poetico e letterario di questi testi. Del resto De Martino, stranamente, nulla sapeva di questa tradizione, cui infatti non fa alcun cenno.

L’evento della morte, nella sua celebrazione attraverso il caoineadh, e soprattutto nella ripetizione di quel caoineadh – ripetizione che si fa rito  e che interrompe il flusso lineare del tempo per entrare nel tempo circolare del Sacro – diviene forma. Dal tempo del rito, entra in quello del mito. Ma, perché ciò avvenga, è necessaria la presenza di un agente, che traghetti l’accadimento che è proprio del mondo degli eventi, a quello delle forme. Che lo faccia forma eventica. Mito. E questa figura, quella della prefica, è simbolo.

“Il mito, è cioè la forma eventica, non è mai senza l’ ‘altro’. Ma questo ‘altro’ lo pone e non l’enuncia. L’ ‘altro’ infatti è l’evento, e cioè un évenit, che è sempre hic et nunc e sempre è al centro di  un periechon infinito e che pertanto non può essere vissuto. È nel symbàllesthai tra la figura e l’évenit che sta tutto il valore del simbolo. Ed è perciò che il mito è inseparabile dalla ‘ripetizione’ che ne vien fatta dal rito, e fuori di essa è favola.

Di qui l’intransferibilità e intraducibilità dei miti, che è l’intransferibilità e l’intraducibilità anche della parola in ciò che essa  ha di eventico. Perciò le poesie vanno recitate e cioè ripetute e ricalate nell’evento.”[6]

È per questo che la prefica cui Croker si rivolse perché recitasse per lui un caoineadh, gli disse: “Ma qui non c’è un cadavere”. Non era presente l’evento della morte e questo rendeva impossibile il rito. Che la prefica sia il symbolon, la connessione, l’agente traghettatore, tra quelli che Diano chiama “la figura” e “l’évenit”, cioè tra mito ed evento, è evidente da quanto successivamente accadde. Quando Croker si stende a terra ad occhi chiusi, nell’atteggiamento di un cadavere composto, la prefica si lascia convincere a recitare il suo caoineadh. Il cadavere non c’è comunque, ma sono tuttavia presenti gli elementi essenziali del rito. È sufficiente la presenza dell’ “altro”, cioè dell’evento.

Il grande patrimonio culturale che l’insieme delle lamentazioni funebri irlandesi ritualizzate, memorizzate da infinite generazioni di prefiche, costituisce, è stato per secoli serbatoio di un’identità nazionale che viene continuamente rinnovata e rinvigorita nell’atto della loro recitazione di fronte a un defunto.  Ma che i suoi versi siano improvvisati secondo regole codificate e, oppure, serbati nella memoria e recitati,  il caoineadh  si fa reale e possibile solo di fronte a questo cadavere qui  – nell’ hic et nunc

Il suo codificarsi ed entrare a far parte del patrimonio nazionale, la sua ripetizione ritualizzata, di prefica in prefica, di epoca in epoca, lo trasformano in uno strumento mitopoietico. E tuttavia, è proprio nell’atto della sua ripetizione, qui e ora, che il mito ritorna evento.

Poiché nella spiritualità celtica la morte non esiste, è solo un altrove, ed essendo il defunto ancora sospeso,  nel corso della veglia e dei riti funebri, tra questo mondo e quell’altrove, al punto da poter vedere e sentire, questa dimensione liminale,  inesprimibile, intraducibile in parola, può essere controllata solo dalla parola poetica del mito: il compianto per questo defunto qui che si fa linguaggio non più umano, ma sovra-umano.

 

 

 CAOINEDH PER FLORY SULLIVAN[7]

Queste sono le tre strofe che T.C.Croker annotò dalla viva voce di una anziana donna la notte del 23 giugno 1813, vigilia di San Giovanni,  durante il tradizionale pellegrinaggio alla sorgente sacra presso il lago di Goughane Barra, nel West Cork, composte dalla madre di Flory, un giovane diciottenne impiccato dagli inglesi durante i sanguinosi fatti della Grande Ribellione del 1798. Fu proprio da questo incontro che nacque il suo amore e il suo interesse per la tradizione orale irlandese, come lui stesso narra dettagliatamente nel suo saggio introduttivo.

Freddo e silenzioso è il tuo letto; umida la santa rugiada della notte

Ma il sole del mattino, tepido e caldo, seccherà la rugiada.

Ed il tuo cuore non sente il calore del sole mattutino.

Mai più l’orma del tuo passo segnerà la brina del mattino.

Sui monti Ivera, dove cacciavi volpi e lepri, primo fra i giovani.

Freddo e silenzioso è il tuo letto.

Eri il mio sole. Ed io ti amavo più del sole stesso.

Quando il sole tramonta ad occidente penso a mio figlio

E alla mia notte tetra di dolore.

Come il sole nascente, aveva  un raggio rosso sulle guance.

Splendeva come il sole a mezzogiorno;

Ma venne oscura una tempesta ed il mio sole

Fu perso a me per sempre. Il mio sole non tornerà mai più.

Freddo  e silenzioso è il tuo letto.

Linfa del mio cuore. Tenevo a questo mondo

Soltanto per amore di mio figlio. Ed era coraggioso e generoso.

Nobile d’animo. Amato da signori e da straccioni. Bianca la pelle.

Ma perché dire quel che tutti sanno? Quel che non potrà essere mai più?

È morto, perso a me per sempre.

Freddo e silenzioso è il tuo riposo.

 

 

 CAOINEADH PER LE MISERIE D’IRLANDA

(XVIII sec.)

Le nuove che sento da Eirin lontana

Distruggono il sonno e mi spezzano il cuore

Di nuove catene e di ceppi è vestita

Ed ora essa deve soffrire e svanire.

Il sangue mi gela, la nausea mi prende

Vederla tornare ai tempi passati

Colpiti i suoi figli, come fu in Israele

Perduti i diritti e schiavi venduti.

Veder come gli odii e le lotte di parte

Alla legge dei Sassoni l’hanno piegata

Che, come col loglio, che soffoca il grano

Dispiega nel campo la sua forza bruta.

O Irlanda! O donna senza onore e vergogna!

Come vile puttana dal falso cappuccio

Esponi i tuoi seni ad ogni straniero.

Non v’è amore di madre in quel tuo sorriso.

Il tuo seno, Eirin, ch’è morbido e gonfio

Non offre più latte alla tua discendenza

Poiché le tue braccia ora stringon sicure

Soltanto i rifiuti di un seme straniero.

Le avide greggi che dall’Oceano

Son venute a cercare i tuoi pascoli verdi

Angosciate ora vagano in terra straniera

E vengono viste nelle tue valli d’oro.

Feroci soldati s’impossessano ora

Dei palazzi dei capi – le antiche magioni!

Snudiamo la spada – sia morte o rivolta.

Il Lord di diritto vaga ormai spodestato.

E fieri squadroni, come aguzzi roveti

Invadono ora devastate pianure

Si giocano ai dadi case, parchi e mulini

E profanano i sacri luoghi di Dio.

Dove sono i tuoi giovani – cuor di leone?

E dove i lor padri, liberi un tempo?

Tutti sono fuggiti, i saggi e animosi

Con forza e violenza esiliati da te?

Taci – taci mio cuore – così tumultuoso

Perduta è la stirpe di Eogan Mòr;

Ma spiriti domi si trovano ora

Nella mia terra – perduto ha l’orgoglio.

Oh! Per gli stranieri è questa la gloria

Ma è onta per me dovere cantare

Che tutta la fama della gloria dei Fianna

Come bolla è svanita. Ormai non c’è più.

Ché Eirin la  grande, come Brian la rese

Trionfando sopra il nemico di Lochland

È ora ingabbiata da un nuovo invasore.

Non libera più. Ha perduto il suo onore.

Oh! Se la mia voce destasse ogni valle

Liberi allora saranno i suoi figli!

Oh! S’io li vedessi risorgere insieme!

Ma questo i miei occhi mai lo vedranno.

Se Iddio – il benigno Signore del Cielo

Non presta soccorso – una razza di schiavi

A un’onta di morte sarà condannata

Oppure bandita dalle onde di Cliona.

 

 

LAMENTO DI FELIX MAC CARTHY PER LA PERDITA DEI SUOI QUATTRO FIGLI (XVII sec.)

Pur strozzato dal pianto – tenterò di cantare

I miei cari adorati, con profondo dolore –

Mia la perdita dura a cui corre il pensiero

E la piena del cuore porterà a traboccare.

Oggi, giorno di Pasqua, io non ho più sostegni

Questo giorno crudele che squarcia il mio petto!

Lontano da amici e da ciò che più amo

Solitario mi tocca vagare nell’ovest.

Sospinto a parlare da atroci ferite

Lasciate ch’io pianga il mio lutto infinito:

La testa sconnessa, fiaccato da pena

E il cuore mi scoppia e non trova sollievo.

Dolore di vedova mai è quanto il mio

O dello sposo per il suo letto vuoto.

Solo io sono col gelo d’inverno

Vuoto è il mio nido – i miei piccoli morti.

Così, come il cigno su onde in tempesta,

Sia dolce il mio canto, funebre e cupo.

Il canto di morte che onora i morenti

E sussurra la musica oltre l’abisso.

Mio piccolo Callaghan – o crollo funesto;

E Charles dalla pelle di tenera seta

Mary – e Ann, di tutti  più amata

Che un ammasso di pietre tutti ha sepolti.

Miei quattro bambini – puri come la luce

Di alto lignaggio – in un giorno soltanto

Tutti morti vi ho visti – o visione fatale

Che rende il mio cuore triste e riarso.

Rami del nobile albero d’Heber

Nel fior della vita – tutti verità e amore –

Miei figli! Via siete andati da me

Nell’alba gioiosa della prima età vostra.

Pur di stirpe più fiera – tuttavia essi pure

Col re della Scozia si potevan legare –

E i sovrani di Spagna, riccamente adornati

Poiché quello era il ceppo dei loro natali.

Con molti audaci di sangue milesio

Potevan vantare uno stretto legame

E da cronache antiche potevan provare

Con i re sassoni un legame di sangue.

La loro voce era dolce al mio orecchio

Quando indulgevano in giochi infantili,

ma ora non suono allegro mi giunge –

muto è il loro labbro, come la terra.

E chi potrà dire quanto soffre la madre?

Per i figli che amava con amore di fuoco

Nutriti alla fonte del suo stesso cuore –

Suo sarà tutto il dolore che resta.

Le bianche mani ha tutte infiammate

Per lo strofinarle in disperazione

Grosse lacrime versano gli occhi. Incessanti

È folle il suo cuore, scomposti i capelli.

Ma strano sarebbe se meno soffrisse

Ché ha perso il sostegno della sua intera vita;

Né in Innisfail vi è chi inchiodata

Più alla sua croce sia e piegata.

Su quella valle triste e tetra[8]

Dove quasi di senno è uscito il mio cuore

Possa Iddio apporre il Suo suggello

In memoria del mio greve fardello.

Valle del Massacro, da questo momento

Battezzo quel luogo nei tempi a venire;

Sia ricoperta del veleno più nero

E cancellata dalle inondazioni.

Non la illumini più la luce del sole

Né vi brilli una stella né raggio di luna;

Foglie, fiori e boccioli bruciati e appassiti,

Non uccelli né insetti vi facciano il nido.

E mai risvegli una voce trionfante

L’eco di quella maledetta vallata

Ma angoscia di morte e di carestia

Per sempre e per tutti il suo nome sia.

Céangal (Commiato)

Causa della mia disperazione e fiaccante dolore

Tal che morte mi appare una benedizione

È la perdita dei miei figli, chiusi in un unico avello

Ann, Mary, il mio bel Charles e Callaghan, mio fiore novello.

CAOINEADH DI SHEELA LEAH (XVII sec.)

 

Cantino l’aspro lamento della mia terra coloro il cui capo

È piegato dal dolore nella casa della morte!

Lascia stare ruota e lino e non cantar con gioia

Poiché ora vuota è la mia casa.

Oweneen, orgoglio del mio cuore, non è qui.

Non hai udito il canto della Banshee

Traversare la desolata Kilcrumper?

O v’era una voce nella tomba, così più dolce di quel canto

Che fischiava nel vento di montagna

Annunciando che la giovane quercia era caduta?

S’è allontanato nell’alba della vita

Come il bocciolo del biancospino spinoso

Strappato dal vento crudele e gettato

Sulla terra umida e fredda.

Su di lui è la gelida rugiada della morte ed i suoi occhi

Fulgide luci per l’anima della madre infelice

Sono chiusi e affondati nel buio senta tempo.

Piantate il trifoglio e l’abete selvaggio

Accanto alla sua testa, che lo straniero sappia chi è il caduto.

Presto, tra i monti, si udrà il vostro compianto

Poiché, prima che la zolla indurisca sul petto

Sheela, la madre delle prefiche, sarà lì.

La voce, un tempo forte ed accorata

Si spegnerà nel silenzio

Come l’antica arpa del suo paese!

Lasciate che l’erba verde cresca fitta

Presso le tombe dei miei padri

Che la piccola margherita di montagna non cresca solitaria.

Fate che le candele alla mia veglia siano fitte

Come i miei capelli grigi, che mi porto orgogliosa nella tomba.

Poiché io sono Sheela Leah, la prefica dai capelli grigi.

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Bibliografia

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Crofton Croker Thomas, Leggende di fate e tradizioni irlandesi. Introduzione, traduzione e note di Francesca Diano, Milano Neri Pozza 1998.

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Diano Carlo, Linee per una fenomenologia dell’arte, Vicenza, Neri Pozza, 1968

Di Nola Antonio Maria, La nera signora. Antropologia della morte e del lutto. Roma 2006

Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri 2008

Eliade Mircea, Il sacro e il profano, Torino, Bollati Boringhieri 2006

Eliade Mircea, La nascita mistica. Morcelliana 2002

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Ò Crualaoich Grearòid,  The Merry Wake, in Irish Popular Culture, 1650-1850. 1998

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Zolla Elèmire, Discesa all’Ade e resurrezione, Milano, Adelphi 2002

Zolla Elèmire, Uscite dal mondo, Venezia, Marsilio 2012

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Zolla Elèmire, Che cos’è la tradizione. Milano, Adelphi 1998

Van Gennep Arnold, I riti di passaggio. Torino, Bollati Boringhieri 2002


[1] Arnold Van Gennep, I riti di passaggio. Torino, Bollati Boringhieri 2002

[2] Gearóid Ò Crualaoich. The Merry Wake, in Irish Popular Culture, 1650-1850. 1998

[3] P. Lysaght, The Banshee: The Irish Supernatural Death-Messenger,

Dublin 1986.

[4] Cfr. Thomas Crofton Croker, Leggende di fate e tradizioni irlandesi. Introduzione, traduzione e note di Francesca Diano, Milano 1998.

[5] Thomas Crofton Croker, The Keen of the South of Ireland, Percy Society, London 1844.

[6] Carlo Diano, p. 23 e segg. Linee per una fenomenologia dell’arte, Vicenza, Neri Pozza 1968.

[7] I seguenti caoineadh sono stati da me tradotti, in una prima traduzione assoluta in italiano,  dalla versione poetica  in inglese  che Croker condusse sui testi in gaelico.

[8] Le due ultime strofe sono un esempio classico di interdetto, o maledizione, (antico retaggio druidico) che in casi specifici viene scagliata, alla conclusione del caoineadh,  contro luoghi o persone responsabili di una morte tragica.

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