Riporto qui la bellissima intervista che gentilmente mi ha voluto fare Simone Gambacorta per il blog della Galaad Edizioni da lui curato. Ho conosciuto Gambacorta in occasione del Premio Teramo, che la Giuria ha generosamente voluto assegnarmi e per il quale svolge l’oneroso e complesso ruolo di segretario (vedi organizzatore, coordinatore, angelo alla cui vista nulla sfugge). Lo ringrazio per la sensibilità con cui ha saputo scegliere le domande, per nulla ovvie e per lo spazio che mi ha concesso. http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=471 |
Francesca Diano ha vinto nel novembre 2012 la XLII edizione del Premio Teramo con il racconto “Le libellule”. Nata a Roma, si è trasferita a Padova quando ancora era piccolissima, aveva infatti appena due anni, a seguito del padre, il celebre grecista, filologo e filosofo Carlo Diano, che era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Letteratura greca di Manara Valgimigli all’Università. Quando aveva dieci anni, Diego Valeri, colpito dalla sua scrittura, volle farle pubblicare delle poesie nella rivista «Padova e il suo territorio». Laureata in Storia della critica d’arte con Sergio Bettini, ha vissuto a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e ha tenuto corsi di Storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura. In Irlanda ha invece insegnato all’University College di Cork. Ha anche tenuto corsi estivi in lingua inglese di Storia dell’arte Italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha curato la prima traduzione in italiano, dal tedesco, della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl ed è stata la prima a tradurre in italiano “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland”, di Thomas Crofton Croker, il primo testo di leggende orali sulle isole britanniche. È la traduttrice italiana delle opere della scrittrice indiana Anita Nair. In questa intervista Francesca Diano, che è anche autrice del romanzo “La Strega Bianca”, parla della traduzione, ma soprattutto racconta la sua storia, il suo percorso professionale, il suo amore per la cultura e per tutto ciò che è pensiero.Penso a suo padre, il grecista Carlo Diano, e le chiedo: che cosa significa nascere e vivere in un ambiente familare di per sé intriso di cultura? Che tipo di porosità comporta, tutto questo? E in che modo indirizza o ispira le scelte che, più avanti, si compiranno? «È una domanda a cui non saprei dare una risposta precisa, perché è come chiedere a un pesce cosa significhi nuotare nel mare, o a un uccello volare. Una cosa del tutto naturale. Se sei un pesce o un uccello, ovviamente. Ecco, il punto è questo. Si può essere immersi in un elemento che risponde alla tua natura – e questo è un dono della vita – oppure che non ti è congeniale e in questo caso l’ambiente non inciderà, oppure inciderà in senso negativo, per una sorta di rigetto. Per me è stato un grande privilegio – me ne sono resa conto solo quando tutto questo è finito – nascere figlia di quel padre, e ancora più fortunata mi ritengo per aver ereditato, assorbito. la sua sete di conoscenza. Il mondo in cui vivevo non era solo un ambiente intriso di letteratura ma – l’ho capito in seguito, confrontandomi con altre esperienze – una sorta di aristocrazia del pensiero, del meglio che il ‘900 abbia visto. E non solo in Italia, perché nella nostra casa arrivava un po’ tutto il mondo. Studiosi, filosofi, poeti, artisti, letterati, storici delle religioni, musicisti. Oltre a italiani, anche francesi, tedeschi, inglesi, svedesi, americani. La bambina che ero li guardava e li ascoltava con immensa curiosità. Ho avuto come padrino e madrina di battesimo Ettore Paratore e la sua bellissima moglie Augusta, nipote del grande Buonaiuti, che non è un cattivo esordio. Nella prima parte della mia vita sono vissuta in un mondo privilegiato, che a me pareva l’unico e in seguito l’impatto con altre realtà non è stato facile. Mi rendo conto che sono vissuta in un mondo scomparso, che se da una parte mi ha dato degli strumenti unici di approccio alla vita, dall’altra ora mi fa sentire come in esilio da una patria perduta. È un mondo che riesco a ritrovare però nei libri, nella gioia dello studio e della scrittura. E, forse perché ormai ho accumulato molti anni e molte vite, nel custodire quei ricordi. La stessa università di Padova raccoglieva contemporaneamente cervelli come mio padre, Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco, dei Maestri che davvero hanno aperto nuove strade. Personalità come queste hanno lasciato un vuoto non più colmato. Poi c’era la sterminata biblioteca di mio padre, da cui mi hanno parlato secoli di sapere, da cui attingevo in modo disordinato e vorace. Ho letto libri come “Vita di Don Chisciotte” di Miguel de Unamuno, o “Delitto e castigo”, o “Iperione” di Hölderlin a undici, dodici anni. Capivo la metà di quello che leggevo, ma era proprio quello che non capivo che mi affascinava. In quella biblioteca di oltre 10.000 volumi, c’erano le letterature di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e libri di filosofia, di arte, di critica, di scienze matematiche e naturali, di storia delle religioni, di teatro e molto altro e insomma era lo specchio della mente e del sapere di mio padre, che non è stato solo filosofo, grecista e filologo, ma anche pittore, scultore, poeta e compositore di musica. È stata la sua ecletticità che mi ha insegnato a essere curiosa di tutto, a non temere di esplorare campi non miei (se mai ho avuto dei campi miei), a inoltrarmi lungo vie ignote. Insomma, proprio come per le parti dei libri che non capivo, mi ha sempre attratto quello che non so. Non ho una mente accademica – e vedendo molti cosiddetti accademici di oggi la ritengo una cosa positiva – ma più di una curiosa, di un’innamorata del sapere. E questo è quello che di me più mi piace. Eppure, immersa in tutta questa sapienza e conoscenza, la lezione più grande che ho tratto da mio padre è stata di aver visto come tutto questo suo sterminato sapere non abbia mai soffocato in lui un’umanità traboccante, una generosità impetuosa e un’innocenza del cuore che ben pochi intellettuali possiedono. Spesso una mente cui si dà eccessivo spazio invade ogni altro campo della vita e soffoca e inaridisce il cuore. La sua mente era mossa dal cuore e non l’opposto. Sì, direi che è stato questo l’insegnamento più grande. Mio padre si è sposato piuttosto tardi e quando è morto avevo ventisei anni e già da tempo vivevo lontana. Spesso mi chiedo quanto sarebbe stato importante averlo accanto più a lungo, quanto ancora avrei imparato – ormai adulta – da lui, che dialoghi ricchissimi avremmo potuto fare. E quanto mi sarebbe stato preziosa la sua presenza in momenti difficili della mia vita. Ma ci sono le sue opere e, leggendo i suoi scritti e le sue carte, anche inedite, quel dialogo e quella vicinanza esistono comunque, pur se in modo diverso» .Nella sua vita la poesia è arrivata molto presto, e nel nome di Diego Valeri… .Come storica dell’arte – il suo maestro è stato appunto Sergio Bettini – ha insegnato in Inghilterra e in Irlanda. Se non sbaglio, è nella storia dell’arte che trova inizio la sua attività di traduttrice: penso infatti alla traduzione dal tedesco della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl, che lei ha realizzato nel 1983 per l’editore Cappelli, firmando anche le pagine introduttive e gli apparati di note. A proposito di quella traduzione, che le valse anche una menzione speciale al Premio Monselice, vorrei porle due domande. Cominciamo dalla prima: che cosa ha significato, e che lavoro ha richiesto, affrontare un’opera così complessa e tecnica? L’altra domanda è invece questa: qual è il valore culturale, nell’ambito della storia dell’arte, dell’opera di Riegl? Uno dei suoi campi di studio è quello delle folklore e della tradizione orale irlandese. Com’è nato questo amore? Che rapporto ha stabilito con “quella” copia di Croker? Ma che cosa è “diventato” per lei Thomas Crofton Croker? La traduzione italiana dell’opera ha avuto molto successo… Quali sono le differenze tra la traduzione di un’opera saggistica e la traduzione di un’opera letteraria? Lei è anche la traduttrice della scrittrice indiana Anita Nair. Che cosa significa attraversare e ricreare le pagine di un’autrice che appartiene a un’area culturale completamente diversa? Torniamo a quanto abbiamo detto: dietro le quinte di una traduzione c’è un vero e proprio percorso di studio… Fra gli altri, lei ha tradotto Kushwant Singh, Themina Durrani, Pico Iyer, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Uzma Khan. Quali sono gli autori, fra quelli che ha tradotto, che sente più suoi? Quando deve tradurre un libro, quali sono le fasi che scandiscono il suo lavoro? Giorgio Caproni diceva che tradurre equivale a «doppiare». Lei che cosa ne pensa? Un autore che vorrebbe tradurre? Un traduttore che ammira? Un traduttore o una traduzione che considera sopravvalutati? Senta, ma se lei dovesse spiegare in parole estremamente semplici che cosa vuol dire tradurre, che cosa direbbe? E se dovesse spiegare qual è il bello del lavoro del traduttore? (C)2012 by Simone Gambacorta e Francesca Diano TUTTI I DIRITTI RISERVATI |
Simone Gambacorta intervista Francesca Diano
16 Gen 2013 1 Commento
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Anita Nair e il mito – di Francesca Diano
05 Lug 2012 1 Commento
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Copertina originale dell’edizione Puffin Book
Pubblico questo saggio, che compare come introduzione all’edizione italiana di “Magical Indian Myths” di Anita Nair da me curata. La mia introduzione è stata molto apprezzata dalla stampa e dalla critica.
ANITA NAIR E IL MITO
di Francesca Diano
Prefazione a
“La mia magica India”
di Anita Nair
Roma 2009
Il mito è uno strumento di precisione, tagliente come un rasoio, profumato e profondo come le acque dell’oceano, vasto e complesso come l’intero cosmo, per proiettare una lama di luce nella tenebra dell’animo umano e della storia della nostra specie.
Il mito è la storia prima della storia, il suo tempo è il non-tempo. Quando tra uomini e dèi non v’era separazione. Quando la natura parlava all’uomo con parole che l’uomo intendeva.
Scelgo volutamente di usare il termine al singolare, perché per la mia pur modesta esperienza di innamorata di miti, sono sempre più convinta che non vi sia alcuna separazione tra i patrimoni mitologici che le diverse culture ci hanno lasciato, come zolle tettoniche galleggianti su un magma ignoto.
Esiste il mito e le sue proteiformi manifestazioni, che si diramano nel tempo e nello spazio in infinite direzioni e gemmazioni, che tessono trame senza fine. E segnano di sé ciascuna cultura, tanto che forse non è una cultura che crea i suoi miti, ma l’opposto.
Sorella del mito è la fiaba. O a dir meglio, figlia. Ché ne è generata in sfilacciature e brandelli, ma il cui fine è ugualmente nobile.
Il mito è cibo per uomini dal cuore di bambini. La fiaba è nutrimento per bambini il cui cuore sarà quello di uomini.
E da sempre pare che il compito di traghettare la memoria di questi due mondi apparentemente separati sia stato quasi ovunque accuratamente ripartito tra i due sessi: narratori di miti sono gli uomini; narratrici di fiabe sono le donne. E mi piacerebbe avanzare un’ipotesi per questa divisione di ruoli, che assegna alle donne il ruolo di psicopompo nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.
In ogni momento liminale la donna è presente: la nascita, la morte. Sono donne le prefiche, sono le donne che preparano il defunto per il grande viaggio verso una nuova vita e ne accompagnano il passaggio con la lamentazione funebre ritualizzata. Che altro non è che la narrazione di una vita che, in quell’istante, si spoglia della sua dimensione individuale ed entra nel mito. Esce dal tempo umano per fondersi col divino.
La Grande DeaMadre dà la vita e dunque dà la morte. Ma la morte è trasformazione, passaggio da uno stato a un altro. E dunque dàla Vita.
È quindi femminile il compito di accompagnare il bambino sino alla soglia della sua trasformazione in adulto, nell’atto di morire all’infanzia e rinascere per la seconda volta, pronto ad entrare nella società degli uomini. Perché la fiaba non è altro che questo, “Vita: istruzioni per l’uso”.
Il mito dunque narra la nostra storia collettiva e anzi ancor prima che l’uomo fosse, conserva la memoria delle origini; la fiaba ci istruisce su come di quella storia entrare a far parte in modo protetto e sicuro.
Ma tutti questi narratori, questi traghettatori della nostra identità, le cui voci, pur non tacendo, sono ormai silenziose, hanno un dono speciale che le accomuna, ed è l’abilità, l’arte di narrare.
Il dio degli antichi Celti, Oghmé, una sorta di Eracle celtico, ma anche dio dell’eloquenza e della parola, aveva catene d’oro che si dipartivano dalla sua lingua e letteralmente avvincevano chi l’ascoltava.
Dunque la narrazione non può essere separata dal suo narratore.
Ed ecco che una donna, una donna indiana, che sa usare le parole come catene d’oro nelle sue narrazioni, sceglie di raccontare ai bambini i miti dell’India.
Perché questo è nato come libro per bambini e non a caso è dedicato a Maitreya, suo figlio.
Per i bambini indiani, ai quali i nomi e le intricatissime vicende di quegli dei, di quei semidei, di quei demoni e re mitici, di quegli animali divini non suonano affatto sconosciuti. E così è per qualunque indiano, piccolo o grande.
Qualche anno fa, una serie televisiva durata due anni e tratta dal Mahabharata, paralizzò l’intera India davanti agli schermi TV.
In India il mito, l’epopea, appassionano quanto le trame dei film di Bollywood, che non se ne discostano poi così tanto.
Donna dunque. E indiana. Che si assume il compito di tramandare ciò che è stato narrato a lei da sua madre, da sua nonna e dalla cultura che ha respirato, dal mondo in cui è nata, parte di quello che è tra i più antichi e fecondi patrimoni di miti dell’umanità.
Ma in questa scelta, io credo, non entra in gioco solo la sua arte narrativa, che si riconosce dallo stile che le è proprio, diretto, tutto dialogo, poche descrizioni, ricco di colpi di scena, di ironia, poesia e dramma, quanto anche la sua identità.
Anita Nair appartiene a un antico gruppo etnico, da tempo immemorabile presente nel Kerala, che è lo stato dove è nata e dove torna spesso, quello dei Nair o Nayar, per tradizione guerrieri, storici e viaggiatori. Una colta aristocrazia in uno degli stati indiani in cui di fatto l’alfabetizzazione è quasi totale. Ma l’aspetto più singolare e interessante di questa etnia dalle origini antiche e misteriose, è quello della discendenza matrilineare, che dà alla donna una posizione di grande potere e preminenza, sia all’interno della famiglia che del gruppo sociale.
I figli sono figli della madre, la figura maschile più importante all’interno della famiglia non è il padre, ma lo zio materno, la trasmissione del patrimonio è per via femminile, ecc. Una tradizione opposta a quella in genere presente nella cultura indiana, secondo cui il ruolo della donna, familiare e sociale, è assolutamente di sudditanza.
Dunque, per tradizione antica, spetta in qualche modo alla donna preservare e tramandare l’identità culturale e sociale del gruppo.
In questo Anita Nair, in un certo senso, non fa eccezione.
Nella sua premessa, Anita Nair specifica difatti che il suo desiderio altri non è che quello di ritrovare la magia delle voci narranti che le hanno fatto amare questi miti e queste leggende ascoltate dalla madre, dalla nonna e più di recente dal maestro di danza Kathakali da lei incontrato in Kerala nel corso delle ricerche per la stesura del suo romanzo Padrona e amante.
Conosco l’opera di Anita Nair fin dagli inizi e ho della sua scrittura una visione privilegiata, come traduttrice e come lettrice. A lei mi legano anche un’amicizia e un affetto profondi.
Un traduttore che abbia la fortuna di seguire da sempre un autore, e ancor meglio fin dai suoi esordi, lo conosce dall’interno, ne segue i meccanismi del pensiero, ne impara la mappa mentale, ne vede l’evoluzione come nessun altro. Perché deve smontare quei meccanismi della lingua e del pensiero per ricostruire e rendere quello stile, quella unicità. Deve dargli una voce straniera che sia all’autore familiare quanto la sua originaria.
Dunque ho imparato a conoscere anche la sua visione del mondo.
Le storie che Anita narra, storie di donne e di uomini, ma soprattutto di donne nell’India che cambia, parrebbero lontane dal mondo della sfolgorante mitologia della sua terra.
Donne quasi sempre della media e alta borghesia, le cui vite si scontrano con i sussulti del progresso, dei veloci cambiamenti sociali, delle tradizioni che non si vogliono o possono dimenticare. Quello che racconta, con passione, delicatezza, ironia e un’acuminata capacità di andare al cuore delle cose, è un mondo in cui le trasformazioni sono velocissime e creano un senso di smarrimento. Storie la cui fine è con grande intuizione sempre aperta, in cui i suoi personaggi femminili devono fare i conti con le turbolenze create dallo scontro fra tradizione e innovazione.
Generalmente la tradizione è rappresentata dai personaggi maschili, mentre i personaggi femminili sono portatori di cambiamento e trasformazione. Uno scontro fra passato e futuro dunque, che non può avere una soluzione immediata o certa.
Ma il passato è sempre presente, in una sorta di contemporaneità del sentire, perché il Kerala in cui Anita Nair colloca tutte le sue storie, è un luogo ricolmo di incanto e bellezza, di magia, di vicende tratte dal Ramayana e dal Mahabharata che i danzatori di Kathakali rappresentano davanti ai templi al tramonto, indossando i loro abbaglianti costumi. Ed è a quel passato mitico e magico che Anita Nair attinge.
In Un uomo migliore, la storia di una morte e di una rinascita spirituale è ambientata in un piccolo villaggio del Kerala, che diviene una sorta di microcosmo universale, dove una magica tecnica di guarigione, ispirata a un racconto puranico dà i suoi frutti. In Padrona e amante la vicenda amorosa dell’indiana Radha, moglie di Shyam e dell’americano Chris (i nomi rimandano agli dèi Radha e Krishna e a uno degli appellativi di Krishna, Shyamasundara, il Bello e l’Oscuro), si intrecciano con storie dalle coloriture di epopea e con la descrizione delle antichissime tecniche sacre della danza Kathakali, che mette in scena i miti e i racconti epici.
Anita Nair rifiuta la definizione di “realismo magico”, che alcuni hanno avanzato per lo stile della sua scrittura e, dandole ragione, io lo definirei piuttosto “realismo mitico”.
Alla luce di queste premesse allora, non sarà difficile capire le ragioni di questo libro.
Il desiderio di rendere vividi e vitali i miti della sua terra trasformandoli in racconti ricchi di azione, di colpi di scena, di personaggi che parlano un linguaggio direi moderno e diretto per i piccoli lettori. Lettori che conoscono i miti della loro tradizione anche attraverso i fumetti e i cartoni animati. Tanto è presente il mito in India, che non teme di perdere forza o potenza mutando linguaggio.
Ma che questo libro sia indirizzato ai bambini non inganni, né faccia pensare a una lettura di tutto riposo, per quanto lieve e piacevole perché, sotto gli occhi dell’Occidente, il suo senso muta.
Il nostro cinismo, il nostro disincanto ci hanno fatto perdere la capacità di intendere il senso universale di quelle storie e tuttavia una nostalgia ci afferra, di ritrovare il linguaggio del mito, che ancora sussurra dall’abisso del tempo.
Ma per noi quel linguaggio non sarà più diretto. La luce del mito per noi sarà un lucore. Come la lucina nel bosco, lontana lontana, che compare salvifica nelle fiabe. Dovremo dunque imparare ad attraversarlo quel bosco che ce ne separa.
Pensare di dedicare “qualche parola” alla mitologia indiana, o anche “qualche pagina”, in una prefazione può produrre un unico risultato: paralizzare il povero prefatore. Tanto più se questa, come me, non è un’indologa o una storica delle religioni, ma solo un’innamorata del mito.
Il fatto è che la mitologia indiana, la madre di tutte le mitologie, è forse uno dei patrimoni mitologici più sterminati, compatti e antichi che vi siano.
Miti, leggende, racconti epici si trovano nel Ramayana, nel Mahabharata, nei Purana. Letteralmente centinaia di migliaia di pagine. Narrazioni di gesta e imprese di un numero immenso di divinità, maggiori e minori, di personaggi semidivini, di animali magici, di avatar, incarnazioni di un dio. Vicende che si diramano in infiniti rivoli, intrecci, mutazioni, senza soluzione di continuità. E tutto questo macrocosmo narrativo, dai mille simboli convoluti, dai significati spesso inafferrabili, nel suo complesso, i cui confini si perdono nell’ignoto, è l’immagine dell’intero universo.
Come era, come è e come sarà.
Tuttavia, in India, non esiste una rigorosa separazione tra mito, leggenda e fiaba o, se esiste, è talmente sottile da non poterla discernere.
La fiaba, come noi la conosciamo, è ciò che resta del mito, la sua trasformazione in racconto popolare e così è accaduto per noi in Occidente. Dove i miti sono solo materia di studio, ma non fanno parte più ormai della nostra vita quotidiana.[1] Ed è accaduto già da molto tempo.
In India non è così. E diversa è anche la concezione del tempo. Il tempo del mito, che inghiotte, trasformandoli nella sua stessa sostanza, anche avvenimenti storici, è il tempo del sacro. Un tempo circolare in cui non vi è un prima e un poi, ma tutto convive in un eterno presente e la narrazione delle vicende, che apparentemente si succedono le une alle altre, non segue un ordine cronologico, ma solo di causa-effetto, al di fuori del tempo e dello spazio.
Perché in India, così come nelle culture antiche, il mito è la storia. E questa percezione del tempo in India è ancora presente. La tradizione, con la sua ricchezza insostituibile è parte del quotidiano. Soprattutto nell’arte. Se si pensa che i musicisti e i danzatori in genere discendono da tradizioni familiari ininterrotte che possono risalire anche a seicento anni. Così come nella medicina. Patrimoni di conoscenza affidati alla trasmissione della teoria e della pratica.
Troppo lungo sarebbe e non utile in questa sede approfondire oltre questo discorso, ma ciò che è importante comprendere è che l’occhio e la mente con cui noi leggiamo questi racconti non può essere e non sarà mai quello con cui li legge un indiano, adulto o bambino che sia.
La maggior parte dei miti che Anita Nair ha scelto per compilare questa raccolta sono tratti dai Purana, dal Mahabharata e dal Ramayana, ma con delle incursioni nei testi vedici.
La tradizione letteraria indiana comprende i 4 Veda con i relativi commentari (tra cui le Upanishad), che contengono inni, canti, riti e formule magiche. Questi testi sono noti come shruti, letteralmente “ciò che è stato udito”, perché furono rivelati in tempi immemorabili come suono attraverso l’orecchio ai rishi, sacri sacerdoti o veggenti primordiali, che a loro volta li hanno trasmessi oralmente ai sacerdoti brahmani e così passati di generazione in generazione. Il termine sanscrito veda ha la stessa radice di video latino, dunque il suo senso è “veggenza”. Anche se furono rivelati attraverso il suono, poiché ciò che si vede si conosce. Dunque conoscenza. [2]
La smriti , letteralmente “ricordo”, è invece la tradizione orale e popolare di miti, leggende, poemi epici e comprende I Purana, il Mahabharata e il Ramayana.
Il Mahabharata è l’epopea di circa 100.000 versi in cui si narrano le vicende della lotta tra le famiglie imparentate dei Pandava e dei Kaurava per il trono. Sarà grazie all’aiuto di Krishna, auriga dei Pandava, che a questi arriderà la vittoria.
Ed è nel Mahabharata che compare la Bhagavad Gita, il Canto del Beato, il discorso di Krishna ad Arjuna, in cui è affermato e spiegato il senso del Dharma.
Il Ramayana, composto da 27.000 versi, narra la vita di Rama, avatar di Vishnu al pari di Krishna, dall’infanzia al suo ritorno nella città di Ayodhya.
I Purana costituiscono uno sterminato corpus composto da 18 Purana maggiori (Maha Purana) e 18 minori (Upa Purana), la cui composizione è attribuita al mitico rishi Vyasa, o Vyasadeva. [3]
I Purana maggiori sono interamente dedicati alla Trimurti, la sacra trinità di Brahma, Vishnu e Shiva, a ciascuno dei quali sono riservati 6 Purana. Inoltre genealogie mitiche di sovrani, personaggi semidivini, asura (demoni) e le loro vicende, che si intrecciano con quelle degli dèi.
Vi si narrano la vita, le gesta, i culti e i loro avatar, o incarnazioni. Nel Bhagavata Purana ad esempio, sono elencati i Dasavatara, i 10 principali avatar, le 10 incarnazioni di Vishnu: Matsya, il pesce; Kurma, la testuggine; Varaha, il cinghiale; Narasimha, l’uomo-leone; Vamana, il nano; Parashurama, Rama con la scure, l’abitante della foresta; Rama, il Signore del Regno di Ayodhya; Krishna; Balarama o Buddha; Kalki, il Tempo, colui che annienta la malvagità, che giungerà su un cavallo bianco alla fine del Kali yuga, l’età oscura, la nostra epoca, dominata da materialismo, avidità e cinismo, per riportare l’umanità a ritrovare la sua identità divina dopo una catastrofe purificatrice.
Ma non si tema, perché l’inizio del Kali yuga data dalla morte di Krishna, il 18 febbraio 3.102 a.C. e gli yuga, le ere secondo i Veda, durano molte centinaia migliaia di anni. Quest’ultima durerà poco meno di 430.000 anni. Dunque siamo appena agli inizi!
Una lettura interessante e di grande fascino è che questi 10 principali avatar di Vishnu indichino i dieci stadi evolutivi dell’umanità; dagli organismi viventi nel brodo primordiale (pesce), agli anfibi (testuggine), agli stadi non ancora del tutto umani (nano e uomo-leone) fino allo stadio più evoluto in cui l’umanità troverà finalmente la sua identità divina in un’Età dell’Oro.
Come si vedrà, tra i primi miti che Anita Nair narra, ve ne sono cinque dedicati ai primi cinque avatar di Vishnu. Sono quelli in cui Vishnu scende sulla terra in forma ancora non umana o semi-umana. Il dio Vishnu, il Conservatore, mantiene la stabilità della creazione e dell’ordine cosmico, contribuendo alla realizzazione della legge del Dharma [4].I suoi interventi, nei momenti in cui operano forze oscure e distruttive che tenderebbero a prevalere e distruggere quell’ordine, sono fondamentali perché si compia il Dharma. Ed ecco che in momenti di pericolo Vishnu discende sulla terra assumendo la forma necessaria e adatta.
La legge del Dharma richiede che non solo l’Universo, ma ciascun essere si conformi a quell’armonia che sola garantisce l’equilibrio dell’Esistente.
Forse, leggendo questi miti, non si potrà non pensare agli dei dell’Olimpo, risplendenti di luce, ma a volte capricciosi e irosi. Anche qui, dèi e re mitici, demoni, saggi rishi e avatar, si scontrano in lotte dettate da gelosie, egoismo, avidità.
Come nel mito “Come nacque il Lingam”, in cui Brahma e Vishnu litigano come bambini viziati per stabilire chi sia il vero creatore dell’Universo, incuranti che il loro dispettoso scontro rechi morte e distruzione tra gli uomini. Ed ecco: un’immagine da Guerre Stellari, da effetti speciali che nemmeno Spielberg. Emerge dall’oceano cosmico, tra esplosioni di fuoco e di lampi, una misteriosa roccia oscura, che cresce sino a proporzioni gigantesche. E cresce e cresce e cresce e poi si spacca…. E il Signore Shiva, in silenzio, sul suo trono, vi è dentro come in un tempio. La tremenda potenza del Lingam, simbolo ben più complesso e misterioso che di un semplice fallo umano, origine della vita, che è principio, ma allo stesso tempo fine, morte, trasformazione e rinascita.
Dunque è Shiva, il Distruttore, il vero creatore dell’Universo. Non Brahma, da cui tutto emana, non Vishnu, che protegge e mantiene, ma Colui che distrugge. Perché senza distruzione non v’è trasformazione e dove non v’è trasformazione è la morte di ogni cosa. Perché dove è la Finelì è anche l’Inizio. Shiva è infatti Adianta: inizio e fine.
Allora ecco che anche l’apparente disordine dei comportamenti divini, le liti, le diatribe, le rabbie e le vendette, tutto non è altro che un mezzo per far sì che il Dharma si affermi, chela Verità si riveli.
Questo insegnamento accomuna in India mito e fiaba. Questo intendono i bambini indiani leggendo i dialoghi vivaci, le descrizioni quasi sceneggiate dei miti come Anita Nair li racconta.
Il racconto che Anita Nair ha scelto come conclusivo, “Del perché Yama non poté ignorare Nachiketa”, forse è quello che, tra tutti, più disvela con quale disposizione, background e intendimento un bambino indiano leggerà questi testi. Una disposizione che nessun bambino occidentale potrà mai avere.
La storia di Nachiketa, che narra dell’origine delle Upanishad, è la storia di un viaggio nell’aldilà e, allo stesso tempo, ricorda come i rishi appresero la shruti.
Come Buddha, Nachiketa è colpito dall’esistenza della morte e non ne comprende il senso. Per quanto chieda, nessuno sa dirgli con certezza se vi sia o meno una vita dopo la morte. Il bambino, che pure studia in una gurukula, una scuola retta da un Maestro, non trova risposta né dai maestri né dai compagni.
Le circostanze vogliono che Nachiketa raggiunga, per un sacrificio offerto da suo padre, l’Aldilà, dove incontrerà Yama, il dio della morte. Ed è Yama infine, colpito dalla sete di conoscenza di Nachiketa, che gli rivelerà come dono il supremo insegnamento sulla scelta che l’uomo ha nella vita; il saggio sceglie il percorso del bene e la realizzazione del Sé, lo stolto sceglie la facile via del piacere, che lo condurrà alla prigionia della ruota incessante di morti e rinascite.
E da questa e le successive rivelazioni di Yama, ebbero origine così le Upanishad.
Questo tipo di insegnamento, trasmesso con queste parole apparirebbe davvero di difficile digestione per uno dei nostri bambini, a cui tra l’altro non parliamo mai della morte. Sono le parole che molti adulti partiti dall’occidente si sono sentiti ripetere dai guru indiani che tanto piacciono alla nostra epoca disincantata.
Se un bambino indiano è in grado di comprendere un concetto per noi tanto elusivo, chi tra i lettori indiani e quelli occidentali di questo libro sarà il vero bambino e chi il vero adulto?
[1] A questa osservazione fa eccezione l’Irlanda, dove, per molti versi, ho trovato singolari ma comprensibili analogie con la visione indiana del mito e la sua percezione. Se in Irlanda mitologia e folklore sono materia di studio scolastico e ovviamente accademico, tuttavia per un irlandese la propria identità è legata in modo inscindibile alla tradizione orale come per nessun altro popolo in Europa.
[2] La stessa tradizione si ritrova intatta nella religiosità degli antichi Celti. La Conoscenza fu trasmessa in forma di suono emanato ai druidi primordiali e da loro trasmessa oralmente attraverso le generazioni di druidi. Il termine druvid, sul cui significato non sempre si è d’accordo, ha comunque questa stessa radice vid- e il suo significato è “veggente”.
[3] Al brama rishi (saggio sacerdote di epoca mitica) Vyasa è attribuita la composizione dei Purana, del grande poema epico Mahabharata e la trascrizione dei Veda, prima tramandati in forma orale.
[4] Dharma è un termine sanscrito che compare già nei Veda. Il suo significato è molteplice e assai complesso. Ciò che è Stabile, Fissato, Legge, legge Naturale, Ordine Universale, è il concetto centrale della spiritualità e della filosofia hindu. Èla Verità Ultima, il senso delle cose, Dio.
Lo si intende sia sul piano individuale, come Legge Morale, dottrina morale dei diritti e dei doveri a cui ciascun individuo deve conformarsi, che sul piano universale. In quest’ultima accezione è il Tao dei cinesi e il Lògos dei Greci.
Allontanarsi dal Dharma significa sconvolgere l’ordine delle cose, creare disarmonia, kaos. Dunque sofferenza.
Il Dharma è essenziale anche nei diversi stadi della vita umana, Artha, (i conseguimenti materiali) Kama (il piacere sesnsuale) e Moksha (la liberazione)
Nel Mahabharata è Krishna stesso a definirlo: “Il Dharma governa tutte le vicende che sono di questo mondo e fuori di questo mondo” (Mahabharata 12.110.11)
Ancora Krishna, nel Bhagavad Gita, dichiara di incarnarsi ogniqualvolta e come sia necessario per annientare le forze del Male e proteggere il Bene.
Non è un caso che alcune direzioni filosofiche hindu vedano in Cristo e Krishna profonde analogie, di funzione e di ruolo. Non ultimo persino nell’omofonia del nome.
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Tramonti d’Occidente di Emilia Blanchetti.
18 Ott 2011 Lascia un commento
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Se una coppia di categorie si dovesse individuare per analizzare al meglio la società che ciò che definiamo Occidente ha creato, questa potrebbe essere frastuono/silenzio o, in alternativa pieno/vuoto o, ancora, caos/ armonia. L’Occidente, inteso come l’insieme delle culture che lo hanno generato (greca, celtica, cristiana) vive una crisi che si potrebbe forse meglio definire un passaggio.
Noi, figli dell’Occidente, siamo chiamati a una trasformazione – che è il senso della crisi – pur senza saperne vedere al momento i termini o gli strumenti necessari. Sospesi tra un passato che ci ha segnati e ci ha determinati e un futuro di cui nulla sappiamo, se non l’incertezza, non abbiamo più strutture, culturali o mentali per vivere il presente.
E’ ciò che questo romanzo, profondo e all’inizio apparentemente caotico di Emilia Blanchetti, squaderna come un insieme di fili che cercano la loro trama sotto i nostri occhi. L’intreccio, quasi un viluppo, di storie, di personaggi, di situazioni, (frastuono – pieno – caos appunto) all’inizio ti accerchia, quasi ti soffoca.
C’è il proprietario di una casa editrice milanese di successo, figlio di quell’intellighenzia privilegiata che è in apparenza un solido baluardo alla dissoluzione. C’è una badante rumena che cerca, come avviene per tante sue compagne e compagni di destino, di nutrirsi delle briciole di un benessere e di una democrazia che non ha tempo per occuparsi degli anziani e dei malati. C’è una sorta di voce narrante, dal ritmo ondivago, che osserva, commenta e condivide le vicende del suo editore e c’è una giovane islamica, una figlia della vecchia generazione immigrata, che non solo non si è integrata, poiché lo scontro di culture non è affatto sopito, né ha trovato ancora nei figli degli immigrati nati in una nuova patria, alcuna vera integrazione, ma vede nella realtà in cui vive il Nemico da distruggere. C’è un’Italia che, tra Milano, Torino e Roma, fino a luoghi meno opulenti e felici, mostra la trama frusta del suo tessuto.
Attorno a questi quattro personaggi chiave ruota un coro di figure a loro legate e di storie che alle loro si intrecciano, in percorsi molto complessi.
La prima impressione, nel leggere i primi capitoli, è quella di un’umanità brulicante, confusa, nevrotizzata dalle incertezze che ottundono proprio quella qualità che è alla base della cultura occidentale: la ragione.
E’ come se tutti questi personaggi annaspassero in un gorgo che li risucchia e non riuscissero a trovare appigli.
Ma, quello che ciascuno di essi cerca, è il filo che li possa condurre fuori dall’abisso, (il silenzio, il vuoto, l’armonia appunto) senza alcuna certezza di trovarlo. Ciò che rimane è l’istinto di sopravvivenza, il principio oscuro e potente che il disfacimento della civiltà occidentale ha dimenticato, seppellendolo sotto valanghe e slavine di negazione del senso.
Poi, alla fine, il caos, il frastuono, culminano in una tragedia annunciata. Ma è in quell’acme che in realtà si sopiscono e il disegno dei destini individuali si rivela per quello che veramente è: una sapiente tessitura del destino collettivo. I protagonisti scorgono infine – almeno alcuni di loro – un barlume di quello che un senso non pareva averlo.
Solo un barlume. Ma la scorgono una scintilla di quel silenzio, di quel vuoto, di quell’armonia che l’Occidente pare abbia perduto.
Emilia Blanchetti è un’esperta di comunicazione ad alti livelli e questa sua competenza si vede nel modo in cui riesce a “domare” un materiale complesso, inizialmente caotico (o così appare), come quello che forma le fondamenta sotterranee del suo romanzo. L’Italia confusa e dai confini così labili (confini ideologici e culturali, non solo geografici) e permeabili c’è tutta in questo romanzo intenso e sapiente.
(C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA
Le nausee di Darwin di Giordano Boscolo
31 Ago 2011 7 commenti
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Quando Darwin, dopo il ritorno in Inghilterra dal suo lungo viaggio esplorativo per mare sul Beagle, durato cinque anni e affrontato con una tempra e una salute invidiabili, sviluppò una serie di sintomi strani e allarmanti, tra cui vomito violento, nausea, fatica cronica, attacchi di panico, depressione e malesseri di ogni tipo, non ci fu medico in grado di capire che tipo di malattia lo affliggesse. Darwin divenne un invalido per i successivi 36 anni, fino alla sua morte.
Giordano Boscolo ha scelto questo titolo per il suo primo romanzo, (ma non prima pubblicazione) perché la sua narrazione è in fondo un apologo amaro e feroce di come, nell’Italia di oggi, ci si possa trovare, dopo la laurea, a vomitare su un peschereccio tra pescatori chioggiotti sballottato dai marosi, per un’improbabile ricerca sulle tartarughe marine, le Carretta carretta, commissionata da un fantomatico centro di ricerche, che non ha uffici, non paga, non si manifesta se non attraverso un tizio sfuggente e laconico.
Boscolo è uno scrittore nato. Scrive bene. Conosce i trucchi per legare il lettore alla pagina e, probabilmente per il suo carattere, ha scelto la cifra dell’ironia. Lui non ama questo termine, preferisce “umorismo”. Ma, mentre l’umorismo ha sempre, in qualche modo, una componente bonaria e sorridente, l’ironia è distruttiva, corrosiva, graffiante. E’ il mezzo più sottile ed efficace per mostrare la tragedia che si cela dietro la commedia. Non sorride. Ghigna. Rivela senza pietà la sofferenza.
E, come si diceva, la storia, molto ben strutturata, di cui Luca Visentin, col suo compagno di sventure Davide, è protagonista, è una storia tragica. Quella di moltissimi ragazzi che, in un’Italia dove millantatori, grassatori, mafiosi, politici corrotti ed escort fanno soldi a palate, non hanno lavoro, non hanno futuro, nonostante le lauree, le specializzazioni, la sete di costruirsi una vita.
La tragedia è nell’assassinio della speranza, nell’uccisione del futuro.
Luca è la voce narrante, ma questa è una storia corale. Sullo sfondo della vicenda si avverte la presenza invisibile di molti che non hanno voce. Fantasmi, come Alessandro, alla fine, che si aggira esangue tra le vasche dell’allevamento di branzini.
Poi ci sono le pagine epiche dei viaggi sul peschereccio. I pescatori hanno qualcosa di conradiano e questa ricerca della tartaruga marina ricorda l’inseguimento della balena bianca. Esiste ma non si sa dove sia. E’ quasi un’entità soprannaturale. Con la differenza che una tartaruga viene pescata. L’unica probabilmente di tutto il Mediterraneo. E, come si conviene a un Leviathan degno di questo nome, mozza il dito del povero Davide.
Ma la tragedia si sfiora davvero e non riveleremo come. La fine è terribile. Perché l’unico sentimento che emerge è la rassegnazione. Ed è il sentimento più terribile di tutti, perché è come morire da vivi.
L’intelligenza dell’autore – l’ironia è propria solo delle menti intelligenti – sta nel narrare questa Italia sommersa, grigia, priva di luce, senza un solo piagnisteo, senza autocompatimenti, ma in modo secco e quasi distaccato.
Distaccato al punto che si ride fino alle lacrime. Come quando Luca, per ammazzare il tempo prima di iniziare il suo ultimo lavoro, che consiste nell’aggirarsi da solo in piena notte in uno sconfinato capannone immerso nel buio, tra le vasche di branzini (pare che poi i guardiani inizino a sentire le voci), si immerge nella lettura di La mia pipì è gialla. La tua, di che colore è? istruttivo libretto per l’infanzia. Ma, a dire il vero, metafora di una forzata regressione, o meglio costrizione, a uno stadio arcaico dell’evoluzione dell’individuo.
E poi ci sono momenti di scrittura che fanno di questo romanzo un’opera davvero speciale.
“In notti, o prealbe, come questa, il tempo si manifesta nella sua vera natura di entità informe, ti appare nella sua nudità, tutt’altro che inerme, evocato dall’oscillazione dello scafo, dal rumore regolare del motore, dal fiato caldo che ti esce dalla bocca in sbuffi di vapore. E’ come il tempo delle sale d’aspetto nelle piccole stazioni di provincia, quando il treno non arriva mai e non c’è nessun altro passeggero con cui chiacchierare; il tempo delle code in autostrada, della mamma che ritarda più del solito e tu hai solo cinque anni, del telefono che non squilla anche se Lei ha promesso di chiamarti. E’ il tempo un minuto prima di essere impiccati. Il tempo dei manicomi.
Solo i filosofi possono permettersi il lusso di dire che il tempo non esiste.” ecc.
In questa riflessione filosofica sul tempo, perché filosofica lo è, sta tutto il senso del romanzo. Il tempo che fugge e sfugge eppure che ti acciuffa, un tempo grigio e compatto su cui non si ha potere se non quello di esserne vittime.
E’ amaro che sia un giovane a percepirlo così. Quasi tremendo. E’ il tempo di Aspettando Godot.
Questo romanzo filosofico, questo apologo, questa storia di illusioni perdute di un’intera generazione (e forse più di una) è costruito con una struttura che mi è molto piaciuta. I capitoli si alternano secondo una temporalità diversa, passato e presente storico, l’inizio della storia e un passato recente che diviene presente, per confluire poi nella contemporaneità della narrazione.
E tutta la storia, il modo in cui è narrata, il distacco fatto di presa di distanza da una disillusione troppo cocente per poterla trasformare in lacrime, l’uso del chioggiotto (che non è il veneziano di Goldoni, come è stato detto) per la parlata dei pescatori (finalmente un testo di narrativa in cui i personaggi non parlino in siciliano o romanesco), lo stile asciutto e sapiente, tutta la storia dicevo, è ciò che oggi, nella nostra Italia alla deriva, solo può essere un romanzo di formazione: cercare la leggendaria tartaruga di Darwin in un mare tempestoso, può significare ritrovarsi senza un dito o senza vita.
(C) by Francesca Diano
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IL CORVO di Edgar Allan Poe, tradotto da Francesca Diano
24 Ago 2011 18 commenti
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Oltre ad essere quello scrittore di incredibile ingegno e genio, uno dei maggiori sperimentatori, dei maggiori rivoluzionari della letteratura di tutti i tempi, Poe è – come già dal suo nome in certo senso preannunciato – uno dei maggiori poeti americani e non solo americani. Un poeta che ha percorso vie ancora ignote, che lui stesso s’è tracciato, scrivendone nei suoi saggi, The Rationale of Verse, The Philosophy of Composition ( saggio in cui Poe analizza in modo puntuale la composizione di The Raven e la tecnica e teoria della composizione letteraria) e The Poetic Principle.
Poe ha condotto ai suoi confini estremi l’idea, in realtà molto antica, che la poesia sia inscindibile dalla musica, stabilendo che sia musica essa stessa. La poesia è musica e il suo significato è quella stessa musica.
La via nuova, la grande rivoluzione poetica che Poe operò nella poesia, non fu battuta dai suoi contemporanei americani, ma arrivò come un tuono all’anima di Baudelaire, suo primo e grandissimo traduttore, che fu preso da un amore totale e assoluto per questo genio infelice e tradito dai suoi contemporanei. Cosa poi questo significò per Baudelaire e quale seguito ebbe nella scuola dei Decadenti francesi ed europei è noto. Rimando alla lettura del meraviglioso saggio che Baudelaire scrisse su Poe. Quel saggio famosissimo. scritto nel 1852, che così inizia:
“Di recente, fu tradotto dinanzi ai nostri tribunali un infelice la cui fronte era illustrata da un raro e singolare tatuaggio: Sfortuna! Egli portava così al di sopra dei suoi occhi l’etichetta della propria vita come un libro porta il suo titolo, e l’interrogatorio provò che quella bizzarra scritta era crudelmente veritiera. Nella storia letteraria ci sono destini analoghi, dannazioni, dannazioni di uomini che portano la parola scalogna scritta in caratteri misteriosi nelle pieghe sinuose della loro fronte. L’Angelo cieco dell’espiazione si è impadronito di loro, e li sferza senza pietà, a edificazione degli altri. Invano la loro vita mette in mostra talenti, virtù, grazia: ad essi la Società riserva uno speciale anatema, e li accusa delle menomazioni che la sua persecuzione ha provocato loro. Cosa mai non fece Hoffmann per disarmare il destino, e cosa non intraprese Balzac per scongiurare la sorte? Esiste dunque una Provvidenza diabolica che prepara la sventura sin dalla culla, che getta in modo premeditato nature spirituali e angeliche in ambienti ostili, come i martiri nei circhi? Ci sono dunque anime consacrate, votate all’altare, condannate a marciare verso la morte e verso la gloria attraverso le loro proprie rovine? L’incubo di Ténèbres assedierà eternamente queste anime elette? Invano si dibattono, invano si conformano al mondo, alle sue previdenze, alle sue astuzie; perfezioneranno la prudenza, tapperanno ogni uscita, imbottiranno le finestre contro i proiettili del caso; ma il Diavolo entrerà dalla serratura; una perfezione sarà il difetto della loro corazza, e una qualità superlativa il germe della loro dannazione.”
Questa ricerca ossessiva e maniacale del valore musicale della parola, che in realtà è presente anche nella sua prosa, rende difficilissima e in alcuni casi impossibile, la traduzione (una traduzione degna di questo nome) delle poesie di Edgarpoe (come lo chiamano i suoi innamorati, me compresa).
Penso ad esempio a The Bells, Le campane, il cui effetto è tutto giocato sulla riproduzione del suono delle campane a festa, a morto, ad allarme. Un testo poetico che è una partitura musicale, un pezzo di jazz, un fuoco d’artificio di effetti sorprendenti, mai uditi, che ti scagliano sulle montagne russe più estreme e che fanno tremare i polsi.
Tradurre la poesia di Poe dunque, è davvero un’impresa. Ma io amo le imprese e già molti anni fa mi venne voglia di misurarmi con la bellezza siderea, soprannaturale dei suoi versi.
In italiano ci sono varie traduzioni delle poesie di Poe, ma nessuno dei suoi traduttori più illustri ha mai nemmeno provato a mantenere il ritmo musicale dei suoi versi. Dove non siano traduzioni in prosa, la fedeltà al testo originale si perde.
In seguito, al noto editore con cui allora collaboravo, quelle mie traduzioni piacquero moltissimo mi propose di pubblicarle. Il fatto è che il contratto che proponeva era un semplice contratto di quelli con cui si torce il collo ai traduttori letterari in Italia: a cartella e una tantum! Dato che il numero di cartelle tra l’altro sarebbe stato esiguo e il mio lavoro un lavoro non certo di semplice traduzione, ma un’opera poetica, io proposi un normale e giusto (e dignitoso) contratto a royalties. All’editore la cosa non andò e non se ne fece nulla.
NOTA
Nella mia traduzione ho mantenuto la massima fedeltà al testo originale e ho cercato di riprodurre il ritmo musicale più simile possibile a quello del poemetto originale. Un ritmo ondulante, ipnotico, sovrannaturale, quasi da incantatore di serpenti. Ho mantenuto perciò, per quanto possibile, l’uso del doppio ottonario e del settenario della metrica originale.
*****************
Il CORVO (1845)
Edgar Allan Poe
Traduzione di Francesca Diano
*
Una tetra mezzanotte, meditando, fiacco e stanco
Sopra tomi antichi e strani di perdute conoscenze,
Con il capo tentennante, quasi mezzo addormentato,
Ecco a un tratto un lieve battito, come chi grattasse piano
Come chi grattasse piano alla porta della stanza.
<<Non è che un visitatore>>, mormorai, <<Che batte piano
alla porta della stanza –
Questo solo, e nulla più.>>
*
Ah, ricordo chiaramente ch’era un tristo assai dicembre,
E ogni brace moribonda proiettava il proprio spettro.
Agognavo all’indomani: – vanamente avea cercato
Di trovare nei miei libri qualche tregua alla mia pena –
Pena per Leonore perduta –
Per la rara e risplendente giovinetta a cui hanno dato
Nome gli angeli Leonore –
Che qui un nome avrà mai più.
*
Ed il serico frusciare, così incerto delle tende
Rosse mi facea tremare – mi colmava
di fantastici terrori sempre prima sconosciuti.
Così ora, per tacere il pulsare del mio cuore, ritto in piedi ripetevo
<<Non è che un visitatore che mi supplica d’entrare dalla porta della stanza; –
Qualche ospite in ritardo che mi supplica d’entrare;
Questo solo e nulla più.>>
*
E d’un tratto ebbi coraggio; cancellai l’esitazione,
<<Oh signore>>, dissi, <<o Dama, perdonatemi, v’imploro;
Ma di fatto ero assopito e così lieve bussaste
E così sommessamente voi bussaste alla mia porta,
Che mi parve appena udire>> – e qui spalancai la porta; –
Solo buio e nulla più.
*
Scrutai a lungo nella tenebra, ritto, incerto, spaventato,
Dubitante e poi sognando sogni che prima mortale
osò mai nemmen sognare.
Ma il silenzio era profondo e la tenebra spietata
Ed un’unica parola – bisbigliata – fu <<Leonore!>>
Questo era il mio sussurro ed un’eco mormorante
mi rispose, <<Leonore!>>
Solo questo e nulla più.
*
Ritornando nella stanza, la mia anima un incendio,
Presto ancora udii bussare con più forza del passato.
<<Di sicuro>> dissi, <<certo è qualcosa alla finestra:
Su vediamo cos’è mai; ch’io disveli quel mistero –
Che il mio cuore un po’ si calmi e che io sveli il mistero; –
Solo il vento e nulla più!>>
*
E l’imposta spalancai quando, un frullo e un batter d’ali,
Entrò un Corvo maestoso, di remoti giorni sacri.
Non mi fece riverenze; né un istante stette fermo,
Ma s’andò a posare sopra l’architrave della porta
come un nobile signore o milady, appollaiato
sopra il busto di Minerva che sovrasta la mia porta.
Fermo, immoto e nulla più.
*
Poi l’uccello nero ebano fece sì che in un sorriso
Io sciogliessi le atre angosce, col decoro grave e nobile
del severo atteggiamento.
<<Pur se il ciuffo hai tu rasato, di sicuro tu sei fiero>>, dissi,
<<corvo torvo, orrido e antico che veleggi dalle plaghe
della Notte – dimmi quale nome nobile hai tu
sopra il lido plutoniano ch’è confine della Notte!>>
Disse il Corvo, <<Mai non più.>>
*
Molto mi meravigliai nell’udir quell’uccellaccio favellare tanto chiaro,
Pur se quella sua risposta non aveva senso alcuno
e a sproposito veniva;
Ché chi mai può convenire, che vivente creatura
Mai abbia visto un tale uccello sulla porta di una stanza.
Un uccello o altro animale sopra il busto cesellato sulla porta della stanza.
Il cui nome è <<Mai non più.>>
*
Ma, posato solitario sopra quel busto sereno, solamente disse il Corvo
Sol quell’unica parola, come se vi riversasse
per intero la sua anima.
E null’altro disse ancora – e non piuma scosse o mosse –
Finché appena bisbigliai, <<Altri amici son fuggiti prima d’ora-
E domattina egli pur mi lascerà, come già ogni mia speranza.>>
E l’uccello: <<Mai non più.>>
*
Mi sorprese quel silenzio, rotto solo dalla replica
così a senso pronunciata.
<<Senza dubbio>>, dissi allora, <<quel che dice non è altro
che soltanto dire sa
E l’ha appreso da un padrone incalzato da Sciagura impietosa
Ancora e ancora, tal che un solo ritornello era quello dei suoi canti –
Che i suoi pianti disperati con quel triste ritornello ebber chiusa
Sempre quello, sempre quello
“Non più mai – mai non più”.>>
*
Ma quel Corvo, trasmutò le mie tristi fantasie
nuovamente in un sorriso
Ed allora trascinai proprio accanto a lui e alla porta
e poi al busto una poltrona:
Poi, affondato nel velluto, presi allora a collegare
Fantasia e fantasticare e mi chiesi che volesse
dire mai quell’uccello antico e infausto –
Cosa mai quel tristo, goffo, spaventoso e infausto uccello –
Dir volesse nel gracchiare <<Mai non più.>>
*
Ciò, seduto, riflettevo, ma non sillaba volgevo
All’uccello i cui occhi accesi mi bruciavano nel petto;
Questo ed altro ripensavo, con la testa reclinata
Sul velluto del cuscino che la lampada assetata riguardava avidamente,
Ma il velluto del cuscino viola, che la lampada assetata
riguardava avidamente
Lei non premerà mai più!
*
Poi parve addensarsi l’aria, con profumi ch’esalavano
da invisibile incensiere
Oscillato da alati angeli, i cui passi tintinnando
risonavano sul marmo.
<<Infelice>>, gridai allora. <<è il tuo Dio che li ha mandati –
con questi angeli ti invia un sollievo ed un nepente
al ricordo di Leonore!
Su trangugia quel nepente e dimentica Leonore!>>
Disse il Corvo, <<Mai non più.>>
*
<<Oh Profeta!>> dissi, <<creatura dell’inferno! – ma profeta nondimeno
che sia tu diavolo o uccello! –
Che ti mandi il Tentatore, o tempesta abbia inviato,
Solitario ma indomato in questo deserto incantato –
In codesta mia magione dell’Orrore – dimmi imploro –
Vi è – vi è un balsamo in Gilead? Dimmi, dimmelo, t’imploro!>>
Disse il Corvo, <<Mai non più.>>
*
<<Oh Profeta!>> dissi, <<creatura dell’inferno! – ma profeta nondimeno
che tu sia diavolo o uccello!
Per quel Ciel che ci sovrasta – per quel Dio che entrambi amiamo –
Di’ a quest’animo gravato dal tormento, se nell’Eden
Sì distante stringerò la cara santa a cui Leonore
nome gli angeli hanno dato –
Stringerò la risplendente giovinetta rara a cui hanno dato
nome gli angeli Leonore?>>
Disse il Corvo, <<Mai non più.>>
*
<<Sia un addio questo tuo dire, uccellaccio di sventure!>>
gridai alzandomi all’impiedi –
<<Fa’ ritorno alla tempesta ed al lido plutoniano
della Notte!
Non lasciare piuma nera a ricordo del mentire che hai dianzi pronunciato!
Lascia intatto il mio silenzio! Lascia il busto sulla porta!
Togli il becco dal mio cuore e il tuo corpo dalla porta!
Disse il Corvo, <<Mai non più.>>
*
Ed il Corvo non s’alzò; sempre posa, sempre posa
Sopra il bianco busto pallido di Minerva sulla porta;
E i suoi occhi hanno l’aspetto di un demonio sognatore
E la luce della lampada che lo inonda getta l’ombra
sua di sopra il pavimento;
La mia anima dall’ombra che per terra aleggia immota
non si alzerà – mai più!
- * § *
(C) copyright 2006 by Francesca Diano
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Ma un recensore non dovrebbe conoscere la materia di cui parla?
01 Ago 2011 2 commenti
in Anita Nair, Bangalore, case editrici, editori, Francesca Diano, Guanda, india, indian literature, indian novel, indian women writers, indian writers, Kamala Markandaya, letteratura, letteratura femminile, letteratura indiana, luoghi comuni, Namita Devidayal, scrittori indiani, traduttore, traduzioni
Mi è capitato di leggere alcune interessanti recensioni di romanzi indiani tradotti in italiano, non firmate, o firmate solo col nome proprio, su di un sito dedicato al cinema indiano. In realtà l’ennesimo blog dedicato (e ti pareva) al cinema di Bollywood. Ben fatto, non c’è che dire. Peccato sia tutto anonimo, dato che nessun nome o firma sono in alcun modo rintracciabili su questo blog.
Detto per inciso, pensavo che, chi scrive una recensione, su qualunque argomento, dovesse firmarsi con nome e cognome, tanto per assumersi la responsabilità di ciò che mette per iscritto. Non è solo una simpatica abitudine, ma anche un atto di civiltà e professionalità, magari solo per risultare più credibili.
Anche perché su questo sito, si citano ampi stralci tratti da opere coperte da copyright e non credo sia sufficiente mettere le mani avanti e dichiarare: “se abbiamo violato il copyright, o se non abbiamo chiesto il permesso all’editore, ce ne scusiamo”!
Tra le varie, la recensione di Un uomo migliore, di Anita Nair, che potete leggere qui e, nello stesso sito, un’altra, quella di Nettare in un setaccio, di Kamala Markandaya, che potete leggere qui e ancora una recensione di La Stanza della Musica, di Namita Devidayal, che potete leggere qui.
Ho scelto queste recensioni perché riguardano romanzi di autrici indiane che conosco molto meglio di altre per vari motivi. Ovviamente Anita Nair perché sono la sua traduttrice italiana, ma la Markandaya perché avevo letto il suo romanzo di una bellezza che ti strappa il cuore, agli inizi degli anni 70, quando vivevo a Londra e il romanzo era un caso editoriale. Nectar in a sieve, il titolo originale, dell’edizione ancora in mio possesso, è un romanzo che descrive, nello stile tipico di quella corrente di naturalismo narrativo che la letteratura indiana conobbe agli inizi del 900, la dimensione più tradizionale dell’India, quella rurale e del villaggio. Markandaya ha una scrittura di una delicatezza estrema, raffinatissima e lirica, eppure riesce a ricreare l’atmosfera apparentemente semplice di sentimenti primari, essenziali. Quasi primordiali. Ma non è solo questo, è stato anche il primo romanzo che ha rivelato una scrittrice indiana che scriveva in inglese all’Occidente.
Il romanzo conserva tutta la freschezza e la poesia e la forza che si trova in una scrittrice tra le più grandi che l’Italia abbia avuto e che ha dimenticato: Grazia Deledda. Dunque, dare un giudizio come quello contenuto nella recensione denota non solo cecità per la bellezza e la forza del romanzo, ma anche una limitata conoscenza sia della letteratura indiana che della cultura e della società indiane.
Analogo discorso va fatto per la recensione di Un uomo migliore, di cui ho già scritto ampiamente sul mio blog e di cui ho spiegato i profondi meccanismi e significati.
Dopo aver fatto degli appunti allo stile, come se proprio quel modulare lo stile a seconda del personaggio (variando da registri drammatici a comici, a grotteschi a poetici e sognanti) non fosse la chiave di interpretazione dei singoli personaggi, Si arriva addirittura a dichiarare “alcune tappe rituali fanno sorridere”…. sorridere chi? Un’espressione davvero infelice, perché tradisce un atteggiamento di supponenza che parrebbe fuori luogo. Il significato semantico di questo sorriso infatti è: guarda che ingenuona è questa Nair, i mezzucci letterari che usa sono infantili e io, dall’alto della mia conoscenza, non ci casco di sicuro.
A quali tappe rituali (tappe rituali?) poi si riferisce? Forse intendeva quell’intuizione geniale per cui Mukundan viene rinchiuso in una enorme giara per rivivere una sorta di ritorno all’utero. Credo che chi ha scritto questo non sappia molto di antichissimi riti, atavici, e della dimensione ancora intrisa di magia religiosa che permane in molte zone rurali del subcontinente indiano, specialmente nell’India meridionale, dove il Kerala si trova. I culti religiosi che vi si praticano non sono di tradizione hindu. Questa non è l’India vedica, ma dravidica.
Per quanto riguarda La Stanza della Musica, che è un romanzo, almeno nella versione originale, che molto perde nella traduzione italiana, di folgorante bellezza, è ovvio che per apprezzarlo appieno sarebbe auspicabile sapere qualcosa di musica indiana classica e semiclassica. In questo caso, di canto. Magari non in modo superficiale. Magari saper apprezzare il diversissimo senso del tempo, musicale, ma anche interiore, dell’anima indiana, che la raffinatissima musica, narrata con altrettanto raffinatissimo linguaggio (poiché qui forma e idea si uniscono in una sintesi mirabile) racchiude.
Allora, ho trovato un po’ bizzarro che la nota “negativa” del recensore sia: “ci metterete più di un paio di giorni a finirlo”…
Lo spero bene, è un libro piuttosto corposo!
E questo mi ha aperto gli occhi! Se la velocità di lettura di questo recensore anonimo è tale, forse per questo si perde le finezze, le sottigliezze, le sfumature di una letteratura che chiede tempo, amore e rispetto. E apertura mentale a ciò che è diverso da noi.
Ma quand’è che l’Italia uscirà da questo provincialismo che fa sì che tutti strillino alla meraviglia quando le mode arrivano da noi – in genere quando ormai sono quasi finite altrove? Quand’è che la gente si prenderà la briga di conoscere gli argomenti di cui parla? Decenni fa proposi Nectar in a sieve, allora da noi sconosciuto (ovvio) e strapremiato ovunque nel mondo, a qualche editore. NON ERA INTERESSANTE. Chi voleva leggere un romanzo scritto in inglese da una donna indiana? Il massimo che si conosceva da noi era Tagore, e magari solo per sentito dire, perché aveva avuto il Nobel.
Ma non parliamo di Tagore anche oggi, per carità. Girano traduzioni che….
N.B. Il sito rende impossibile lasciare dei commenti se non si è membri del team, nessuno dei quali appare col proprio nome… capito?
Politica editoriale italiana: fiabe e leggende sono out
20 Mag 2011 10 commenti
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Se esiste un patrimonio dell’umanità che, nonostante i tempi e gli avvenimenti, si è conservato intatto e intatto rimane il suo fascino, questo è l’immenso corpus delle fiabe, delle leggende, dei miti e della tradizione orale che ogni paese civile conserva con amore.
Scrittori in Causa Contratto Editoriale
23 Mar 2011 1 Commento
in case editrici, cultura, diritti d'autore, editori, Francesca Diano, letteratura, libri, romanzo, scrittori, stampa, traduttore, traduzioni Tag:autore, autori, contratto editoriale, editoria, potere contrattuale, scrittori in causa
Ecco un’altra bellissima iniziativa – e assolutamente meritoria – dei responsabili del blog Scrittori in causa. La redazione di una bozza di possibile contratto editoriale che tenga conto degli interessi dell’autore, oltre che dell’editore.
Questo è il link
http://scrittorincausa.splinder.com/post/24330398/il-contratto-lavori-in-corso
Come si può vedere è un contratto che prevede delle clausole in genere non presenti nei contratti standard che gli editori amano tanto e che li tutela a scapito spesso degli autori. Tra cui una percentuale più decente sul prezzo di vendita, indicizzata al numero progressivo delle copie vendute, la scelta sui diritti di stampa che non è necessario cedere in blocco e non in modo cumulativo, un numero di anni minore rispetto allo standard dei 20 anni di cessione dei diritti all’editore e così via.
E’ bene far circolare questo tipo di contratto quanto più è possibile, in modo da creare in ogni autore la consapevolezza che si può contrattare con un editore e non è necessario accettare passivamente le clausole imposte.
Aggiungo anche che sarebbe tempo di caldeggiare contratti a royalties anche per i traduttori in particolare letterari e che traducono grandi autori, perché come mi capita, se di un libro vengono vendute 900.000 copie anche per il mio lavoro di traduttrice, che lo rende in una traduzione letteraria degna di questo nome, in quanto tradotta da chi è anche autore, permettete che anche solo 50 centesimi a copia è meglio di un compenso una tantum…. ed è per questo che gli editori non ci sentono in questo campo.
Un plauso a Scrittori in causa per il loro lavoro e per l’attenzione e l’aiuto che offrono a tutti noi!
Scrittori in Causa
06 Ott 2010 2 commenti
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E’ recente la creazione di un fantastico blog, Scrittori in Causa
http://scrittorincausa.splinder.com/
che in modo molto generoso e attivissimo si occupa di dare una mano a chi scrive, per muoversi senza farsi troppo male nel ginepraio del mondo dell’editoria.
Cito dal blog stesso:
“Un organismo indipendente di informazione e confronto sulle convenzioni contrattuali nel campo editoriale. Per scrittori e scrittrici che vogliono eliminare le cattive maniere e diffondere le buone prassi.”
a cura di Alessandra Amitrano, Simona Baldanzi, Carolina Cutolo, Sergio Nazzaro.
Da poco il blog offre anche un servizio di consulenza legale gratuito e propone una ricchezza di articoli, consigli, guide e informazioni davvero unica. Dunque, chiunque voglia muovere i primi (o anche i successivi) passi nel mondo della pubblicazione, degli editori e di tutte le problematiche che vi sono connesse, è caldamente invitato a leggere gli interessantissimi post, gli articoli e a dare la propria adesione.
Già moltissimi l’hanno fatto, me compresa.
Un grazie di cuore agli efficientissimi autori!
Tradurre, un’appassionante arte. Intervista a Francesca Diano
06 Set 2010 3 commenti
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Tradurre: un’appassionante arteIntervista a Francesca Diano per Librialice. di Valentina Acava Mmaka Ha una voce profonda e avvolgente che trasmette entusiasmo, ha il privilegio di conoscere tutti i retroscena di molti dei romanzi che nell’ultimo decennio abbiamo imparato ad apprezzare. Francesca Diano, studiosa di letteratura e tradizioni irlandesi e traduttrice di autori come Anita Nair, Themina Durrani, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Thomas Croker ci ha raccontato l’appassionante esperienza di essere traduttore. È noto che in Italia il traduttore è una figura professionale che resta quasi sempre sullo sfondo. Raramente, salvo casi eccellenti, il suo nome appare in copertina, o viene citato dai recensori e giornalisti, eppure il traduttore ha un compito delicato e di grande responsabilità. Nella sua trasposizione da una lingua all’altra, può succedere, come ci racconta la Diano ”che una cattiva traduzione può uccidere una grande opera, così come una meravigliosa traduzione può rendere bella un’opera dallo stile zoppicante”. Francesca, tu sei traduttrice dall’inglese, come è nata questa tua professione?
A cosa stai lavorando?
Nota bio-bibliografica Francesca Diano è nata a Roma e a da bambina si è trasferita a Padova. Si è laureata in Storia dell’Arte con Sergio Bettini e poi ha vissuto alcuni anni a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Institute e ha insegnato all’Istituto Italiano di Cultura, compiendo allo stesso tempo delle ricerche sulle miniature medievali italiane nei musei inglesi. E’ scrittrice, poetessa e saggista. Di Valentina Acava Mmaka
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