Giorgio Linguaglossa sulla poesia di Francesca Diano

Pubblico come post, con gratitudine e commozione, questo splendido testo che il poeta e critico Giorgio Linguaglossa ha generosamente scritto sulla mia attività poetica, con una particolare attenzione al testo “Il Minotauro”, testo che mi fu ispirato dall’omonima statua dello scultore Sergio Rodella. La sua critica, profonda, acuta, coltissima, e molto generosa, è apparsa sul suo sito (sotto il titolo il link al sito di Linguaglossa). Come spesso avviene quando il nostro lavoro viene analizzato da uno sguardo attento ed esperto come il suo – che non è solo quello di un critico militante, ma anche quello di un raffinatissimo poeta – siamo i primi a vedervi alcuni aspetti nuovi. Gli sono dunque grata per questa sua analisi che veramente va alle radici della mia poesia. 

 

LA POESIA di Francesca Diano ” Il Minotauro”- Presentazione di Giorgio Linguaglossa

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Sergio Rodella – Il Minotauro. Marmo bianco di Carrara e marmi policromi.

 

Non si dà metafisica senza una mitologia e non c’è simbologia senza una metafisica. La migliore poesia moderna, in quando figlia di Mnemosine, porta in sé la traccia di quel ricordo, rammenta il simbolo come un cieco ricorda la luce del sole, non può farne a meno. Di qui quella caratteristica «connessione d’accecamento» di cui ci parla Adorno ne “La dialettica dell’illuminismo”, quella problematicità dell’arte moderna di voler pronunciare l’impronunciabile, l’indicibile, per poi scoprire la propria impotenza.

Nella poesia di Francesca Diano il «presente» è il «passato» e il «passato» è il «futuro», l’«io» non è il nocchiero di alcun «presente», se intendiamo il presente ciò a cui pensiamo non come quiquid ubique  ma ciò che quicquid évenit hic et nunc, ciò che avviene per noi e solo per noi. Analogamente, il «mito» è ieri e oggi e domani, e continuerà a parlarci fin quando noi saremo capaci di interrogare l’inferriata dei suoi molteplici significati. Ma, si tratta, appunto, per noi oggi di una inferriata del senso, che deve essere continuamente scandagliata, interrogata, problematizzata. Occorre allora ripristinare l’Interrogazione, tornare a porre delle domande al mito come fa Francesca Diano. Nella poesia “L’esclusa” è appunto una donna respinta dalla comunità che parla, e il suo dire diventa un atto d’accusa; nella poesia “Il Minotauro” è Asterione, il figlio degli astri; un dio dunque che parla, e la sua parola diventa fatalmente un atto di accusa nei confronti di Teseo l’ateniese, l’estraneo, il nuovo modello di civiltà che egli rappresenta; Dedalo, nella omonima poesia, è il padre colpevole di aver ucciso il figlio che parla.

 

Molto tempo è passato dalla invenzione della relatività speciale, la prima grande teoria di Einstein, oggi confermata da innumerevoli esperienze; al contrario, la poesia oggi sembra ancora dipendente da un concetto tolemaico dell’«io», come se l’«io» fosse un centro immobile attorno al quale ruotano i pianeti degli avvenimenti. Ma come non esiste un «presente» nell’universo e la storia delle cose non è separabile in passato, presente e futuro, così non esiste un «presente» del pianeta «io». L’idea di un «presente» esteso nello spazio è un’approssimazione, legata alla lentezza della nostra capacità mentale di risolvere tempi brevi (decimi di secondo), paragonata ai tempi (nano-secondi, al più milli-secondi) che impiega la luce a percorrere le distanze nelle quali ci muoviamo abitualmente. Il nostro presente è una piccola bolla approssimativa, limitata nello spazio, e se cerchiamo di estenderlo incontriamo contraddizioni insormontabili. La metafisica del presente, cioè l’idea che la realtà esista tutta nel presente, non è sostenibile, perché fa leva su un errore: estende il nostro presente locale a distanze siderali e arbitrarie.

Questo non implica che il cambiamento sia illusione, come spesso si conclude un po’ frettolosamente. Il cambiamento e il fluire del tempo possono essere concepiti, ma localmente e non globalmente, e in relazione a un osservatore. Nella poesia di Francesca Diano l’«io» è semplicemente un osservatore, una posizione dalla quale si osserva il mondo, e il mondo è contemporaneamente passato, presente e futuro. È questa la novità di posizione della sua poesia e la chiave di volta per comprenderne i segreti. Che cosa misurano i ticchettii dei nostri orologi se il tempo non esiste?, Di che cosa parlano le poesie del nostro tempo se il tempo altro non è che il cambiamento, sul quale una speculazione bimillenaria si è arrovellata senza cavare un ragno dal buco?. Ricordiamo l’assioma di Agostino: «so che cos’è il tempo solo se nessuno me lo chiede», al quale ben potrebbe fare da contraltare «so che cos’è la poesia solo se nessuno me lo chiede». Così la poesia è lo spazio, dove microcosmo e macrocosmo coesistono senza collidere, come la semplicissima lumaca, che in sé ricapitola l’intero universo:

 

Lumaca, luna, lunula

Dell’unghia labirintica

Che l’universo congloba

In un’ansa ellittica

Spiralata meteora

Dal cammino tortuoso

Universale pronuba

Del dio meraviglioso

Microcosmo di regole

Di circonvoluzioni

Galattiche e sintattiche

Microrivoluzioni

Strisciando lenta dondoli

Sospesa tra due interi

L’immenso ed il minuscolo

Spiralati emisferi

 

Il «Bestiario» della Diano altro non è che un universo in miniatura che ricapitola il macrocosmo in ogni sua piccolissima parte. Anche il verso breve che oscilla tra settenario e novenario ricapitola il «dondolio» della lumaca «sospesa tra due interi»; l’universo è una intelaiatura di segnali e di rimandi che si inseguono e ammiccano gli uni agli altri: «L’occhio fisso del caprone / Segue misteriosamente il segnale / Algebrico che il sole / Filtra tra i lecci appestati».

Ma soffermiamoci sulla poesia “Il Minotauro”. Ritengo questo “Minotauro” di Francesca Diano una delle poesie più complesse architettonicamente che abbia letto in questi ultimi anni. Innanzitutto, la lettura del mito del minotauro che viene qui ribaltato nel suo contrario: il minotauro è il negativo che deve essere soppresso affinché vi sia civilizzazione, il suo sacrificio è scritto nel télos della Storia. La ferinità che il mostro rappresenta con il suo stesso corpo metà umano e metà di toro deve essere ricacciata nel buio, seppellita dalla rimozione collettiva; la sua natura deve essere rinnegata e denegata, così la storia dovrà-potrà proseguire secondo la volontà degli dèi antropomorfi che non possono permettere che la mostruosità della Dea bianca possa continuare a sopravvivere. Il delitto di Teseo è necessario e giusto (ma un delitto può mai essere giusto?). Teseo è il vincitore, colui che uccide il lato ferino del mostro umano. Così la civiltà occidentale può essere edificata con la coscienza tranquilla dei vincitori e Arianna, sorella di Asterione, è complice di Teseo, e la Storia può scorrere tranquillamente verso il suo epilogo senza fine di disastri e stragi intervallate da brevi tregue (armate)… adesso la via è aperta alla civiltà antropomorfa, alle religioni teologiche, al dio monocratico, alla tecnologia, al superuomo… allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alla ipocrisia delle religioni rivelate e della giustizia rivelata. Adesso il Minotauro è stato ucciso. E Tutto è bene.

Conosciamo il mito del Minotauro: Pasifae, moglie di Minosse, s’innamora del toro e si unisce a lui. Da questa turpe unione nasce il Minotauro, un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro. Un mostro pericoloso e al tempo stesso di così alta stirpe, il suo nome è anche Asterione (figlio luminoso degli astri), e dunque ha una duplice natura: divina e umana, ferina e razionale. Da un atto turpe e obbrobrioso, da un coito di lussuria nasce un mostro da scongiurare che minaccia la ratio ed il benessere del regno. Minosse lo rinchiude in un palazzo costruito da un architetto ateniese di nome Dedalo il quale, iniziato da Atenea a tutte le invenzioni dell’arte e dell’industria, costruisce un palazzo:  il labirinto di Cnosso, un inestricabile susseguirsi di camere, corridoi, sale, finti ingressi e finte porte, un luogo dove perdersi e da cui fosse impossibile uscire. La Diano ribalta la lettura del mito, dà la parola ad Asterione, figlio degli astri, lui, il mostro è in realtà il figlio di un dio e ci parla di un’altra verità, della verità di un altro dio che è stato rimosso e mutilato della facoltà della parola. La sua verità collide e confligge con quella invalsa dalla nuova ideologia della polis divisa in classi e governata dalla Politica. Asterione è il rappresentante della ferinità, della civiltà della grande Dea bianca, della società matricentrica e pastorale che sta declinando e che deve essere sopraffatta, cancellata, usurpata, rimossa. Il Minotauro viene chiamato dalla Diano, Asterione; il suo vero nome, e la sua parola rimbomba con la forza della verità soppressa e soffocata, lui parla a nome dell’ombra, è ombra che ridiventa luce («Ombra del buio che sorge dalla luce.
Ed io luce dal buio sorgo – immortale.»). Lui che sa che Teseo è stato inviato da Atene per ucciderlo, egli è il rappresentante della polis, in quanto mostro pericoloso esso deve essere eliminato per l’ordine della polis. Teseo è dunque l’araldo della nuova ideologia, Teseo entra nel Labirinto. L’esecuzione (anzi, l’assassinio) diventa inevitabile. Il Minotauro è la vittima non il carnefice, la nuova civiltà oligarchica e monarchica della polis lo ha derubricato in «mostro» da abbattere mediante un atto di forza. Ma Pasifae era figlia di Helios, cioè Phoibos, il Sole luminoso, quindi il Minotauro era nipote di Febo-Apollo. Pasifae si congiunge con un toro: nessun commento se non che si trattava del Toro luminoso di Poseidone, quindi il Minotauro è in un certo senso nipote anche del dio del mare. Minosse è figlio di Europa e di Zeus, tramutatosi in toro per rapirla e amarla. Il Minotauro è dunque nipote anche di Zeus. Non un mostro, quindi, ma un discendente luminoso delle maggiori divinità.
Arianna, sorellastra di Asterione, aiuta l’inviato di Atene, Teseo, tradisce il padre e concorre all’uccisione del fratellastro. Forse lo fece per amore, forse per altri motivi, ma il tradimento resta evidente.

Tutte le religioni teologali, cioè monocratiche e monarchiche, della polis o dell’impero o dello stato di diritto nazionale hanno bisogno di un delitto ab ovo, dal quale trarre la propria legittimità e il proprio credito. Il cristianesimo, nella accezione paolina, è un esempio, credo il più emblematico, di questa cosa: l’uccisione di un giusto ad opera di ingiusti, la resurrezione e la venuta sulla terra della «città di Dio». Dunque, un omicidio, e su quell’omicidio viene eretto un gigantesco castello di legittimità (cioè di discorsi sulla verità e sulla menzogna). Dunque, il delitto fonda la legittimità. Il delitto fonda il diritto. Il delitto fonda la ratio della civiltà occidentale, la sua teologia e anche la sua filosofia, oltre che la prassi giuridica. E l’arte?, e l’arte seguirà le regole imposta dalla committenza, non potrà fare altrimenti che rimanere soggiogata al capro espiatorio.
Il grande merito di Francesca Diano è l’aver messo su carta una poesia di potenza altisonante, di aver scoperchiato il vaso di Pandora su un aspetto della nostra contemporaneità, di aver fatto rivivere, dalla viva parola del Minotauro, il delitto primigenio che fonda la civiltà. È proprio l’opposto di quanto la vulgata delle religioni e della filosofia occidentale e orientale ci ha detto fin qui: La parola del Minotauro è la parola della verità, quello di Teseo è la voce dell’assassino. E la filosofia che vuole giustificare quell’assassinio si rivela per quello che è: una filosofia della morte, della menzogna, della giustificazione.
Quindi, grande rispetto e ammirazione per questa composizione, una delle più grandi che siano state scritte nella poesia italiana di questi ultimi lustri.

In questo testo, come anche in tutti i testi della sezione «Congedi», la voce di Francesca Diano raggiunge una purezza, un diapason e una forza di dizione davvero notevole, i testi hanno la forza di un epicedio, del parlato e di un inno insieme; la voce si identifica in quella dei perdenti, degli esclusi dei reietti, delle bambine stuprate ad opera del Padrone; di Asterione, delle «escluse». La Diano ne condivide le ragioni, alza il velo della menzogna e della ipocrisia che la nuova civiltà della polis ha preparato a propria giustificazione: il delitto, l’uccisione del mostro. Ha inizio l’epoca della Politica della polis, dell’ordine e della legge a spese della pulsione istintuale e della libertà sensuale. Si entra nel regno della Civiltà a spese di un ignobile assassinio. «Madre, Grande Dea dalle dita di arcobaleno», la grande Dea, la dea madre è  morta per sempre, per essa non ci può essere resurrezione,  questo l’amaro commento della Diano.

Non è semplice indovinare la chiave di violino del pentagramma stilistico di questo libro, che si sviluppa attraverso un intrico composito di sentieri stilistici irti di ostacoli e di vie laterali, di divagazioni e di indirezioni. Ad esempio, particolarità del poemetto «Viatico in undici stazioni» è il recupero della tecnica degli analettici (si chiama analessi la posticipazione di un avvenimento della fabula nell’intreccio – fenomeno simmetrico è la prolessi in cui si ha la anticipazione di un avvenimento rispetto a un altro) per sezioni anteriori alla narrazione di base. Tipica procedura di derivazione narrativa che viene importata nella forma-poesia. Altro elemento da evidenziare è il montaggio che la Diano fa: il procedimento del “ritardamento” di un evento mediante la inserzione di digressioni e di riflessioni ad opera della fabulazione del personaggio femminile. Attorno a questo asse portante: cioè la narrazione dell’evento narrato, si svolgono i motivi laterali e paralleli che vengono ad intrecciarsi con la fabula centrale.

Ovviamente, qui il tono e il lessico della dominante stilistica sono quelli del piano medio-alto del linguaggio, che concede all’autore la possibilità di svariare in basso e in alto mediante l’impiego di immagini e di iperboli (rare).
Qui è la forma-poesia che fa propria tutta una serie di tecniche retoriche di origine narrativa, la capacità inusuale della Diano sta tutta qui, nel maneggiare un piano del linguaggio che oscilla tra l’andante largo e il moderato, il flusso del discorso ha la dispersione equilibrata degli accenti tonici, cosa che influisce sulla dominante stilistica senza procurare sbilanciamenti metrici e fonici. Metrica e fonica, simbologia e alchimia procedono insieme lungo il viale alberato dello stile sobrio e pacato.

La sezione finale del libro, suddivisa in quattro stanze, “Fisiologia delle comete”, è costruito seguendo il processo alchemico secondo la tradizione della Grande Opera, in cui la materia grezza è trasmutata e sublimata. Come suggerito dalle parole che vi compaiono, la prima parte è la nigredo, l’Opera al nero, la seconda l’albedo, l’Opera al bianco, la terza la rubedo, l’Opera al rosso e la quarta è la definitiva fusione degli opposti e sublimazione, il Rebis.

Nel testo compaiono moltissimi termini alchemici ( cauda pavonis, putrefazione, mercuriale, il nucleo nero che è il sole nero della nigredo ecc.) e riferimenti al procedimento della trasformazione alchemica. Inoltre, nella terza parte c’è il riferimento a quella cometa che anni fa si schiantò sulla superficie di Giove e che diede all’autrice l’idea di una fecondazione di un ovulo e di uno spermatozoo di proporzioni cosmiche.

Il principio è quello di Hermete Trismeghisto: come in alto così in basso. Macrocosmo e microcosmo sono la stessa cosa. Dunque, le comete siamo noi, l’anima la materia che brucia senza ardere, l’arte, che brucia i simboli pulsanti di vita, tutti processi di trasformazione e sublimazione proprie del microcosmo che obbediscono alle medesime leggi del macrocosmo

 

Francesca Diano è nata a Roma nel 1948 e vive a Padova. Laureata in Storia dell’Arte, ha vissuto a Oxford e Londra. Ha insegnato all’Istituto Italiano di Cultura e ha lavorato al Courtauld Insitute. Ha vissuto a Cork, in Irlanda, dove ha insegnato all’University College e ha tenuto lezioni pubbliche sull’arte italiana contemporanea. Dai primi anni ’80 è consulente editoriale e traduttrice letteraria di poesia, narrativa e saggistica per vari editori, tra cui Fabbri, Neri Pozza, Donzelli, Guanda. E’ la traduttrice italiana delle opere di Anita Nair. Studiosa di folklore e tradizione orale irlandese, ha curato l’edizione italiana delle Fairy Legends and Tratitions of the South of Ireland di Thomas Crofton Croker (Neri Pozza, 1998) e quella anastatica dell’originale (The Collins Press, 1998).  Autrice di saggi, testi narrativi e poetici, nel 2012 ha vinto il Premio Teramo. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese (Carteggi Letterari Edizioni) e la raccolta di racconti Fiabe d’amor crudele (Edizioni La Gru, 2013). Nel 2017 è uscita come libro d’arte la plaquette Bestiario (NeroCromo Edizioni)

 

 

IL MINOTAURO

 

Io mi sono perduto in quest’abbaglio

Di terra e pietre il cui disegno esatto

Mesce follia e ragione.

Io nacqui alla vendetta che mia madre

Pasifae – tacque agli dei. Il mio nome

È Asterione e pur del nome m’hanno depredato.

Ma io divino sono

Ché in me riverberando

L’impronta della luce di Elio

Si fa bestiale traccia dell’origine

Tutta della stirpe dell’uomo.

Dio e bestia io sono

E questo mi fa mostro – ché gli dei mi esiliarono

Per non vedere in me  il loro volto invisibile

E gli uomini al pari m’hanno esiliato

Che non ricordi al loro sguardo cieco

Ciò che di loro appare.

Fu così che Minosse – figlio di Zeus –

Che mia madre insultò con la sua immonda copula

M’ha fatto prigioniero nel Palazzo della Bipenne.

Non mi vuole vedere – perché è in me

Che si specchia la sua colpa – la sete di potere

Che gli rese nemico Poseidone.

Io da un toro divino sono nato

Sorto dall’acqua come segno di un dio.

Ma forse solo un’ombra o un’illusione

E dunque sono figlio di un sortilegio.

Di un  inganno illusorio porto la forma

Ombra del buio che sorge dalla luce.

Io sono ciò che siete –  la vostra doppia natura

Non la volete vedere in questo specchio.

Vago in questo palazzo chiuso alla vita

E l’ira mi divora – l’ira per l’ingiustizia

Dell’esser nato da un dio per poi dover morire

Da bestia immonda – da voi tutti odiata.

Non volete vedere ciò che si cela dietro l’apparenza

Di mostro – del mio corpo di uomo

Dalla testa di toro. Eppure un dio in me

Si manifesta. Elio – il padre di mia madre

Febo che fende i cieli col suo carro di fuoco

E cancella i terrori che genera la tenebra.

La luce brucia e annienta i demoni del buio

L’oscurità si scioglie – si dissolve

Abbagliando l’aurora – emerge dalle ombre.

Io sono quella luce – quel bagliore accecante

Che voi fuggite e mi negate la vita.

E siete voi la tenebra della menzogna.

Minosse ha raccontato che io divoro vergini

Per soddisfare la mia fame immonda –

Eppure non è questa la verità.

È la sua fame di potere che si cela dietro l’inganno.

Io sono puro dal sangue innocente

E le mie grida di cui tremano i muri

Di questo odioso labirinto sono le grida

Dell’ingiustizia che nessuno ascolta.

Si prepara l’inganno della mia morte

Il sacrificio che vi libererà dalla paura.

Mia sorella Arianna – la traditrice

Colta dalla follia d’amore per Teseo

Accecata dalla lussuria per questo scellerato

Lo condurrà nel labirinto perché mia dia la morte.

E sarà questo che a voi verrà narrato.

Questa menzogna livida e spietata.

Ma il mio padre divino – il toro equoreo sorto dagli abissi

Ha infine accolto la mia preghiera

Il mio urlo spezzato e quando Teseo con l’inganno

Seguendo il filo rosso di sangue che Arianna

Gli tendeva illudendosi che l’avrebbe legato

A lei per sempre – quando Teseo mi vide

Rabbrividì e snudando la spada

Mi  trafisse vigliaccamente

Ecco che dal mio corpo di mostro

Con fatica la mia forma divina

Sgusciando come un serpe dalla pelle

Lentamente sorse ed emerse dalla sua spuma oscura.

Libero dalla gabbia del mio aspetto bestiale

Il mio corpo s’abbaglia del  suo stesso nitore.

Traluce la mia forma che ondulando – rappresa in luce –

Diafana oscilla in una danza sacra nel liberarsi.

Io – Asterione – figlio degli astri

Libero emergo dalla morsa della mia pelle

Di animale divino e divino

Figlio della Luce libero infine

Abbandono la spoglia di quel che fui

Di quello che voi siete – vostro eterno tormento –

Ombra del buio che sorge dalla luce.

Ed io luce dal buio sorgo – immortale.

 

(6 novembre 2007)

Circolarità

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Non credere mai che il destino sia qualcosa di più di una condensazione dell’infanzia.

Reiner Maria Rilke

E, mentre trascriveva quel testo di cent’anni prima, lo vedeva com’era allora: il giovane biondo, i capelli ben ravviati all’indietro pur senza riuscire a disciplinare piccole ondulazioni, come tentasse di tenere a freno la voglia di libertà, di esplorazione, di fuga. La fronte alta, il naso diritto, sulla bocca appena curva nell’accenno di un sorriso, gli occhi un lago di una ironia malinconica. Lo vedeva curvo sui libri, dimentico d’ogni cosa, inebriato dallo studio del poeta che avrebbe sempre amato, fino alle soglie della morte, e in cui – ne era certa – si era identificato. Come si fosse guardato in uno specchio e avesse visto l’antica immagine sovrapporsi alla propria. Non l’avrebbe potuto capire così profondamente senza quella saldatura.

Certo non avrebbe mai immaginato, allora che aveva vent’anni, che un secolo dopo lei  avrebbe trascritto, con strumenti che al suo tempo nessuno avrebbe mai nemmeno potuto sognare, quelle pagine battute a macchina con la sfumatura violetta della carta carbone, e nelle quali aveva trasformato in studio e analisi di quel poeta i suoi propri dolori, i suoi propri affetti e timori e ardori, le sue proprie speranze e la sete di vita, cercando di oggettivarle attraverso la storia di un’anima non dissimile dalla sua. Lei, che il ragazzo di vent’anni ancora non sapeva sarebbe esistita un giorno e che così tanto gli somigliava. Com’è creativa la vita, quando decide di ripercorrere sé stessa pur in forme nuove. Come sa rendere indietro, anche se con mezzi inattesi, quel che apparentemente ha tolto.

Lei non aveva dimenticato quella volta a Roma, vicino a Torre Argentina, quando lui le aveva detto, quasi sottovoce: “Da ragazzo abitavo qui”, indicandole un vecchio edificio dall’aria tetra. Di come, nei suoi occhi, avesse letto la solitudine di quel ragazzo ch’era stato, la povertà, la nostalgia della sua terra, lo strappo dagli affetti che lo tenevano saldo, ancorato. Tutto era rimasto ancora mai risolto, in un angolo segreto dell’uomo adulto, che affascinava gli uditori con la sua parola e la sua sapienza. In quell’angolo dove si rannicchiava il figlio senza padre, l’orfano, l’abbandonato. La ferita che nelle lettere violette battute a macchina aveva riconosciuto e pianto nel poeta che amava, non era mai guarita in nessuno dei due. In quel primo studio aveva descritto, in buona parte inconsapevolmente, il proprio futuro. La storia di quell’anima di poeta gli raccontava, gli indicava, la sua. Lo metteva in guardia dalla sua. E a volte, contro questo mostrargli del poeta una nascosta verità, si ribellava, e pareva volesse negarla. Perché era sempre verso la luce – fin dall’inizio della sua vita – che il suo sguardo era diretto. Lei sapeva che, molti anni dopo, avrebbe iniziato a vedere l’Ombra che il poeta gli indicava. E perciò quel poeta gli avrebbe tenuto la mano fin sull’ultima soglia.

E ora, ad ognuna di quelle parole che trascriveva, lei tornava indietro a quei primi anni che lo avevano formato, che le erano sconosciuti ma che stava ritrovando in ogni lettera, in ogni frase. Mai lo aveva sentito tanto vicino, quasi fisicamente, poiché quelle pagine che lei toccava le aveva toccate anche lui, vi aveva aggiunto correzioni a penna o a matita. Poteva sfiorare l’inchiostro e seguire le lievi curve e le più numerose impennate di quella scrittura. Poteva immaginare la vista dalla finestra al quinto piano, di un’estate e un autunno romani, su cui lui aveva sollevato gli occhi di tanto in tanto per riposarli. Poteva immaginare il ticchettio dei tasti sulla macchina da scrivere, il trillo del rullo quando andava a capo. Gli occhi che, come quelli di lei ora, ripercorrevano il testo e si soffermavano per aggiungere una parola, una virgola, o cancellare con un tratto di matita un errore o una frase ridondante. Poteva immaginarlo desiderare di visitare la casa del poeta, i paesaggi che ancora non conosceva, ma poi avrebbe visitato tante volte, e che però già vedeva con gli occhi della mente.

Quelle parole pensate un secolo prima e che erano state preludio a una carriera di studioso e di accademico noto in tutto il mondo, ma che mai erano state lette se non da chi allora doveva giudicarle, tornavano a respirare, a vivere e a parlare. E, via via che andava trascrivendo,  lei capiva che farsi mezzo perché questo avvenisse, non era un capriccio del caso, ma un disegno voluto, un atto dovuto di consapevolezza, anche se tardiva. La sua e quella di lui. Ma tardiva solo per il tempo illusorio in cui tutti viviamo. Nella dimensione ciclica in cui tutto ritorna, sotto forme diverse e inattese, era quello il tempo assegnato, in cui ogni cosa doveva compiersi secondo la perfetta armonia degli eventi.

©by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA