Alicia Gallienne. L’altra metà del sogno mi appartiene.

Ma i tuoi sono ancora più puri

Di giorni e di notti.

I tuoi occhi aperti,

Li amo più e ancor più

Di quanto mai parrà…

Nel conforto della saggezza delle lune abitate,

Non ci sono per me rifugi migliori

Dei tuoi occhi dove sempre mi ritrovo,

Senza aver mai niente da chiedere.

Nel leggere il saggio introduttivo di Sophie Nauleau, io ho pianto a dirotto. Non per la tristezza di una vita falciata tanto presto, non per la tragedia di sapere comunque che quella vita che vivi avidamente presto terminerà, ma per il fulgore che Nauleau ha saputo trasmettere di questa donna/bambina che ha la saggezza di un’antica sacerdotessa e la sapienza di una figura angelica. Alicia, “che nel suo nome ha molte ali”, è la testimone che la lunghezza di una vita non si determina in anni, ma in esperienze vissute e in ciò che dietro di noi lasciamo.

Da giovane Carlo Diano ha scritto, pensando evidentemente a creature come lei: <<Nascono talvolta delle creature nelle quali pare che, per una sovrumana specialissima grazia, l’universo si sia compiaciuto. Non sono esse circoli chiusi di intelligenza e senso, ma restano attraverso ogni fibra della loro vita attaccati all’essere del mondo. Come quei prismi che tutti i lati raccolgono e rinviano la luce e l’immagine, così esse in sé riflettono con la mente le vicende delle cose, l’eterno. A differenza degli altri mortali la loro sensibilità non è circoscritta alle cose, ma per una aerea simpatia giunge nelle profondità misteriose dove si origina la vita. Sono queste creature come la parola incarnata dell’universo, esse esprimono nel rapido abbagliante raggio della loro esistenza, il significato eterno delle apparenze sensibili. L’anima loro non ha passioni, né tragedie, né convulsioni, piena dell’eterno scorre sulle cose come un’acqua montana che s’affretta all’oceano, né può lo spettacolo delle più lussureggianti rive trattenerle. Di rado esse s’incontrano. Ma quando ciò, per misteriose, sapienti leggi accade, allora tutto il chiuso ardore delle anime loro si muta in altissima fiamma che illumina il mondo.>>

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(C) 2023 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Forma – una poesia inedita di Neal Hall

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E’ con grande gioia che condivido una poesia, ancora inedita,  che Neal Hall ha scritto solo qualche giorno fa durante il suo soggiorno italiano. E’ una poesia importante, una dichiarazione di poetica, in cui Hall riflette sul valore e sul senso della Forma per l’artista: non una limitazione o una costrizione, ma la via aurea verso la libertà creativa.

Neal Hall, riconosciuto come uno dei maggiori e più originali poeti americani  viventi, sarà a Padova il 21 aprile per un incontro pubblico organizzato in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova.

F.D.

 

Forma

 

è questa crisalide –

questo crogiuolo che mette

ali alle farfalle per volare

 

questa cisterna di fiumi

che schiude mari

 

la pula da cui le granaglie

macinate vengono liberate

 

questa cista da cui l’eternità si solleva

 

la forma è disciplina,

crogiuolo grazie al quale

perdiamo la costrizione della forma

 

la forma è la via che apre i mari

la via d’uscita dalla crisalide

 

è la disciplina della forma

quella foggia di bocca

che libera le labbra per baciare

oltre la foggia di labbra e bocca

 

è il latte del seno

non il seno materno

che ci nutre, ci forma, ci fa liberi

dal seno materno

 

la forma è la via d’uscita dalla forma,

la ferrovia sotterranea

non la destinazione che libera

l’artista dai binari della via

 

forma è percorso verso il non formato,

l’essenza dell’essere; il crogiuolo che mette

ali alle farfalle per volare

in mare aperto

 

 

 

 

Form

it is this chrysalis –

this crucible that sets

wings to butterflies to fly

this cistern of rivers

that opens seas

the chaff from which ground

grist of grain are freed

this cist, eternity lifts itself out of

form is the discipline,

the crucible through which

we lose the constraints of form

form is the way to open seas,

the way out the chrysalis

it is the discipline of form,

that shape of mouth

that frees the lips to kiss

beyond the shape of lips and mouth

it is the breast milk

not the mother’s breast

that feeds us, forms us, frees us from

the mother’s breast

form is the way out of form,

it is the underground railroad

not the destination freeing the

artist from the rails of the road

form is the path to formlessness,

the gist of being; the crucible that sets

wings to butterflies to fly

through opens seas

 

(C) Neal Hall e Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

James Harpur – Voci del Libro di Kells – traduzione di Francesca Diano

Libro di Kells, pagina del X Rho

Libro di Kells, pagina del X Rho

                JAMES  HARPUR

 

             Voci del Libro di Kells

 Traduzione di FRANCESCA   DIANO

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Sono da anni, da quando l’ho scoperto in Irlanda, innamorata della poesia di questo grandissimo poeta, e di suo ho tradotto vari testi. Per la Giornata Mondiale della Poesia ho deciso di rendergli omaggio pubblicando la mia traduzione, in anteprima assoluta per l’Italia, dato che nulla di lui è mai stato da noi tradotto, del suo lungo poemetto sul miracolo di sconvolgente bellezza che è il Libro di Kells. Questa, L’Orafo, è la prima di quattro parti che compongono l’opera.

Harpur è nato nel 1956 da genitori angloirlandesi e da alcuni anni si è trasferito a vivere  nella Contea di Cork a Clonakilty. Ha compiuto studi  classici, approfondendo soprattutto la storia e la letteratura irlandese ma anche latina e greca  dei primi secoli del cristianesimo e ha soggiornato per lunghi periodi sull’isola di Creta, ambiente che ha ispirato molte delle sue opere. La sua è una delle voci più originali, colte e intense della poesia irlandese contemporanea in lingua inglese e, non mi parrebbe eccessivo dire,  della poesia europea, non solo per la cultura vastissima, per  l’originalità della sua voce, ma per  i temi che tratta, che spaziano dall’Irlanda celtica, a quella protocristiana, al declino del mondo classico in occidente, alla contemporaneità. Ha pubblicato  varie raccolte di testi poetici con la prestigiosa Anvil Press e una meravigliosa traduzione di Boezio, che ha intitolato Fortune’s Prisoner. Ma traduzioni ha pubblicato anche da Dante, da Virgilio, da Tagore, da Eschilo, da Plotino  ecc.

Interessantissimo è l’uso della metrica, che spesso è quella classica; trimetro giambico, distico elegiaco ecc.

Da A Vision of Comets, a The Monk’s Dream, da The Dark Age a Oracle Bones a Voices of the Book of Kells, le sue raccolte  poetiche gli hanno guadagnato moltissimi riconoscimenti e premi. Nel 1995 ha ricevuto the British National Poetry Prize, borse dalla Cork Arts, dall’Arts Council, dall’Eric Gregory Trust e dalla Society of Authors. Nel 2009 ha vinto il Michael Hartnett Award. E’ direttore della sezione poesia  di Southword, uno dei più importanti e autorevoli  periodici letterari irlandesi e del Temenos Academy Review.  È stato poeta residente per il Munster Literary Centre e la Cattedrale di Exeter.

La sua è una poesia dalla voce forte e potente, che getta una luce del tutto nuova su un’epoca poco frequentata e sui santi irlandesi dei primi secoli dell’era cristiana, su figure di primi asceti cristiani o di aruspici di Siria e d’Egitto, su figure pagane dell’Irlanda che sta per divenire cristiana, su personaggi, temi e aspetti di diverse tradizioni e culture, ma che tutte appartengono a quei secoli insomma critici e di passaggio dal mondo antico al primo Medio Evo. Ma non mancano temi più personali e intimi, che lo vedono muoversi nell’Irlanda contemporanea. È una poesia fortemente impregnata di misticismo, dunque molto irlandese, ma un misticismo che ha una profondissima connessione con la modernità. Il travaglio del passaggio da un’epoca a un’altra infatti è l’eco del nostro, le domande  che torturano i suoi asceti, cristiani e pagani, i dubbi che attanagliano suoi uomini, i suoi indovini, i suoi monaci, sospesi tra un mondo e un altro, sono i nostri, la fine drammatica  di un’epoca che si avvia incerta verso l’ignoto è la nostra.

Ho da anni l’onore di un rapporto epistolare con James Harpur, che presento in anteprima assoluta per l’Italia per la Giornata Mondiale della Poesia e ho avuto da lui il consenso a tradurre e far conoscere la sua opera in Italia. Presento dunque oggi la prima parte del lungo poemetto Voices of the Book of Kells . Mi piacerebbe che questo grandissimo poeta irlandese, molto noto e giustamente celebrato, ma da noi sconosciuto, potesse trovare un editore.

AGGIORNAMENTO 2022

Dopo quanto ho scritto sopra, sulla rivista Poesia  di Crocetti è apparsa una breve antologia a mia cura dei suoi testi poetici e nel 2017 è uscita la traduzione del lungo poemetto San Simeone Stilita. Un primo passo è stato almeno fatto.

Francesca Diano

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Storia del Libro di Kells (di James Harpur)

 Il Libro di Kells è stato associato almeno a tre luoghi: Iona, Kells e Dublino. Alcuni ritengono che fosse proprio il Libro di Kells che  Giraldus Cambrensis  vide a Kildare alla fine del 12° secolo. Ma chi  creò il libro e dove, rimane tuttora un mistero. Ora molti studiosi pensano che sia stato iniziato, se non condotto a termine, nel monastero irlandese di Iona, prima di essere portato nel monastero fratello di Kells  dopo l’incursione vichinga dell’806. Rimase probabilmente a Kells negli otto secoli successivi e infine, a metà del 17° secolo,  venne trasferito al Trinity College di Dublino, dove è ora esposto.

Il Libro di Kells è un luogo di poesia divina, scritta e visiva e, soprattutto, da una moderna prospettiva, l’archetipo, o il santo patrono di ogni libro. In ogni pagina vi si dispiega un senso di devozione amorevole, di concentrazione e maestria – è chiaro che il libro fu fatto per durare. È anche un libro di sorprendente tensione; il gusto visionario per la totalità si unisce all’ossessione per il dettaglio; il grandioso formalismo statico delle miniature a tutta pagina è bilanciato da spirali vorticose, intrecci nastriformi e fogliame, gatti birichini e topi, lontre e pesci che saltellano in angoli nascosti. Questo  libro suscita in ogni scrittore delle domande fondamentali sull’arte; il suo rapporto con l’ispirazione; la moderna preoccupazione per l’ originalità e la voce individuale; lo scopo dell’arte sacra e il suo rapporto con la  funzione dell’arte laica o con l’arte in un’epoca laica; la natura dell’immaginazione; la possibilità o meno di rappresentare in forma visibile la verità ultima, ecc.

Premessa di James Harpur  

Il poemetto è diviso in quattro parti. Ciascuna è costituita da un monologo pronunciato da un personaggio storico associato a un luogo specifico: L’Orafo (un miniatore), è associato all’isola di Iona; Scriba B (un amanuense), a Kells;   Giraldo di Cumbria a Kildare; Lo Scribacchino (uno scrittore moderno) a Dublino. Oltre ad essere imperniata su una ‘voce’ e un luogo specifico, ogni sezione si concentra su di una particolare miniatura del Libro di Kells, sulla sua immagine e sui suoi riferimenti, il tutto intessuto nella trama della narrazione. I metri e i ritmi dei versi riflettono, in certa misura, il carattere dei diversi personaggi. Ad esempio, la voce tagliente dello Scriba B è resa con un trimetro giambico ridotto e leggermente spezzettato (scazonte), mentre il raffinato ed esuberante Giraldo si esprime in pentametri pieni ed estesi.

Prima Parte. L’Orafo (Iona, AD 806)

 Nella prima parte compare un miniatore anonimo che lo studioso francese del Libro di Kells, Françoise Henry ha soprannominato l’Orafo, per la sua predilezione per l’orpimento, il pigmento minerale usato per rappresentare l’oro. L’azione si svolge a Iona, poco prima di una devastante incursione vichinga. L’Orafo racconta di come sia arrivato a Iona nel tentativo di salvare la propria vita spirituale dal lassismo di un monastero irlandese e dell’onere di creare ciò che poi diverrà (nella realtà) la famosa pagina del Chi Rho. La sua è la tensione di ogni artista; la pagina o la tela bianca rimane l’eccitante regno del possibile, dell’infinito, fino all’istante in cui il primo segno di inchiostro o di colore riducono l’astrazione del pensiero e del sentire entro i confini del mondo materiale finito. Ed in questo sta il paradosso: la spinta a creare e tuttavia la delusione di non essere in grado di rappresentare la vastità e la ricchezza del sogno. Allo stesso tempo, l’Orafo si strugge sul ruolo che ha come miniatore: è l’opera della sua vita, dedicata a Dio…ma che accadrà una volta che avrà completato il suo ultimo dipinto? Che ruolo avrà allora agli occhi di Dio? Questa  parte esplora queste tensioni, che giungono al culmine quando infine l’Orafo si impegna nella sua opera più grande: la pagina del Chi Rho.

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Pagina del X Rho, particolare

Pagina del X Rho, particolare


 

 

KELLS

 

 A Francesca Diano, con profonda gratitudine e affetto

Per dipingerti, o Vergine, più stelle che colori si dovrebbero usare,
così che tu, o Porta della Luce fossi dipinta nel tuo sfolgorare.
E tuttavia le stelle non obbediscono a voce mortale.
Dunque noi ti tracciamo e  dipingiamo con ciò che ci può offrire la natura
 secondo le regole che chiede  la pittura.

Costantino Rodio, 9° sec.

Il grado in cui la bellezza è effusa  nel penetrare  all’interno della materia,  è tanto più debole di quanto  sia concentrata nell’Uno.

Plotino

A questa mèta noi tendiamo mentre siamo ancora pellegrini e non ancora arrivati nella stabile dimora, mentre siamo ancora in cammino e non ancora nella patria, ancora spinti dal desiderio, non ancora nel godimento.

                                                                                              Sant’Agostino. Sermone 103

 

 I

 

 L’Orafo

Libro di Kells, Folio 34r Matteo 1.18 Chi Rho

 

 

Christi autem generatio sic erat…
Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo…

Matteo 1. 18

Françoise Henry ha definito il primo e più grande (degli artisti del Libro di Kells) “l’orafo”, perché il suo uso del giallo e dell’azzurro argenteo… evoca l’idea del metallo.

                                                               Bernard Meehan, The Book of Kells

 

 

 

 

La sera deviava la barca

da Mull verso Iona,

un viaggio eco di un grido,

ed io scrutavo l’acqua nel profondo

con l’attenzione di un cercatore d’oro.

Dietro, si levava Dalriada[i]

in monti accesi d’erica, frontiera

di un regno d’ombre.

Alla ricerca di tracce di Columba[ii]

nulla avevo trovato se non pietra

nell’abbazia sferzata dal nevischio,

lastre tombali che andavano in rovina,

l’alloggio grigio ardesia

di vedovo silenzio, fulgore senza rete.

Nessun indizio sui sentieri costieri,

o sulla ritmica erba collinare

e il ginestrone del machair[iii];

o nella “baia del coracle”

dove Columba vide finalmente

che era invisibile l’Irlanda;

o sull’altura di Síthean Mor[iv]

dove un cerchio di angeli apparve

mentre pregava solo in ginocchio

e carezzarono l’aria

con le ali pulsanti, un oratorio

di cigni, che in un alone discendono.

*

Di rado giungono a meta i pellegrini:

i loro santuari scintillanti

non contegno che ossa, gemme,

e santi di cera. Riprovano

come se il viaggio fosse meta

a sé stesso, la prova generale della morte.

O mossi da intuizione

di un ricordo spirituale sepolto,

camminando verso cappelle, sorgenti

o fonti, imitano il percorso [v]

d’ogni cosa creata che ritorna

all’increata origine:

la Fonte

della luce in eterno fluente

che emana forme, o modelli,

da cui deriva il nostro mondo –

cerchio di cosmico exitus,

poi terreno redditus

I pellegrini seguono trame di percorsi

e ippovie e strade sterrate,

strade romane e viottoli tortuosi;

sfidano fiumi, laghi,

costeggiano paludi, torbiere,

ma la loro visione è sempre diritta,

diretta dalla volontà di raggiungere

una precisa mèta redentiva.

Tuttavia cosa accade quando osiamo

essere audaci come peregrini

monaci che abbandonano i remi

lasciando che lo spirito nel vento

li guidi lungo il loro viaggio?

Come s’affidarono i Magi ad una stella

o Columba nel suo esilio sul mare

fu diretto da vento e onda fino a dove

trovò la sua Casa,[vi] un approdo

da cui casa era ora invisibile.

*

Attico in un castello scozzese,

Hawthornden,[vii] lontano un mondo;

ho della carta, una cartolina –

in cui tento di decifrare

Christi generatio

e voglia di scrivere. Ho il vuoto,

come affrontassi un esame

con domande in inchiostro bianco.

Attraverso la finestra sulla torre

guardo un torrente spumeggiare verso est,

giunchiglie piegate dalla neve,

scheletriche scritture d’alberi.

Aprile è rigido in linfa e cellula.

Son mesticato per la “trance poetica”

ma le pressioni della volontà

hanno ancora fallito nel far sì che il silenzio

scenda e riluca, come il sole che sorge

prima che emerga la terra

dalla notte, e gli uccelli son pronti

a rompere l’attesa

e sciogliere versi di lode

all’auctorem regni caelestis.

La carta sul mio tavolo

resta un foglio di ghiaccio.

Respiro profondamente; il ritmo

mi fa ritrarre strato dopo strato

come il sussurrato ripetere

della Preghiera di Gesù,

uniforme quiete marina del respiro…

il vetro della finestra è una cornice

di potente scialbore –

fisso lo sguardo lascio giungere Iona:

una figura sfocata, in controluce,

un monaco, una cella, un leggio da scrivano.

Fa la punta a una piuma,

mormora all’ovattato oceano:

“Signore guidami, dirigi la mia mano, la scelta dei colori.

E dimmi: dovrò ispirarmi a una sembianza umana,

o a qualunque sembianza sia nel mondo?

Le mie dita son grigie e il naso congelato,

la volontà fiaccata da Esichio il Presbitero

che dice solo un cuore svuotato di immagini

può incubare la tua presenza.

Nel mio vellum[viii] è il sacro bagliore

dell’assenza: non linee, parole. Solo luce.

Come posso magnificare il Nulla?

Eppure cosa vi giace, in attesa di balzare

come delfini dal mare, liberi d’inalare

l’aria e gioire dell’esser senza peso?

O come viticci che si tendono al sole

robusti, che alcuno scopo ostacola?

Per fare la tua immagine dobbiamo guardarti;

per guardarti dobbiamo divenire come te –

ogni giorno preghiamo, digiuniamo, puniamo il nostro corpo

come fossimo bestie caudate di sterco –

ma siamo infatuati dei pigmenti e rendiamo

il vellum liscio come seta pura di Bisanzio –

nutriamo i sensi che dobbiamo annichilare.

Signore, devo dipingerti. Ma come?

In carne e ossa, una cosa che s’affloscia,

come farebbero i seguaci di Ario?

Oppure un balenio dello spirito – fuoco fatuo –

il fantasma dei Monofisiti?”

L’osservo mentre osserva il vellum

infliggere le infinite sue paralisi.

Penso: ‘Cristo’ non è una ‘persona’

ma energeia, lux fluens,

ininterrotto fluire di luce che muove

il sole e l’altre stelle[ix]

e semina quella sorta d’amore

che fiorisce quando il sé perde sé stesso.

Penso: Cristo non può essere dipinto,

solo il suo effetto sulla natura –

creazione ch’è stata fatta Cristo.

Voglio dire al monaco: Capitola!

Allora quel ch’è oltre la caverna

del tuo protetto piccolo sé

sciamerà dentro – come api sul trifoglio –

vorticherà come le ruote di Ezechiele –

la tua opera sarà un’arca – per leoni,

aquile, serpi ed angeli,

che si muovono invisibili tra noi –

e linee di luce cristica tutti noi collegheranno

insieme a livello dell’anima.

Non dico nulla. La sua mano è ferma.

*

I giorni gocciolano verso il disgelo,

i boccioli son più viscosi sugli alberi,

le giunchiglie spelano nel giallo

sull’orlo del burrone.

Sogno, ad occhi aperti sogno, vedo Iona

sulla mia pagina, il monaco immobile.

Una volta l’osservo dopo i Vespri

sulla White Strand[x], l’oceano

a cancellare un giorno di insuccessi.

Guardiamo la notte risigillare il cielo

con il buio, ed Orione emergere

sopra Dalriada, come se uno scrivano

stesse forando la pergamena cosmica –

la sua cintura di stelle silenziosa e lucente

quanto i Magi in ginocchio nella stalla.

Christi autem generatio.

   Lascia il mare ai suoi incessanti amen,

e fa ritorno all’onere

dell’abbazia, e alla rivalsa del sonno.

La sua cella è gelida come una caverna.

Inizia a pregare e a confessarsi,

lo sento nell’oscurità.

“Signore, mi manca la valle dell’Humber,

la luce tagliente dell’Anglia.

Iona va alla deriva sul mare, ed io son trasportato

dall’accidia alla melanconia.

Ogni giorno rivela i frantumi

della tua creazione; detriti, alghe,

funghi, muffe, foschia satanica,

la carne dolorante, il torcicollo.

Se la creazione non fosse che mestiere

mi basterebbe prendere il coltello,

praticare fori, tracciare linee, cerchi.

Ma ogni punto dà inizio ad una forma

che ho timore possa dileggiarti.

Cerco purezza in pigmenti macinati

per mondare il cervello dai pensieri.

E tuttavia temo che il vuoto della mente

sia lo specchio del vuoto della morte.

Come posso dipingerti Signore?

quali occhi, naso, bocca?”

Sento le sue parole e sento Plotino

scoraggiare un pittore di ritratti:

“È già duro sopportar queste fattezze

che mi furono conferite alla nascita.

Perché dovrei voler lasciare un’immagine

della mia immagine ai posteri?”

Mi concentro sul volto del monaco,

che cosa posso dirgli? …

Non dipingere l’aspetto delle cose

ma le Idee da cui sorgono –

non una rosa, ma la Rosa, in cui

una rosa sarà l’essenza

di ogni rosa; non celebrare il bello

soltanto, o solo quel che è santo e sacro:

includi il disgustoso, il marginale,

il deforme; e quando mediti

lascia avvizzire e perire i tuoi pensieri –

poi, in seguito, in silenzio, potrai scorgere

il divino in tutto quel che vedi:

il tuo pennello sarà la lanterna

che illuminerà il tuo sentiero

verso l’Immaginazione, i suoi raggi

di luce, come un flusso d’energeia,

annienteranno il velo tra il vedente e il veduto.

E lui, come assorto:

“Può il vellum esser casa per Cristo?

Può essere circoscritto da linee –

Colui che è come vento, oceano trascorrente

da un non formato a un altro non formato?”

Penso: dipingi il non formato – dipingilo

attraverso la forma; Cristo era spirito e carne,

e la pittura è incarnazione dello spirito.

Non pensare! Desisti – e il tuo pennello

catturerà lo spirito, solcherà

il mistero della tua pagina

e nei suoi abissi vedrà le ricchezze;

abbi fede; emergerà l’immagine.

Sembra lui voglia lanciarsi

dentro la pergamena intonsa, mentre

io sto per mettere mano alla penna –

insieme, forse, vedremo il Chi

inseguire la gioia nello spazio –

come a recare la notizia straordinaria

che la sorgente è sgorgata finalmente –

ma il nucleo di diamante permane immobile,

spioncino su un mondo ch’è oltre;

e ora si lascia dietro il Rho

schizzando lontano da lune e soli –

e si differenzia, e diviene.

[i] Antico regno goidelico che si estendeva dalle coste occidentali della Scozia alle coste settentrionali dell’Irlanda a partire dal V secolo. (N. d. T.)

[ii] San Columba, in gaelico Colum Cille, (Gartan, 521 – Iona 597) di nobili origini, giunse sull’isola scozzese di Iona, all’epoca parte del regno di Dalriada nel 563 e vi fondò un monastero, divenuto centro importantissimo di spiritualità e cultura. In seguito alle morti provocate dalla “Battaglia del Libro”, fece voto di autoesiliarsi e stabilirsi solo in un luogo da cui non fosse possibile vedere l’Irlanda. A bordo di un coracle, l’imbarcazione rotonda rivestita di pelli tipica dei popoli celtici e ancora in uso in Galles e in qualche luogo dell’Irlanda e delle Ebridi, sbarcò con i suoi pochi monaci in una piccola baia, Port a Churaich, che significa Baia del Coracle, oggi nota come Columba’s Bay.

La battaglia di Cúl Dreimhne, nota anche come “La battaglia del Libro”, fu uno dei primissimi conflitti conosciuti su questioni di copyright, nel VI secolo nella contea di Sligo. Secondo la tradizione, l’abate irlandese San Columba entrò in lite con San Finnian, dell’abbazia di Movilla, a causa di un salterio. Columba copiò il salterio nello scriptorium dell’abbazia di Finnian con l’intenzione di tenersi la copia, ma non di questo parere era Finnian. Il conflitto era dunque sulla proprietà della copia del salterio, se di Columba perché l’aveva copiato o di Finnian che possedeva l’originale. Il re Diarmait mac Cerbaill emise la sentenza che: “Ad ogni vacca appartiene il suo vitello, ad ogni libro la sua copia.”
Ma Columba non accettò il giudizio e istigò una rivolta del clan Uì Néill contro il re. La battaglia vide la vittoria della parte di Columba (che ovviamente si tenne la copia) ma pare abbia causato 3.000 morti. (N. d. T.)

[iii] Machair, letteralmente “pianura fertile”. È il termine gaelico con cui si indicano le verdi praterie dunose o con leggero andamento collinare esclusivamente tipiche di alcune zone costiere della Scozia, delle Ebridi, e dell’Irlanda nordoccidentale. (N. d. T.)

[iv] Il nome significa “la collina delle Fate” e si dice che lì Columba fu visitato dagli angeli. (N. d. T.)

[vi] In originale Home, dimora, il luogo cui apparteniamo, affettivamente connotato, distinto da house, la casa come edificio. In tutto il testo Harpur usa questo termine che ho tradotto “casa”, non essendoci in italiano un termine semanticamente corrispondente e distintivo. (N. d. T.)

[vii] Il castello del XV secolo, ampliato nel XVII, si trova a poca distanza da Edimburgo. Dopo vari passaggi di proprietà, è stato acquistato e restaurato negli anni ’80 dalla famiglia Heinz, quella dei famosi cibi in scatola, e trasformato in un ritiro internazionale per scrittori, che vengono ospitati per un mese. (N. d. T.)

[viii] Il vellum era la pergamena di qualità migliore e più costosa, ricavata in genere da vitellini o da capretti o vitellini nati morti, dunque molto morbida e sottile. Veniva lavorata lungamente per ottenerne un supporto alla scrittura perfettamente liscio, resistente e il più bianco possibile. In genere, da un animale usato per il vellum, si ottenevano tre, al massimo quattro fogli. Per il Libro di Kells è appunto stato usato il vellum. (N. d. T.)

[ix] In italiano nel testo. (N. d. T.)

[x] White Strand of the Monks è la bellissima spiaggia bianca di frammenti di conchiglie su cui avvenne la strage dei monaci dell’Abbazia di Iona da parte dei Vichinghi. (N. d. T.)

(C)by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Natali di Francesca Diano

Edward Burne-Jones - The star of Bethlehem

Edward Burne-Jones – The Star of Bethlehem, 1890

 

NATALI

A Carlo

 

Ovunque io vada non si tace il rito
Del tuo ritorno – il sacrificio della vita
Offerta per generare vita nella ripetizione
Che fa sacra l’immagine di te.
Germe di sole radiante  sfuma per te
La tenebra disciolta in corpuscoli di luce –
Se ogni nascita è una resurrezione
Così fu la tua – figlio – immagine pulsante
Di acque cosmiche  – un crogiuolo di stelle
Autorigenerantisi dal centro rovente di Sirio
Che è guardiano alla notte –
Ogni istante di un tempo digiuno di cesure
E’ Natale nell’abisso riverberante
Del tuo presente
Essere ed essere nella luce sono sinonimi –
Sostanza consubstanziata
I tuoi Natali .

(C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Séamus Heaney – Digging. Scavando. Traduzione di Francesca Diano

Séamus Heaney

Séamus Heaney

Séamus Heaney (1939 – 2013) era l’Irlanda. E’ l’Irlanda, perché i poeti non cessando di essere quando si conclude il loro passaggio sulla terra, non conoscono passato. Per chi li conosceva soltanto dalle loro parole, la loro voce seguita a parlare con la stessa chiarezza, e forse anche con forza maggiore.  Heaney è stato un poeta civile, perché un irlandese non può prescindere, nella ricerca della propria identità,  dalla storia sanguinosa della sua terra, ma la sua poesia attinge profusamente anche dalla tradizione e dal mito, perché un irlandese non dimentica mai che la storia è mito e che ogni irlandese è figlio di quel mito.

Nel 1966, Seamus Heaney pubblica la sua prima raccolta,  Death of a Naturalist, che segna il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, alla consapevolezza della sua scelta di essere uno scrittore. La prima poesia di quella raccolta è Digging. Le sue radici, lo scopo della sua vita, il senso della sua poesia, sono tutti già presenti e chiari nella sua mente. La penna è un’arma, un grimaldello, uno strumento con cui scavare per trovare “la buona torba”, come suo padre scavava la terra per le patate e suo nonno le torbiere. E patate e torba hanno significato la vita per gli irlandesi più poveri. Per dissotterrare la verità più profonda dell’essere uomo. Quella che gli antichi Celti chiamavano “la verità di un uomo”. Ed è per questo che ho scelto una sua foto che risale a circa quel periodo. Dai tratti del viso emerge la stessa determinazione di cui parla la poesia. La bocca è risoluta, ma non perde una morbidezza malinconica.

Il solo modo che ho per ringraziarlo di quello che ha significato per me e per moltissimi altri, è di tradurla.

SCAVANDO 1966  

Tra il mio indice e il pollice

E’ acquattata la penna; a proprio agio come una pistola.

Sotto la mia finestra un netto suono stridulo

Quando la vanga affonda nel terreno ghiaioso:

Mio padre sta scavando. Guardo giù

Finché la sua groppa tesa piegata fra le aiuole

Riemerge  indietro di vent’anni

China ritmicamente su solchi di patate

Dove stava scavando.

Il ruvido scarpone posato sul vangile, il manico

Contro l’interno del ginocchio che gli faceva da robusta leva.

Sradicava le cime, affondando con forza la lama lucida

Per sparpagliare le patate nuove che noi raccoglievamo

Amando quella fresca saldezza tra le mani.

Per Dio, la vanga il vecchio la sapeva usare,

Proprio come il suo vecchio.

Mio nonno poteva tagliare più torba in un sol giorno

Di chiunque altro nella torbiera di Toner.

Una volta gli portai una bottiglia di latte

Malamente tappata con della carta. Si drizzò

Per bere, subito poi tornò a darci dentro

Incidendo e tagliando in modo netto, lanciandosi

Le zolle alle spalle, scavando più e più a fondo

Per la buona torba. Scavando.

L’odore freddo di terriccio di patate, lo schiocco poltiglioso

Della torba bagnata, le nette recisioni di una lama

Attraverso radici vive mi tornano alla mente.

Ma io non possiedo vanghe per tener dietro a uomini così.

Tra il mio indice e il pollice

E’ acquattata la penna.

Con quella io scaverò.

Digging

  Between my finger and my thumb

  The squat pen rests; as snug as a gun.

Under my window a clean rasping sound 

When the spade sinks into gravelly ground: 

My father, digging. I look down

Till his straining rump among the flowerbeds 

Bends low, comes up twenty years away 

Stooping in rhythm through potato drills 

Where he was digging.

The coarse boot nestled on the lug, the shaft 

Against the inside knee was levered firmly. 

He rooted out tall tops, buried the bright edge deep 

To scatter new potatoes that we picked 

Loving their cool hardness in our hands.

By God, the old man could handle a spade, 

Just like his old man.

My grandfather could cut more turf in a day 

Than any other man on Toner’s bog. 

Once I carried him milk in a bottle 

Corked sloppily with paper. He straightened up 

To drink it, then fell to right away 

Nicking and slicing neatly, heaving sods 

Over his shoulder, digging down and down 

For the good turf. Digging.

The cold smell of potato mold, the squelch and slap 

Of soggy peat, the curt cuts of an edge 

Through living roots awaken in my head. 

But I’ve no spade to follow men like them.

Between my finger and my thumb 

The squat pen rests. 

I’ll dig with it.

(C) 2013 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Giorgio Linguaglossa – Blumenbilder

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Il nostro universo – si legge in alcuni testi sapienziali – è già tutto presente  nella sua estità e non vi è evoluzione se non apparente. Passato, presente, futuro sono categorie, o meglio illusioni, create dall’uomo per dare un senso a quanto in apparenza e in loro assenza, non ne avrebbe. La realtà è come  la pellicola di un film. Noi ne vediamo solo un fotogramma, che è la realtà in cui ci muoviamo. Ma la pellicola di un film contiene già tutta la storia, tutta  contemporaneamente presente, che tuttavia risulta inconoscibile  se se ne considera un unico fotogramma. E’ questa esattamente la percezione che ne abbiamo.

La nostra difficoltà nel vedere “l’intero”, la totalità e la nostra condanna  a doverci affidare all’esperienza – vale a dire all’illusione – è tutta qui.

Due sono gli strumenti che possediamo per superare, o aggirare, questo impasse: l’arte e la percezione del Sacro. Perché sono le due dimensioni in cui l’Essere esiste come Forma, come assoluto. Anzi, l’arte tende al Sacro. Poiché “tutte le arti tendono alla parola e la parola al silenzio.”

In quella sfera il tempo nel suo scorrere eracliteo non esiste e i dormienti si destano. E’ in questo stato dell’essere che davvero “vediamo”.  E qui l’assolutamente discreto coincide con l’assolutamente continuo.

Come dice Carlo Diano: “Unità che risolve le parti e ne eleva l’organicità a totalità, dalla sfera analitica della ragione a quella intuitiva dell’intelletto sfera nella quale esse si compenetrano pur rimanendo se stesse come le idee nel kosmos noetos di Plotino, e fanno ciascuna rispetto all’altra da centro e da limite. Unità che è propria della coscienza e fa del corpo spirito – L’unicità a sua volta risolve in sé lo spazio e fa della cosa un assoluto = l’essere di Parmenide –” (Appunti per Forma ed evento, 1950-51)

In Blumenbilder,Natura morta con fiori ( Introduzione di Andrej Silkin, Passigli 2013) come nel successivo (in ordine compositivo) Paradiso,  Giorgio Linguaglossa non isola il fotogramma, ma lo assolutizza e ne fa un archetipo. Un simbolo del tutto. Che la visione sia quella dell’assolutamente continuo è cosa già presente nella struttura che lega le diverse parti. Ciascun testo inizia con puntini di sospensione e i punti fermi sono, dall’intero testo, completamente banditi. Perché non esiste interruzione  del Discorso.

Il tutto si svolge in uno spazio plotiniano – che mi ha molto ricordato la stanza luminosa in cui giunge alla fine del suo viaggio l’astronauta nel film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio. Un luogo che è l’universo intero. Un universo che si ripiega su se stesso. Questo universo è il salone di una  casa, in cui si muove l’elusiva Dama dai capelli purpurei (la porpora imperiale)  e dai multiformi aspetti insieme  ai multiformi aspetti in cui si manifesta il suo compagno/amante. E’, del resto, una Natura morta quella di cui parliamo.

“Sono trascorsi venticinque anni dalla stesura  di queste composizioni. Ora esse sono defunte veramente. Adesso soltanto posso consegnarle ai lettori perché sono parole morte di un autore anch’esso  scomparso tanto tempo fa da rendermelo, oggi, ad un tempo, familiare ed estraneo, irriconoscibile e intimo…”, sono le prime parole di Linguaglossa  che introducono la bella presentazione di Andrej Silkin.

Appunto, parole morte. Come, se non quando tutto si è compiuto, si può mai  attingere a quel luogo misterioso in cui si forma la Parola, poetica e creatrice? Come, se non nell’incommensurabile distanza di un’assenza  è possibile vedere e poi de-scrivere quel che è invisibile nell’immediatezza dell’esperienza, cioè il simbolo?

L’ho detto già altrove, la poesia di Linguaglossa è una poesia aristocratica, molto lontana dalle mode italiane correnti. A differenza di chi crede che per scrivere qualcosa di nuovo oggi si debba infarcire i propri testi di quella koinè ignorante e limitata oltre che becera, pensando che così si suoni dissacranti o “moderni”, ma in realtà ci si mostra solo del tutto digiuni di ogni tecnica o esperienza  di cosa davvero significhi scrivere poesia, questa  è davvero una poesia rivoluzionaria. Per i motivi cui ho accennato, ma anche per la sua estraneità all’Italietta poetante e asservita alle mode.

Perché questo sulfureo Canzoniere, questo poema circolare, che coniuga incredibilmente  D’Annunzio, Bisanzio (non dimentico mai, nemmeno per un istante, che Linguaglossa vi è nato) il simbolismo russo, Aleksandr Blok, un manieroso  700 rivisitato nelle illustrazioni degli anni ’30, il Dark Gothik  e Guido Gozzano, non altro è che uno di quei rari accessi al magma in cui si generano miti e simboli.  Difatti le immagini traboccano con violenza o tenerezza, di colori, di odori, di travolgimenti e fra le trine e le parrucche scorre un rivolo di sangue rappreso. Io non ci vedo affatto un’allegoria della morte, né tanto meno del tramonto, ma un ordinato universo self-contained, autonomo e indipendente.

Il linguaggio è sempre, come altrove in Linguaglossa, potentemente visionario e generatore di visioni. La ricca bizzarria di quelle visioni  può essere resa solo con la scelta di termini obsoleti, preziosi, rari, ed è in questo mosaico di tessere d’oro, di lapislazzuli, di malachite, di pietra di luna, di ambra e sardonica che si consuma un dramma solo apparente. Poiché non può esservi dramma fuori dell’evento. Tutto nasce e s’annulla nel sorriso  della Dama, che apre e conclude, in un eterno ritorno, lo spazio di Blumenbilder

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… non scacciare le figurine della mia insonnia

non lo consente la lingua degli dèi

sul davanzale della finestra sfioriscono le viole

bruciate dal gelo invernale…

il tranquillo terrore

del tuo guardinfante che volteggia leggero

al notturno di Chopin, mi turba…

noi ciechi di ebrezza e dissipazione amiamo

il nitore del passo marziale e l’insonnia,

la corona dei tuoi capelli purpurei lentamente

ondeggia sulle nude spalle come una caravella

con tutte le sue alberature…

non chiedermi la parola che ti possa salvare

in questa notte di pioggia e di tedio regale

assopita sul guanciale del mio feroce sarcasmo

sono assetato di immoralità e immorale

ho indosso il costume screziato del pesce

e mi smarrisco tra le tue squame azzurre

e ti guardo come il piccolo Manuel Osorio De Zuniga

guarda l’infinito dal fondo del ritratto

di Francisco Goya…

la forbice degli anni allontana i tuoi capelli

dai miei occhi vitrei, il tremore si irrigidisce

sul fondale dell’apparenza, sul crinale dell’aria

non chiedermi se in questa notte di ardori,

come i figli di Cheope, narrerò al sovrano,

per tenerlo desto, la storia dello scriba nel

palazzo invernale, del tradimento dell’amata

e della vendetta che ne seguì…

ho indosso l’abito dell’erba

che resiste al vento e alla pioggia…

sotto il gran candeliere delle stelle ci siamo noi

mia amata: arsenici, prussici

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… questa stanza è una rete di immagini…

la porta socchiusa e le finestre

ermeticamente sprangate; i divani,

le consolle hanno una posizione neutrale…

v’è una parentela fra i tendaggi

e i linguaggi della polvere, ragnatela di collisioni

incompiute… i diaframmi delle immagini

riflettono l’indistinzione del mio occhio vitreo…

come per il cieco la notte è già un vedere

così esiste un ecosistema delle immagini,

una cronistoria delle immagini isotopiche

è già esistita…

la nostra angoscia assume la forma

d’un pallone invisibile che ci palleggiamo

con le nostre mani inadatte a dei lavori

servili…

le tue mani così inabili

a impugnare le cesoie del giardiniere…

(C) Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Stefano Bellin – Mari e papaveri

 

Poseidone doma i cavalli marini

 

Ho incontrato Stefano Bellin sul filo della poesia di Carlo Diano. E’ stata  una bellissima sorpresa, perché Bellin, pur molto giovane, ha già una lunga  vita alle spalle, fatta di studi di filosofia e di arte, di esperienze all’estero, di scrittura e di poesia. Quando mi ha mandato questi quattro testi ho deciso  di pubblicarli sul mio blog perché ci sento una profonda consonanza con un linguaggio poetico che mi è familiare. Soprattutto è un linguaggio poetico  non scontato e non frequente oggi. Classico nel senso del sostrato culturale da cui nasce, ma non invischiato negli schemi classicisti. Questo lo rende molto contemporaneo, perché traslittera  e filtra un io arcaico in un io contemporaneo.

E’ un linguaggio limpido, asciutto, ma non semplificato. Tutto all’opposto.  Perché i riferimenti sono complessi, le antere delle sue parole si spingono lontano e si intrecciano. Originale perché rifiuta la poesia modaiola  e standardizzata che tanto piace oggi in Italia.

Ci sono mari viventi e fiori senzienti in queste poesie. In dialogo costante  con un apeiron periechon che perde la sua minacciosità ma non il suo mistero.

 

Stefano Bellin (Vicenza, 1985) si è laureato in Filosofia all’Università di Padova con una tesi sulle ‘Teorie e pratiche della molteplicità’. Dopo aver lavorato al Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona (MACBA) si è e trasferito a Londra per fare un master in Teoria dell’Arte Contemporanea alla Goldsmiths University. Nel 2011 ha cominciato a collaborare con l’organizzazione culturale Land in Focus e nel 2012 ha cominciato un dottorato in Letteratura Comparata al University College London. La sua ricerca si intitola ‘The Shame of Being a Man: Literature and the Outside’ e si concentra su Primo Levi ed altri autori contemporanei.

 

 

*§*§*§*§*§*§*§*§*

Ci son tempeste,

guglie di mare

che l’umana corteccia

in arido gorgo

schiantano

Ma essa,

non roccia

non gentil sughero

che danza

sulla leggera spuma

come sperduto navio

alla scure luna

si frange

E ancora

le tenaci spoglie

tra cicale e salsedine

in sanguinoso grembo

si fan meriggio:

Nuova tremula ventura

Vecchia impavida paura.

 

*

 

POSIDONE

 

O nume,

ricco di pesci,

dimmi, perché mi tormenti?

Un occhio vale tanti pianti?

 

Come, ungendo gli scogli,

flutti e riflutti

Come il destino dei pesci

tutti in banco

e insieme unico argento

Come la sabbia risponde al vento

così,

lo sai,

è la mi vita.

 

Lasciami dunque

respirare il sole

e amare il vento.

Ondeggiando nei flutti

solo cerco di aggrapparmi

a un solido tronco d’olivo.

 

*

 

SENTIERI

 

Sdraiato

il cielo negli occhi

mi son perso.

Come?

Il cielo non ha sentieri?

 

Le fronde schivavano il vento

mi son girato

e non ti ho visto più.

Sarà questo il freddo?

 

Quattro piedi vennero da laggiù

ora ritornano

in due.

Soli, oltre il pianto,

si guardano:

sono tutto e sono nulla.

 

 *

 

LA LEGGE

 

Compagni,

la guerra

è finita!

. disse un fiore

sopravvissuto

quando la macchina

tacque

nel campo.

Ma un onirico

bambino

saltellando

interrogava

il caso e la vita:

Rosso o bianco?

Finalmente

nudo

il papavero

si vergognò

del suo segreto.

 

(C) 2013 by Stefano Bellin  RIPRODUZIONE RISERVATA

Caoineadh per mio figlio Carlo (16 settembre 1974 – 28 marzo 1992)

Mio figlio Carlo

Mio figlio Carlo Robert Owen

                     

MISERERE

Caoineadh uì Carlo Robert Owen

 I

 Eventi che confondono fluendo

Vortice atroce è  segno del  futuro –

Così la vita è giocatrice abile – un baro

Da  non  cogliere in fallo

Ché il suo barare è onestà nel mentire –

Si apre all’improvviso un cono d’infinito

Folgore di feroce precisione-

Il cuore m’hai squarciato – figlio –

A te e a me l’hai squarciato –

dove ora tu sei è  fluida luce

Tu – un nastro di vento cosmico –

Una carezza di eoni – uno zampillo

Di particelle vaganti –

Vorrei sentire la tua voce – toccarla –

Toccare la tua forma di uomo-bambino

Hai portato con te il mio futuro-

Tu eri il mio futuro-

Non ha spazio né tempo la mia vita-

Di quella che mi resta

Tu sei il filo

Figlio – filo – filare

di viti – filo di vita-

– Anche i ricordi dolorosi, mamma – dicevi

sono belli, mi danno calore-

Tu, il cui nome era uomo libero –

bambino prigioniero

del crudore che strazia

Crocifisso da chi nemmeno il tuo nome

È degno di sfiorare-

Che percorso di sangue ti sei scelto

Scegliendo me a tua porta in questo mondo-

Tu  m’hai lasciato il compito feroce

Di sopravviverti – del vuoto di te-

Stupore di saperti un essere compiuto

così parte di me e da me così altro-

Ho cullato il tuo corpo approdato alla vita

Ho cullato il tuo corpo rubato dalla morte-

Non  rideremo più –  più parleremo

Mai più – mai più su questa terra –

Tutto sulle tue spalle di fragile poeta

Si è rovesciato il mondo

Troppo greve – ed io qui resto

a tenermi nel cuore

i tuoi pochi anni –

la tua breve presenza

e l’infinito abisso

che mi rugge nel ventre.

II

Sei venuto dalla luce e con passo leggero

In silenzio – sei tornato nell’alone pulsante

Affondato via da me

Che ti chiamavo

E ti chiedevo di tornare

Col mio urlo vuoto di voce

Mio bambino d’altre vite –

Emana  il tuo sorriso arcaico

Figlio

Da processioni d’istanti

Mi riempie e mi giudica –

Quanto più saggio di noi tutti

Nella tua scelta atroce –

Ci hai tutti giudicati

Ed additato ai nostri occhi

Neri di disperazione

Una colpa di sangue

III

Il dolore – figlio – è un cane rabbioso

Che sconquassa il torace con violenza vorace

Che mi rompe le ossa il fegato i polmoni –

E ustiona  come brace

Strozza  e stritola la gola

Come una morsa che cola sangue –

È il corpo che fa male

La ferita soffregata col sale –

Nemmeno una ciocca è rimasta

Dei tuoi capelli

Da poter baciare –

IV

 Figlio – che in questa breve freccia di tempo

Hai inchiodato il tuo nome all’amore –

Tu, che agnello ti sei fatto per altri

Per sanare squarci di vuoto –

Ritto sull’arco immobile

Della tua giovinezza

In eterno fanciullo

Della vita hai provato

Solamente

Il  morso feroce –

Tu – figlio – sei fuggito verso la luce

Ché da noi solo buio ti veniva

E silenzio di morte –

Dalla morte volgeva per te

L’istante di liberazione –

Libero ora

Dallo zaino del dolore

Segni a dito chi ti ha straziato –

Tu – crocefisso alla vita

Hai strappato con un gesto

I chiodi i vincoli

Della sofferenza

Per nascere alla morte –

Due volte nato – due volte morto –

Il tuo volto splendente

Nel silenzio

Rimane a giudicare

A segnare

Per sempre la mia vita –

Madre e figlia ti sono nel dolore

Figlio e padre mi sei nell’amore infinito

Che da te come fonte

Mi zampilla

Da un mondo all’altro –

Tu – strada maestra.

V

 Cercavo padri – maestri – figure carismatiche –

Troppo lontano spesso volgiamo lo sguardo

E la verità è così vicina

Che troppo grande si fa – ci sfuggono i contorni –

La tua presenza è l’intero universo

Sei tu mio padre – figlio – il mio Maestro –

Fulgido sole del mio universo.

 

 

VI

 Amore fatto carne –

Nella morte del corpo

Rinnovo la mia anima piagata

Tu – che ti eri annunciato

Nel sogno di tua madre –

Nella tua veste eterna eri venuto

Perché io non morissi –

La vita a te la devo

Perché la tua parola non parlata

Gridi la sua presenza

Rinnovi il tuo passaggio.

VII

 Mi disfa il cammino

Se il cuore non è saldo

Ma non potrebbe

Ché dentro brucia il demone –

Tu – padre, figlio, amico –

Tu  che l’arco del mio tempo

Hai  sverticato – disciolto

Unica sete – intatta

Il mio sangue accogli nella luce –

Un blocco compatto

Di cemento è il dolore

Che mi soffoca e stringe  –

Non posso urlare

Né chiedere aiuto –

A chi lo chiederei?

Tu che mi segui nel mio percorso amaro

Figlio

Tu che alla fonte sotto il cipresso

Hai bevuto l’acqua  di Mnemosine

Ascolta –

Che la tua vita breve

È un infinito nell’infinito –

Miserere di me – per il dolore

Che rode il corpo e l’anima

Miserere di noi – che qui – nel mondo

Ci siamo fatti carne dolorante.

VIII

 Non era questo il mondo che t’avevo promesso

Parlandoti nel ventre mentre fuori

Primavera ed estate consumavano luci

Mai viste in cielo.

T’avevo promesso un mondo che s’apriva

Alla bellezza e al fulgore

Di scale che s’aprivano al futuro

Leggere d’alabastro rilucente

E di cristallo in cui si rispecchiasse

Il tuo viso di principe normanno.

E di teneri soli che scaldavano

I tuoi capelli abbagliati di luce.

Ma non tenevo in conto

Il mondo in cui io vivo

Quel mondo che t’azzanna alla gola

Quando s’affaccia  timida l’innocenza

Esitante alla soglia

Perché  odia l’amore e la bellezza.

È stato questo il mio inganno

Figlio.

IX

 Al sorriso segreto delle tue labbra

Al tuo sguardo sapiente

D’anima antica e saggia

All’innocenza della tua dolcezza

Di poeta bambino hanno opposto

L’urlo feroce del loro inferno.

Non hanno tollerato di vedere

Come la grazia della tua anima

La purezza della tua vita e del tuo sogno

Scagliasse loro in faccia l’abiezione

Che purulenta li stritolava e stritola.

Hanno distrutto lo specchio

Che tu eri – limpido e trasparente

Con la violenza della negazione.

Il tuo – di urlo – s’è consumato nel silenzio

Della tua stanza, portando via con sé

La tua voce – una scia di materia stellare.

X

 Dove sono le tue parole adesso?

Dove le tue dita forti su mani di bambino

Abili a costruire i sogni del futuro?

Dove getti i tuoi ami d’oro a pescare l’amore?

Dove guizzano i pesci – in quale mare etereo?

Dove volgi i tuoi abbracci e le tue lacrime

Dove s’è spento il tuo dolore di esistere?

Soffice spuma di materia iridata

Di luci pulsanti in un cielo abbagliante

Ora respiri l’Essere  che in te

Alita con potenza illimitata sulla soglia

Dell’eterno fluire di un eterno sacro.

Non più evento – ma forma è la tua essenza

In cui risplende l’anima nuda della materia.

FRANCESCA DIANO

(c) 2012 by Francesca Diano  RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

 

 

 

Edgar Allan Poe – La dormiente. Traduzione di Francesca Diano

Samuel Merton Fisher - DREAMS

Samuel Melton Fisher (1856-1939)   DREAMS

LA DORMIENTE  (1831)

A mezzanotte, nel mese di giugno
Sotto una luna mistica.
Vapori oppiati, oscuri, rugiadosi
Svaporando dal suo aureo confine
E gocciolando molli, goccia a goccia,
Sopra la vetta placida del monte
Scendono pigri e in toni musicali
Giù verso la vallata universale.
Sopra la tomba ammicca il rosmarino;
Il giglio ondeggia sopra la corrente.
Avvolgendo la nebbia attorno al petto
La rovina si sgretola assopita;
Guarda, simile al Lete! Il lago
Pare si voglia abbandonare al sonno
E non svegliarsi più per nulla al mondo.
E dorme ogni Bellezza! – ed ora guarda
Irene e i suoi Destini!
Oh dama risplendente! Sarà mai bene
Questa finestra aperta sulla notte?
Brezze impudiche, dalle cime degli alberi
Scivolano dentro ridendo dalla grata –
Le brezze senza corpo, un tumulto immagato,
Vanno e vengono lievi dalla stanza
Agitando la tenda a baldacchino
Così brusche – così terrificanti –
Sulle palpebre chiuse e sulle ciglia
Che nascondono l’anima assopita,
Che come spettri s’allungano le ombre
Sul pavimento e lungo la parete!
Oh cara dama, non hai tu paura?
Perché e che cosa stai tu qui sognando?
Tu certo vieni da lontani mari
A stupire le piante del giardino!
Strano il pallore e strana la tua veste!
Ma ancor più strane le tue lunghe trecce
E l’assoluto di questo silenzio!

Dorme la dama! Oh possa il suo riposo
Ch’è persistente essere profondo!
E l’abbia il Cielo nel suo sacro abbraccio!
In una stanza più sacra di questa
Ed in un letto di questo più mesto
Io prego Iddio che lei possa giacere
Per sempre ad occhi eternamente chiusi
Mentre pallidi spettri avvolti da sudari
Vanno d’attorno!

Dorme il mio amore! Oh, possa il suo sonno
Ch’è duraturo essere profondo!
E lievi i vermi le striscino dintorno!
Nella selva lontana, antica e oscura,
Possa un sepolcro per lei aprir le braccia –
Un sepolcro che spesso abbia richiuso
Le ali sue nere ed ondeggianti,
Trionfante, sulle stemmate insegne
Delle esequie dei suoi nobili avi –
Qualche remoto sepolcro, solitario
Contro il cui ingresso abbia – da bambina –
Lanciato sassi per divertimento –
Qualche sepolcro alla cui porta echeggiante
Mai più un’eco lei possa sottrarre,
Eccitata al pensiero – oh povera figliola del peccato!
Che quello fosse il gemito dei morti.

 

(C) 2013 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

 

THE SLEEPER

At midnight, in the month of June,
I stand beneath the mystic moon.
An opiate vapor, dewy, dim,
Exhales from out her golden rim,
And, softly dripping, drop by drop,
Upon the quiet mountain top,
Steals drowsily and musically
Into the universal valley.
The rosemary nods upon the grave;
The lily lolls upon the wave;
Wrapping the fog about its breast,
The ruin molders into rest;
Looking like Lethe, see! the lake
A conscious slumber seems to take,
And would not, for the world, awake.
All Beauty sleeps!- and lo! where lies
Irene, with her Destinies!

O, lady bright! can it be right-
This window open to the night?
The wanton airs, from the tree-top,
Laughingly through the lattice drop-
The bodiless airs, a wizard rout,
Flit through thy chamber in and out,
And wave the curtain canopy
So fitfully- so fearfully-
Above the closed and fringed lid
‘Neath which thy slumb’ring soul lies hid,
That, o’er the floor and down the wall,
Like ghosts the shadows rise and fall!
Oh, lady dear, hast thou no fear?
Why and what art thou dreaming here?
Sure thou art come O’er far-off seas,
A wonder to these garden trees!
Strange is thy pallor! strange thy dress,
Strange, above all, thy length of tress,
And this all solemn silentness!

The lady sleeps! Oh, may her sleep,
Which is enduring, so be deep!
Heaven have her in its sacred keep!
This chamber changed for one more holy,
This bed for one more melancholy,
I pray to God that she may lie
For ever with unopened eye,
While the pale sheeted ghosts go by!

My love, she sleeps! Oh, may her sleep
As it is lasting, so be deep!
Soft may the worms about her creep!
Far in the forest, dim and old,
For her may some tall vault unfold-
Some vault that oft has flung its black
And winged panels fluttering back,
Triumphant, o’er the crested palls,
Of her grand family funerals-
Some sepulchre, remote, alone,
Against whose portal she hath thrown,
In childhood, many an idle stone-
Some tomb from out whose sounding door
She ne’er shall force an echo more,
Thrilling to think, poor child of sin!
It was the dead who groaned within.

Simone Gambacorta intervista Francesca Diano

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Riporto qui la bellissima intervista che gentilmente mi ha voluto fare Simone Gambacorta per il blog della Galaad Edizioni da lui curato. Ho conosciuto Gambacorta in occasione del Premio Teramo, che la Giuria ha generosamente voluto assegnarmi e  per il quale svolge l’oneroso e complesso ruolo di segretario (vedi organizzatore, coordinatore, angelo alla cui vista nulla sfugge). Lo ringrazio per la sensibilità con cui ha saputo  scegliere le domande, per nulla ovvie e per lo spazio che mi ha concesso.
http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=471&nbsp;
Francesca Diano ha vinto nel novembre 2012 la XLII edizione del Premio Teramo con il racconto “Le libellule”. Nata a Roma, si è trasferita a Padova quando ancora era piccolissima, aveva infatti appena due anni, a seguito del padre, il celebre grecista, filologo e filosofo Carlo Diano, che era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Letteratura greca di Manara Valgimigli all’Università. Quando aveva dieci anni, Diego Valeri, colpito dalla sua scrittura, volle farle pubblicare delle poesie nella rivista «Padova e il suo territorio». Laureata in Storia della critica d’arte con Sergio Bettini, ha vissuto a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e ha tenuto corsi di Storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura. In Irlanda ha invece insegnato all’University College di Cork. Ha anche tenuto corsi estivi in lingua inglese di Storia dell’arte Italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha curato la prima traduzione in italiano, dal tedesco, della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl ed è stata la prima a tradurre in italiano “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland”, di Thomas Crofton Croker, il primo testo di leggende orali sulle isole britanniche. È la traduttrice italiana delle opere della scrittrice indiana Anita Nair. In questa intervista Francesca Diano, che è anche autrice del romanzo “La Strega Bianca”, parla della traduzione, ma soprattutto racconta la sua storia, il suo percorso professionale, il suo amore per la cultura e per tutto ciò che è pensiero.Penso a suo padre, il grecista Carlo Diano, e le chiedo: che cosa significa nascere e vivere in un ambiente familare di per sé intriso di cultura? Che tipo di porosità comporta, tutto questo? E in che modo indirizza o ispira le scelte che, più avanti, si compiranno?
«È una domanda a cui non saprei dare una risposta precisa, perché è come chiedere a un pesce cosa significhi nuotare nel mare, o a un uccello volare. Una cosa del tutto naturale. Se sei un pesce o un uccello, ovviamente. Ecco, il punto è questo. Si può essere immersi in un elemento che risponde alla tua natura – e questo è un dono della vita – oppure che non ti è congeniale e in questo caso l’ambiente non inciderà, oppure inciderà in senso negativo, per una sorta di rigetto. Per me è stato un grande privilegio – me ne sono resa conto solo quando tutto questo è finito – nascere figlia di quel padre, e ancora più fortunata mi ritengo per aver ereditato, assorbito. la sua sete di conoscenza. Il mondo in cui vivevo non era solo un ambiente intriso di letteratura ma – l’ho capito in seguito, confrontandomi con altre esperienze – una sorta di aristocrazia del pensiero, del meglio che il ‘900 abbia visto. E non solo in Italia, perché nella nostra casa arrivava un po’ tutto il mondo. Studiosi, filosofi, poeti, artisti, letterati, storici delle religioni, musicisti. Oltre a italiani, anche francesi, tedeschi, inglesi, svedesi, americani. La bambina che ero li guardava e li ascoltava con immensa curiosità. Ho avuto come padrino e madrina di battesimo Ettore Paratore e la sua bellissima moglie Augusta, nipote del grande Buonaiuti, che non è un cattivo esordio. Nella prima parte della mia vita sono vissuta in un mondo privilegiato, che a me pareva l’unico e in seguito l’impatto con altre realtà non è stato facile. Mi rendo conto che sono vissuta in un mondo scomparso, che se da una parte mi ha dato degli strumenti unici di approccio alla vita, dall’altra ora mi fa sentire come in esilio da una patria perduta. È un mondo che riesco a ritrovare però nei libri, nella gioia dello studio e della scrittura. E, forse perché ormai ho accumulato molti anni e molte vite, nel custodire quei ricordi. La stessa università di Padova raccoglieva contemporaneamente cervelli come mio padre, Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco, dei Maestri che davvero hanno aperto nuove strade. Personalità come queste hanno lasciato un vuoto non più colmato. Poi c’era la sterminata biblioteca di mio padre, da cui mi hanno parlato secoli di sapere, da cui attingevo in modo disordinato e vorace. Ho letto libri come “Vita di Don Chisciotte” di Miguel de Unamuno, o “Delitto e castigo”, o “Iperione” di Hölderlin a undici, dodici anni. Capivo la metà di quello che leggevo, ma era proprio quello che non capivo che mi affascinava. In quella biblioteca di oltre 10.000 volumi, c’erano le letterature di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e libri di filosofia, di arte, di critica, di scienze matematiche e naturali, di storia delle religioni, di teatro e molto altro e insomma era lo specchio della mente e del sapere di mio padre, che non è stato solo filosofo, grecista e filologo, ma anche pittore, scultore, poeta e compositore di musica. È stata la sua ecletticità che mi ha insegnato a essere curiosa di tutto, a non temere di esplorare campi non miei (se mai ho avuto dei campi miei), a inoltrarmi lungo vie ignote. Insomma, proprio come per le parti dei libri che non capivo, mi ha sempre attratto quello che non so. Non ho una mente accademica – e vedendo molti cosiddetti accademici di oggi la ritengo una cosa positiva – ma più di una curiosa, di un’innamorata del sapere. E questo è quello che di me più mi piace. Eppure, immersa in tutta questa sapienza e conoscenza, la lezione più grande che ho tratto da mio padre è stata di aver visto come tutto questo suo sterminato sapere non abbia mai soffocato in lui un’umanità traboccante, una generosità impetuosa e un’innocenza del cuore che ben pochi intellettuali possiedono. Spesso una mente cui si dà eccessivo spazio invade ogni altro campo della vita e soffoca e inaridisce il cuore. La sua mente era mossa dal cuore e non l’opposto. Sì, direi che è stato questo l’insegnamento più grande. Mio padre si è sposato piuttosto tardi e quando è morto avevo ventisei anni e già da tempo vivevo lontana. Spesso mi chiedo quanto sarebbe stato importante averlo accanto più a lungo, quanto ancora avrei imparato – ormai adulta – da lui, che dialoghi ricchissimi avremmo potuto fare. E quanto mi sarebbe stato preziosa la sua presenza in momenti difficili della mia vita. Ma ci sono le sue opere e, leggendo i suoi scritti e le sue carte, anche inedite, quel dialogo e quella vicinanza esistono comunque, pur se in modo diverso»

.Nella sua vita la poesia è arrivata molto presto, e nel nome di Diego Valeri…
«Per me la poesia è arrivata assai prima della prosa. Mi dicevano che da molto piccola parlavo in rima, quando ancora non sapevo leggere e scrivere. In effetti la poesia per me è sempre stata una questione di musica, di ritmo. All’inizio emerge da non so che recesso, fino a un istante prima silenzioso, una sorta di musica, una sequenza ritmica, priva di suoni e quella musica si traduce poi in due o tre parole o in un verso. E’ come uno spiraglio che si apre su qualcosa che vuole essere detto. È sempre stato così. Poi però arriva il lavoro più duro, quello di decodificare in un discorso poetico l’idea che a livello inconscio è molto chiara, ma deve affiorare alla coscienza e trovare la sua forma. Valeri, insieme alla sua compagna di affetti e di vita, Ninì Oreffice, è stato fra i primi amici di mio padre a Padova, insieme a Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco e, come tutti questi uomini eccezionali, mi voleva molto bene. Gli piacevo perché, anche a quattro o cinque anni, ero capace di rimanere ad ascoltare questi adulti che parlavano di cose che non capivo affatto ma che mi affascinavano, anche se poi, in realtà, nel quotidiano ero una specie di Gianburrasca. Quando sono nata mio padre, che è stato anche un grande poeta, scrisse per me una bellissima poesia in greco con la sua traduzione italiana e poi componeva molte filastrocche che mi cantava per farmi addormentare. Insomma, la poesia l’ho respirata. Tra i molti poeti che frequentavano casa nostra c’era Quasimodo, di cui ho ricordi bizzarri. Lui e mio padre erano molto legati; si erano conosciuti da giovani ed entrambi avevano avuto un padre capostazione e un inizio della vita difficile. Dunque, la poesia è stata per me un primo linguaggio, che mi pareva molto naturale e così, quando avevo dieci anni, Valeri volle far pubblicare tre delle mie poesie in rivista»

.Come storica dell’arte – il suo maestro è stato appunto Sergio Bettini – ha insegnato in Inghilterra e in Irlanda. Se non sbaglio, è nella storia dell’arte che trova inizio la sua attività di traduttrice: penso infatti alla traduzione dal tedesco della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl, che lei ha realizzato nel 1983 per l’editore Cappelli, firmando anche le pagine introduttive e gli apparati di note. A proposito di quella traduzione, che le valse anche una menzione speciale al Premio Monselice, vorrei porle due domande. Cominciamo dalla prima: che cosa ha significato, e che lavoro ha richiesto, affrontare un’opera così complessa e tecnica?
«Sì, a Londra tenevo dei corsi di storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura, poi un corso estivo a docenti americani all’Università per Stranieri di Perugia e un corso pubblico di arte italiana contemporanea all’University College di Cork. Mi sono molto divertita. «In effetti è vero, ho iniziato a tradurre nel “modo duro”, per così dire, perché tradurre Alois Riegl è un lavoro difficilissimo e di alta specializzazione, che non si può certo affrontare se non si hanno degli strumenti adeguati. Non so pensare a un modo più “brutale” di trovarmi a iniziare quella che poi sarebbe diventata, dopo molti anni, una delle mie attività. Ma Riegl è stata un’ottima scuola. Un Maestro come Sergio Bettini è la seconda grande fortuna che ho avuto nella vita. Lui e mio padre erano legati più che se fossero stati fratelli, erano l’uno per l’altro quel che in Irlanda si chiama «anam cara», spiriti, anime affini ed è stato proprio nel corso di una passeggiata in montagna, sopra Bressanone, dove alla fine degli anni ’50 mio padre aveva contribuito a fondare dei corsi estivi dell’Università di Padova, che negli intenti avrebbe dovuto essere una sorta di piccola università europea, che loro due si misero a discutere su quale argomento avrei dovuto scrivere la mia tesi. Era da poco stata pubblicata in Austria, a cura di Karl Swoboda e Otto Pächt, l’edizione postuma di alcune lezioni che Riegl aveva tenuto per gli studenti dei suoi corsi e l’argomento era interessantissimo: una grammatica storica delle arti figurative. Io avevo studiato tedesco, sia a scuola che con mio padre e così fu deciso che quello sarebbe stato l’oggetto della mia tesi. È per questo che la mia traduzione, pubblicata da Cappelli nel 1983, la prima traduzione italiana, è dedicata a Sergio Bettini e Carlo Diano. Riegl ha sempre posto dei grandi problemi ai suoi traduttori, motivo per cui le sue opere sono state tradotte parcamente e solo a partire dagli anni ’50 in italiano. In inglese addirittura molto dopo. Bettini era il maggior conoscitore italiano di Riegl e in un certo senso un diretto allievo della Scuola viennese di Storia dell’Arte. Anche mio padre conosceva il pensiero di Riegl e ha scritto splendide pagine, in “Linee per una fenomenologia dell’arte”, sul senso del “Kunstwollen”. I problemi posti dai testi di Riegl sono essenzialmente di due ordini: il primo è semantico e lessicale e il secondo ermeneutico. Il tedesco di Riegl è una lingua di una logica stringente, dall’architettura rigorosa e tuttavia estremamente complessa. Spesso però ci si trova di fronte a termini che lui stesso conia ex novo – come appunto “Kunstwollen” – e allora è necessario trovare un termine nuovo anche nella lingua di arrivo, ma che sia filologicamente corretto e preciso. Il che implica la conoscenza del suo pensiero, delle sue opere, dell’epoca e di quanto accadeva allora nel campo degli studi storico-artistici della Vienna del tempo. Ecco, non è un lavoro che chiunque possa fare, né tanto meno in tempo brevi, poiché richiede competenze tecniche, storiche, filologiche non indifferenti e, ovviamente, un’ottima conoscenza del tedesco. Per la mia tesi, all’inizio mi limitai a una lettura approfondita della “Historische Grammatik der bildenden Künste” e ne discussi a lungo con Bettini, che mi offrì delle chiavi interpretative fondamentali. Sicuramente senza il suo sostegno e aiuto non mi sarebbe stato possibile nemmeno il faticosissimo lavoro di traduzione. Solo in seguito iniziai la traduzione sistematica, che in tutto mi richiese oltre un anno e mezzo di lavoro e il saggio introduttivo, lavoro che poi fu pubblicato da Cappelli appunto nel 1983 e che fu presentato al Premio Monselice di traduzione, dove ricevette una menzione d’onore. Il testo fu poi adottato in molte università ed ebbi bellissime lettere di apprezzamento non solo dagli stessi Swoboda e Pächt, ma anche, tra gli altri, da Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Cesare Brandi e Filiberto Menna. Insomma, non ci si improvvisa traduttori di Riegl, magari sfornando una traduzione in pochi mesi avvalendosi di traduzioni già esistenti».

L’altra domanda è invece questa: qual è il valore culturale, nell’ambito della storia dell’arte, dell’opera di Riegl?
«È necessario dire che Riegl è stato un rivoluzionario, nonostante questa definizione poco sembri attagliarsi al suo carattere di rigoroso e metodico studioso dalla forma mentis squisitamente austro-ungarica. Eppure, dotato di una monumentale conoscenza dei materiali e delle tecniche, delle arti applicate – fu Curatore del reparto dei tessuti presso l’ Österreichischen Museum für Kunst und Industrie di Vienna – e di una solidissima formazione di storico dell’arte, esponente di spicco di quella che divenne nota come Scuola viennese di Storia dell’Arte, Riegl si incammina lungo una via nuova: la via che lo porterà alla creazione di una nuova estetica. Ciò che distingue Riegl dai suoi contemporanei, oltre alla necessità, per lui essenziale, di scoprire – scoprire, forse più che formulare – una teoria universale, oserei dire unificatrice, delle dinamiche artistiche, quale strumento di comprensione del farsi dell’arte dal suo stesso interno, delle sue origini e dei suoi «principia», è il coraggio di essersi avventurato su un terreno oscuro, scivoloso, incerto e sconosciuto: nelle sabbie mobili della ricerca di una chiave di lettura che abbia valore universale, ma allo stesso tempo non rigida o fissa, dei fenomeni artistici nel loro alterno manifestarsi nel flusso del tempo e dello spazio. Non rigida, ma fondante. Dunque il suo non può essere che un proceder cauto, come chi cammini su terreno tanto pericoloso e ignoto. Dei pericoli, Riegl è ben conscio. Questa è cosa che s’ha da aver chiara. E per questa ricerca egli crea di volta in volta delle categorie duttili e direi quasi plastiche. Questa chiave di lettura così unica, proprio perché elastica, capace di trasformazioni e mutamenti, direi prismatica, altro non è che ciò per cui Riegl conia il termine di «Kunstwollen». Il «fattore direttivo» appunto, come Riegl stesso lo definisce, tradotto da me, sulla scia di Bettini, con l’espressione «volontà d’arte», (e non un fuorviante «volere artistico», come da altri è tradotto). Una direzione. Una volontà appunto, come la direbbe con Schopenhauer. Un filosofo che Riegl non aveva affatto cancellato dal suo paesaggio. Ma anche un vettore. Capace di convogliare forze e proiezioni. Ed è per analizzare come di volta in volta, di civiltà in civiltà, questo motore della creazione artistica si sia manifestato, che Riegl scrive questa Grammatica storica. La «volontà d’arte» non è che una necessità profonda di espressione dell’uomo, che si concretizza in opere d’arte, non meno di quanto la necessità di espressione del pensiero si concretizzi nelle forme della lingua. Ho poi ritrovato, nella grammatica generativa di Noam Chomsky delle analogie sorprendenti. Alcuni anni fa tradussi poi per Neri Pozza un testo molto importante, “Vasari, le tecniche artistiche”, di Gerard Baldwin Brown, a cui premisi un mio saggio introduttivo. Il testo, pubblicato nel 1907, comprende la prima traduzione in inglese dei capitoli sulle tecniche artistiche delle “Vite” del Vasari, capitoli che non erano mai stati inclusi nelle versioni inglesi dell’opera, ma soprattutto è arricchito da un commentario vastissimo di Baldwin Brown, che è un’opera in sé. Dunque è vero che la mia anima di storica dell’arte è filtrata anche attraverso quella di traduttrice. Ma l’origine è più antica. L’arte della traduzione l’ho respirata fin da bambina, quando sentivo mio padre “cantare” a bassa voce i versi della sua traduzione delle tragedie greche che andava facendo. Magari durante una passeggiata, o mentre guidava, o mentre aveva le mani impegnate in un lavoro pratico. Gli piaceva moltissimo aggiustare le cose, anche se poi poco ci riusciva».

Uno dei suoi campi di studio è quello delle folklore e della tradizione orale irlandese. Com’è nato questo amore?
«Questa è una storia molto affascinante, perfino per me che l’ho vissuta, perché tutto nacque a Londra, in una libreria di libri antichi e usati. Proprio insomma come in un film o in una fiaba. E difatti, di fiabe si trattava. Fu in questa libreria che “fui trovata” – dire che lo trovai io è riduttivo, dato il destino che a quel libro mi lega – da un delizioso piccolo volume di autore anonimo, datato 1825 e pubblicato da John Murray, all’epoca il più importante editore inglese, che pubblicò anche il nostro Ugo Foscolo in esilio a Londra. Il titolo recitava “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland” ed era costellato di bellissime piccole incisioni. Il libraio antiquario, di cui ero diventata ormai amica perché ci passavo quotidianamente, me lo vendette a un prezzo irrisorio, 3 sterline e 6 scellini. A quell’epoca ignoravo tutto del folklore irlandese e, pur amando moltissimo le fiabe, le leggende e i miti, non mi ero mai interessata in modo specifico di folklore. Quel libro ebbe subito su di me una presa molto speciale e, nel leggerlo, mi rendevo conto che l’autore anonimo non doveva essere stata una persona qualunque, perché la cultura davvero enciclopedica che dispiegava nelle note poste alla fine di ogni leggenda era fuori del comune. Era un erudito ma allo stesso tempo uno scrittore pieno di ironia, fantasia, ampiezza di visione. E ancora più sorprendente era la struttura stessa dell’opera. Le varie leggende erano presentate più o meno così come evidentemente gli erano state narrate dalla gente contadina e l’intervento del Compilatore (così si autodefiniva nel testo l’autore anonimo) era limitato solo e unicamente ai ricchissimi commenti alla fine di ogni leggenda. Questa struttura mi colpì subito, perché la trovai molto moderna, anche per l’idea di commentare alla fine ogni leggenda. Evidentemente l’autore aveva voluto lasciare il massimo della spontaneità ai suoi racconti, soprattutto se paragonata alla raccolta dei fratelli Grimm, pubblicata tredici anni prima. Si sa che i Grimm infatti rielaborarono pesantemente le storie che avevano raccolto dalla bocca di signorine della buona società e soprattutto di Dorothea Viehmann, una donna dalla straordinaria capacità di narratrice e l’unica che avesse tratto le sue storie dalla bocca popolare. Una volta tornata in Italia decisi di tradurre per mio conto quel libro meraviglioso, anche per leggerle la sera ai miei bambini, a cui per anni ho raccontato e letto favole prima di dormire. Il modo più efficace per conoscere e capire veramente un’opera è tradurla, perché nel tradurre si entra dentro la sua struttura più profonda e si stabilisce un legame intimo con l’autore. E difatti fu soprattutto traducendolo che mi resi conto sempre di più dell’eccezionalità di quel libro e della sua struttura. Un’opera che nel 1825 era così moderna. Dunque mi pareva impossibile non sapere chi ne fosse l’autore. E perché quell’anonimato? Come mai un testo di leggende irlandesi era stato pubblicato a Londra e per di più dal maggiore editore del tempo? Così, spinta da tutte queste curiosità, che stuzzicavano la mia anima segreta di detective, mi misi alla ricerca delle risposte. Ma vivevo ormai in Italia e all’epoca non esisteva internet. In Italia l’opera era del tutto sconosciuta e all’epoca l’Irlanda non era ancora diventata di moda, come poi fu. Così mi ci volle molto tempo e ricerche e pomeriggi in biblioteca finché, un giorno, durante un breve soggiorno a Londra, trovai l’antologia di fiabe irlandesi pubblicata da W.B.Yeats nel 1888 ed ecco, tra quelle, due delle leggende della mia raccolta, ma…con il nome dell’autore: Thomas Crofton Croker! Che sorpresa e che emozione fu per me! Come scoprire la tomba di un faraone sconosciuto. Avevo il nome del mio autore. Da quel momento tutto fu più facile. Cominciai a trovare molto materiale, ovviamente in Inghilterra, attraverso i prestiti internazionali e le ricerche proseguirono per altri due anni. In tutto erano passati molti anni da quel pomeriggio nella libreria antiquaria, ma quello che accadde dentro di me fu qualcosa di inaspettato. L’amore, la passione che quel libro mi avevano acceso dentro, mi avevano sospinta lungo una strada di ricerca che pian piano mi aveva fatto scoprire l’Irlanda, il suo folklore, la sua storia, la sua cultura e la storia del mio amatissimo autore. Dunque è stato davvero un percorso interiore, una sorta di iniziazione, alla fine della quale ho trovato il mio tesoro. Una nuova vita, che poi mi ha portata anche in Irlanda, dove ho trovato ancor più di quanto mai mi potessi aspettare. Qualcosa di così unico che ne è nato un romanzo, “La Strega Bianca”».

Che rapporto ha stabilito con “quella” copia di Croker?
«Quella copia che è in mio possesso e che per me non è un libro, ma una parte della mia vita, oserei dire un essere che parla e respira, è una delle 600 pubblicate nel maggio del 1825 in forma anonima e che andarono esaurite in una sola settimana. Era la prima raccolta di leggende orali mai pubblicata nelle Isole Britanniche e per di più irlandesi. Croker è stato un personaggio straordinario. Nato a Cork, che allora era chiamata l’Atene d’Irlanda per l’intensità della sua vita culturale e per la ricchezza della sua economia, apparteneva all’Ascendency, cioé la classe dominante sia politicamente che economicamente in Irlanda, costituita dai discendenti degli “invasori” inglesi che vi giunsero durante il regno di Elisabetta I e, come tale, ancora oggi odiata. Fin da bambino dimostrò una passione molto singolare per tutto ciò che era antico o strano e a quindici anni si mise a girare le campagne del Munster per raccogliere dalla voce dei contadini racconti e leggende. A quella stessa età fondò, insieme ad alcuni amici, una società antiquaria e in seguitò contribuì a crearne molte altre. Era un ottimo disegnatore e incisore ed espose in mostre d’arte. A diciotto anni però rimase orfano di padre e andò a Londra, dove trovò impiego come cartografo all’Ammiragliato. A Londra conobbe il meglio dell’intellighentia del tempo e, dopo un primo libro sull’Irlanda, decise di tornare in patria per un breve periodo per raccogliere altro materiale. Da poco era stata pubblicata la traduzione inglese delle fiabe dei Grimm, da cui Croker era stato molto colpito, soprattutto dall’idea di preservare una tradizione che si andava perdendo e che invece costituiva lo spirito del popolo. Così, nel 1825 pubblicò questa raccolta, che ebbe un successo strepitoso, ebbe molte nuove edizioni e gli diede la fama. Fama che crebbe negli anni e ne fece uno dei maggiori protagonisti della vita culturale nella Londra vittoriana. Ma la prima edizione, quella del 1825, uscì in forma anonima perché, per varie circostanze, Croker aveva perso il manoscritto e dovette rimetterlo insieme in breve tempo. Così si fece aiutare da alcuni amici di Cork nel ricostruire vari testi e, per onestà intellettuale, non volle firmare questa edizione. I fratelli Grimm, che non lo conoscevano ma che l’anno precedente avevano letto la sua prima opera, ricevettero in dono da un amico di ritorno dall’Inghilterra questo testo e ne furono così colpiti da volerlo tradurre in tedesco e scrivere un importantissimo saggio introduttivo. Si può capire quanto si sentì onorato il giovane Croker nel vedere che i famosissimi fratelli avevano ritenuta degna della loro attenzione la sua opera e si mise subito in contatto con loro, svelando il proprio nome. Iniziò così una lunga amicizia e una collaborazione che prevedeva anche il progetto di una storia comparata del folklore europeo. Tuttavia questo progetto non andò mai in porto, almeno non nella forma che i tre avevano auspicato, né si incontrarono mai di persona. Le “Fairy Legends” comunque, non sono importanti solo per essere stata la prima raccolta di racconti orali mai pubblicata sulle Isole Britanniche, ma per il metodo di ricerca che ha fatto di Croker un pioniere della ricerca folklorica. E’ un metodo sul campo, per così dire, in cui massimo è il rispetto per gli informanti e per il sapore spontaneo della loro narrazione. Così pionieristico è questo metodo, che solo nel ‘900 esso è stato capito appieno e ripreso. L’opera di Croker però non si limitò a questo. Per tutta la sua vita – morì a 56 anni nel 1854 – seguitò a raccogliere e pubblicare materiale preziosissimo, sia sulle leggende che sulle canzoni popolari, che sulle tradizioni, tra cui quella della lamentazione funebre irlandese. Pur angloirlandese, fu proprio lui a far conoscere fuori dell’Irlanda l’immenso patrimonio orale per cui questa nazione è ancora oggi tra le più importanti al mondo. Nessun inglese, o angloirlandese, aveva mai ritenuto di prestare alcuna attenzione a una cultura che riteneva inferiore, come allora si pensava».

Ma che cosa è “diventato” per lei Thomas Crofton Croker?
«Croker è diventato un caro amico, direi un membro della mia famiglia, certo della mia vita e in effetti ancora oggi lavoro alle sue opere, che sono ancora tutte da scoprire qui da noi. Alcune di esse, in qualche modo offuscate dalla fama delle Leggende, note e amate in tutto il mondo e dal 1998 anche da noi, non sono ancora state abbastanza studiate. Devo così tanto al mio “Crofty” – così avevo preso a chiamarlo e poi rimasi allibita nello scoprire che proprio così lo chiamavano i suoi amici più intimi! – che vorrei ripagarlo almeno di una parte dei tesori e delle gioie che mi ha dato».

La traduzione italiana dell’opera ha avuto molto successo…
«Anche se mi ci sono voluti degli anni per trovare alle “Leggende” un editore – come ho detto, quando le proponevo l’Irlanda non era ancora di moda – poi l’opera fu pubblicata una prima volta da Corbo&Fiore e in seguito, in diversa edizione, nel 1998 da Neri Pozza, con cui all’epoca collaboravo attivamente come traduttrice e consulente editoriale. L’opera ha avuto numerose edizioni ed è ancora in stampa. Cosa rara oggi, che i libri hanno vita tanto breve. Ma, ovviamente, si tratta di un’opera immortale! Ho potuto verificare nel tempo di avere un certo “naso” per autori e opere da proporre. Ogni volta che l’ho fatto sono sempre stati dei successi editoriali».

Quali sono le differenze tra la traduzione di un’opera saggistica e la traduzione di un’opera letteraria?
«Questo è un problema che non mi sono mai posta in realtà, poiché non ho alcuna teoria della traduzione da seguire, mi sento forse più un’artigiana della traduzione. Proprio nel senso di arte applicata. Forse potrei desumere delle considerazioni a posteriori. Tradurre è un’arte, non vi sono dubbi, ma soprattutto una pratica, non teoria. Le teorie le lascio volentieri ai teorici. In quanto pratica, la si apprende col tempo e con l’eperienza, ma credo sia necessaria una predisposizione, come per tutte le cose. La predisposizione di cui parlo è forse il desiderio di condividere con gli altri il piacere o la gioia di una scoperta. Il mettere a disposizione di altri la conoscenza che da un’opera ci è giunta, ma anche una certa plasticità lingusitica e mentale. Ma, riflettendo sulla sua domanda, mi rendo conto che forse tutta questa differenza non c’è, se non per un aspetto. Sia nell’un caso che nell’altro è importante che il traduttore abbia il polso dell’autore e dell’argomento. Che conosca cioé l’oggetto di cui si tratta e la visione che vi sta dietro. Che abbia una conoscenza approfondita della lingua e della cultura che ha prodotto quel testo e, ovviamente, del suo autore. Questo, se non altro, per non incorrere in fraintendimenti pacchiani o per non trovarsi nell’impossibilità di capire il contesto, cosa che accade più spesso di quanto si creda. Tuttavia, quando si tratta di un’opera letteraria, credo che nessun bravo traduttore letterario possa non essere anche uno scrittore e, a maggior ragione, chi traduce poesia deve anche essere un poeta. Non tutti sono d’accordo su questo, soprattutto chi non è di suo scrittore o poeta, ma io invece sono convinta che sia fondamentale. Perché in un’opera letteraria uno degli aspetti essenziali è lo stile. Ogni autore ha il suo, un suo, per così dire, DNA dello scrivere, che lo caratterizza e che è parte inscindibile della sua poetica. Ora, se non si riconosce questo e se non ci si sforza di ricreare, pur nei limiti del possibile, quella specialissima “voce” nella propria lingua, si reca un enorme danno all’opera e al suo autore e se ne vanifica in buona parte il senso. Tutti sappiamo che la letteratura non è tanto e solo quel che si dice, ma come lo si dice. Ed è questa forse la maggiore difficoltà per ogni buon traduttore. Del resto, quel che è sempre emerso dal Premio Monselice e che Mengaldo ha anche sottolineato, è che i maggiori traduttori di poeti sono stati altri poeti. Ma, come dice il buon Schopenhauer, per andare lontano si deve avere qualcosa da scrivere. E che quel qualcosa ti stia a cuore. Ci sono opere la cui grandezza sta soprattutto nello stile, nella sonorità, nella luminosità della lingua. Penso, un esempio per tutti, a Kerouac e a quel suo inglese ora vellutato ora duro ora fumigante, non affatto prescindibile dalla sua scrittura. Ovviamente qui parlo di letteratura e non di semplice fiction o narrativa. Per quello è sufficiente essere buoni conoscitori della lingua, la propria e quella dell’autore. Farei invece una distinzione fra tradurre prosa e tradurre poesia. Che si tratti di versi ancorati al rigore della metrica o di versi liberi, il linguaggio poetico ha comunque in sé una musicalità, un’armonia intrinseca, una timbricità, che sono legati alle specifiche sonorità della lingua e che chiedono al traduttore un orecchio musicale o, per lo meno, un orecchio capace di percepirli. Ora, nel passaggio da una lingua romanza all’altra è ancora possibile conservare o ricreare quella sonorità originale, o almeno ci si può provare, ma da una lingua germanica a una romanza questo è più difficile, per non parlare poi di altre lingue dalla nostra ancora più lontane o di strutture metriche estranee all’italiano. Allora, in questi casi, sarà necessario trovare comunque una soluzione che in qualche modo sia eco del significato del testo. Un po’ come musicare un libretto d’opera insomma. Ma in realtà non saprei dire come poi emergano da dentro di noi certe soluzioni, certe risposte – sì, risposte – alla voce dell’autore che ci sussurra. Forse ci guida. Credo che si debba ascoltare. Tutto nasce dall’interazione fra chi siamo noi, di cosa siamo fatti, quanto sappiamo ascoltare e chi è l’autore. Un dialogo costante e uno scambio. Questo è il motivo per cui uno stesso testo, tradotto da uno, sarà diverso se tradotto da un altro. Ogni traduttore trova ciò che sa trovare».

Lei è anche la traduttrice della scrittrice indiana Anita Nair. Che cosa significa attraversare e ricreare le pagine di un’autrice che appartiene a un’area culturale completamente diversa? Torniamo a quanto abbiamo detto: dietro le quinte di una traduzione c’è un vero e proprio percorso di studio…
«È proprio così, è in parte quello che dicevo in precedenza. Tradurre è un modo profondo di conoscere, ma è anche una forte spinta alla conoscenza. Mi sono trovata a tradurre le opere di vari scrittori indiani, in realtà angloindiani, cioé autori indiani che hanno scelto di scrivere in inglese. In India, come si sa, l’inglese è non solo una lingua franca, ma anche il veicolo di quella cultura postcoloniale che ha dei complessi meccanismi ed esiti. Dunque, gli scrittori che in India scelgono di scrivere in inglese compiono una scelta precisa e cioé quella di scrivere per un mercato internazionale. Allora, anche i contenuti delle loro opere, in un certo senso, tengono d’occhio quello che, a loro avviso, a un pubblico occidentale può interessare dell’India. In un certo senso è un principio d’esclusione. La letteratura indiana moderna e contemporanea che si avvale di lingue diverse dall’inglese, è assai differente da quella che arriva in Occidente, sia nello stile che nei contenuti. Perché proprio diversa è la forma mentis. Lo stesso si può dire per i poeti indiani. Oggi molti, soprattutto i più giovani, scrivono in inglese e imitano in modo marcato poeti americani e inglesi, in una sorta di minimalismo o realismo che non è nelle corde della poesia indiana tradizionale. In ogni caso tutto questo lo so non perché conosca l’hindi, o il bengali, o il malayalam, o l’urdu ecc. ma perché mia figlia Marged è un’indologa che parla hindi correntemente, conosce urdu e bengali, dunque conosce molto bene e direttamente la situazione culturale, politica e sociale dell’India. È soprattutto a lei che devo molte delle informazioni che ho in proposito, oltre naturalmente a quanto ho voluto approfondire e oltre a quello che della cultura indiana classica consoscevo attraverso le opere presenti nella famosa biblioteca. Tuttavia il mio impatto con le scritrici indiane moderne è avvenuto molto presto. Nel 1957 era uscito “Altro mondo”, un libro di Sonali Dasgupta, la moglie indiana di Roberto Rossellini e quel punto di vista di una donna indiana sull’Occidente mi aveva colpita moltissimo. A parte Rabindranath Tagore, che mio padre amava molto e mi pare avesse conosciuto attraverso Giuseppe Tucci, era la prima opera di una scrittrice indiana che incontravo. Poi, a Londra, negli anni ‘70, acquistai un libro bellissimo, “Nectar in a sieve” – tradotto anche in italiano solo di recente – di Kamala Markandaya, scritto negli anni ’50 e ambientato nell’India rurale. Un grande classico della letteratura indiana femminile moderna. Mi affascinò a tal punto, che mi ripromisi di tradurlo, ma poi non trovai un editore a cui interessasse. Per quanto riguarda Anita, si tratta di una storia molto bella, perché quando ancora era una scrittrice esordiente, poco nota anche in India e del tutto sconosciuta fuori, mi fu dato da leggere il suo primo romanzo, quello che poi fu pubblicato col titolo “Un uomo migliore”. Mi piacque, mi commosse, mi colpì la conoscenza che della natura umana aveva questa giovane autrice e volli che fosse pubblicato e che fossi io a tradurlo. Da questo suo primo meraviglioso libro è nata poi una vera e duratura amicizia, che si è approfondita negli anni e che è stata preziosissima anche per capire in modo privilegiato la sua opera. È bellissimo poter seguire un autore fin dai suoi esordi e discorrere della sua opera, capirla nel profondo. Anche questo mi ha permesso di avvicinare l’India contemporanea in modo privilegiato e diretto e dunque di avvicinare altri scrittori e poeti – o meglio poetesse – indiani che poi ho tradotto».

Fra gli altri, lei ha tradotto Kushwant Singh, Themina Durrani, Pico Iyer, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Uzma Khan. Quali sono gli autori, fra quelli che ha tradotto, che sente più suoi?
«Da quello che ho detto, è chiaro che il mio autore è Thomas Crofton Croker. Ça va sans dire! Ma poi devo anche aggiungere Sudhir Kakar, un grandissimo scrittore, tra i più grandi che io abbia incontrato, psichiatra e saggista di fama internazionale, oltre che uomo di grande generosità e umanità, che negli anni ’90 ha iniziato a scrivere narrativa. Ho avuto la fortuna di poter tradurre quasi tutti i suoi romanzi, il più grande dei quali è senz’altro “L’ascesi del desiderio”, una biografia immaginaria di Vatsyayana, il misterioso autore del Kamasutra, narrata da un giovane kavi, uno studioso poeta. L’affresco dell’India d’oro della dinastia Gupta, la descrizione del mondo raffinato delle cortigiane, la scrittura elegantissima e colta, lo stile aristocratico e austero ne fanno un vero capolavoro. Poi devo aggiungere la poesia di Edgar Allan Poe, con cui mi sono misurata per l’amore sconfinato che ho per questo autore e soprattutto per la sua poesia, che, essendo anche pura musica, è davvero una sfida per un traduttore. Tradurre i testi poetici di Poe mi ha aperto prospettive nuovissime sul resto della sua opera».

Quando deve tradurre un libro, quali sono le fasi che scandiscono il suo lavoro?
«Forse sarò banale, ma in genere parto dalla sua lettura. A meno che non si tratti di un testo che già conosco. In quel caso traduco e basta. Nel corso della traduzione però non stacco mai, nemmeno quando non traduco. Mi ronzano in testa le parole, le frasi, la soluzione a un problema che pareva di difficile scioglimento e che balena all’improvviso. Ecco, è un’immersione totale. Una sorta di viaggio a due, in cui ci si conosce sempre più a fondo. Ho notato che in genere all’inizio la traduzione è più lenta, poi diviene quasi un processo naturale, come se fossi ormai entrata nel meccanismo della scrittura e la traduzione fluisse in modo naturale. Mi piace molto anche la fase della ricerca, perché comunque, traducendo s’imparano moltissime cose».

Giorgio Caproni diceva che tradurre equivale a «doppiare». Lei che cosa ne pensa?
«Caproni è stato un grande traduttore e sono completamente d’accordo con lui quando, in un suo discorso in occasione della vincita del premio Monselice, nel 1973, dichiara: «Non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si tratta soltanto di cercar di esprimere me stesso nel modo migliore: nel cercar di far bene qualcosa che valga a esprimere quanto ho in animo. L’impegno per me resta, in entrambi i casi, il medesimo e di egual natura, e di diverso non vedo in essi che l’impulso, il movente». Mi pare che proprio in questo discorso egli si dichiari lontano «dal sognare una traduzione quale perfetto double dell’originale». Non so, tradurre è in fondo un procedimento bizzarro. Da un lato ti chiede un abbandono totale al testo e all’autore, quasi un atto di resa, uno svuotamento di sé; dall’altro esige tutto te stesso, la totalità delle tue capacità, delle tue competenze, delle tue risorse. È come svuotarsi e riempirsi di nuovo, ma con un atto di consapevolezza assoluta. In realtà tradurre è un percorso di conoscenza di se stessi».

Un autore che vorrebbe tradurre?
«Sono due o tre, ma non ne dico il nome per non dare dei suggerimenti».

Un traduttore che ammira?
«Solo uno? Foscolo, Leopardi, Pavese, Fortini, mio padre».

Un traduttore o una traduzione che considera sopravvalutati?
«Fernanda Pivano».

Senta, ma se lei dovesse spiegare in parole estremamente semplici che cosa vuol dire tradurre, che cosa direbbe?
«Che è un atto d’amore».

E se dovesse spiegare qual è il bello del lavoro del traduttore? 
«L’emozione travolgente della scoperta di se stessi».

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