Anita Nair – Un uomo migliore

Anita Nair Un uomo migliore traduzione di Francesca Diano. Editore Guanda 2011

E’ appena uscita, per i tipi di Guanda, una edizione del tutto nuova del primo romanzo di Anita Nair, Un uomo migliore, da me tradotto,  il romanzo che mi ha fatto scoprire e amare Anita. E’ stato il suo primo romanzo, precedente al bestseller internazionale Cuccette per Signora, ma che già contiene tutta la magia, l’eleganza, la profondità della sua scrittura, che ne hanno fatto una delle voci più amate e conosciute della narrativa indiana in lingua inglese.

La storia si svolge nel piccolo villaggio di Kaikurussi, un villaggio immaginario, nel Kerala, lo stato indiano in cui è nata Anita Nair e che un tempo faceva parte di una regione nota come Malabar.
Il Malabar è ormai scomparso, ma, come dice Anita, il Malabar è ancora uno stato dell’anima, un sentire, fatto di attaccamento al passato, di negazione del futuro, ma anche di scontento.
Kaikurussi è un villaggio in cui non c’è nulla, in mezzo al nulla, dove termina la strada, dove non è nato nessun personaggio di rilievo. Solo campi e colline.
La narrazione si apre con le parole di Bhasi il pittore, che parla in prima persona, come una sorta di voce fuori campo rispetto al resto della narrazione, in terza persona. Così come in prima persona Bhasi parlerà in tutto il romanzo. Come una sorta di coscienza.
Bhasi,  che alcuni nel villaggio in cui si è trasferito da qualche tempo, fuggendo da una vita di docente universitario, hanno soprannominato Bhasi lo Svitato, è l’imbianchino del villaggio.  Ma non è solo questo.
Bhasi restaura case, ma restaura anche anime e corpi sofferenti, usando un mix di cure di sua invenzione fatto di medicina omeopatica, di psicologia, di magia e fitoterapia. Tuttavia, in questa vita apparentemente semplice e serena che si è scelto,  sente che un compito grande lo attende, qualcosa che gli darà “un motivo per esistere”. Ne è in attesa. Ed ecco che il destino gli porta quel motivo: Mukundan.
Mukundan è un uomo ripiegato su se stesso, come i fazzoletti che ripiega con meticolosa precisione in otto parti, pieno di timori e incertezze, non ben certo di chi sia, soffocato da un vecchio padre terribile, che ha dominato tutta la sua vita e che ha frustrato ogni suo sogno. Mukundan torna in questo villaggio, da cui era fuggito per non tornare mai più, perchè nessun altro luogo ha al mondo dopo il suo pensionamento da una dignitosa carriera di funzionario governativo. Nessun altro rifugio.
E l’incontro tra questi due uomini così diversi, così necessari l’uno all’altro, è un incontro straordinario. La storia di una profonda guarigione e rinascita, di una guarigione spirituale attuata con metodi bizzarri e quasi magici, che passa anche attraverso un terribile tradimento. Quello di Mukundan che scopre tutto sommato, alla resa dei conti, di non essere un uomo migliore di suo padre.
L’immaginario villaggio di Kaikurussi, con i suoi incredibili personaggi, – indimenticabile la figura del vecchio padre terribile, un padre-padrone che ha un che di titanico – con le presenze del passato, con lo scontro tra la vecchia e la nuova India, col suo sottofondo di miti, di magia, di mistero, è in realtà tutto il mondo.
E la fine del romanzo, così incredibile, così sorprendente, scioglie quel nodo profondo che molti si portano dentro come un macigno.
Mukundan troverà la forza, la volontà di  diventare finalmente un uomo libero,  un uomo migliore di suo padre? Un uomo?
Il linguaggio è lieve quanto potente, evocativo quanto magico, ironico quanto drammatico, originale e limpido.
Mi sono trovata questo romanzo tra le mani poco più di 11 anni fa, quando Anita Nair era ancora da noi del tutto sconosciuta, non molto nota nel resto del mondo e poco più che una scrittrice esordiente, anche se aveva già pubblicato una raccolta di racconti, poi da me tradotta col titolo di Il satiro della sotterranea.  Ma, già dalle prime pagine, la scrittura mi parve di una forza e di una profondità straordinarie. La conoscenza dell’animo umano che questa giovane scrittrice indiana pareva possedere mi catturò e mi emozionò al punto che volli con tutta me stessa che venisse pubblicato e decisi che l’avrei tradotto io.
E’ stato il romanzo che ha segnato l’esordio italiano di Anita Nair, quello a cui sono più legata, grazie al quale è inziato un rapporto di stima e ammirazione, di grande affetto, di profonda intesa con Anita Nair.
Tradurlo è stato, come poi è avvenuto per tutte le sue opere, una gioia dalla prima parola all’ultima e mi è parso così facile, così naturale  trovare immediatamente lo stile italiano che rendesse  la sua scrittura e la sua voce.
Tutti i romanzi di Anita Nair hanno, nella struttura e nel linguaggio, nei personaggi e nello stile, un’originalità che rende la sua scrittura unica, ma questo è quello che amo di più e che mi è più caro. Perché mi ci sono ritrovata, perchè esplora profondità insondabili dell’animo umano, temi che sono alla radice della psiche, perché esplora, con un linguaggio liquido, ironico spesso, e molto limpido, le ombre che ogni uomo nasconde e teme.
E infine, perché l’avere, grazie ad esso, “scoperto” Anita Nair, me lo rende particolarmente caro, così come mi è cara Anita.
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Thomas Crofton Croker – Racconti di fate e tradizioni irlandesi. Traduzione e cura di Francesca Diano

Incisione di W.H.Brook nel testo

Questo libro, Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland, di Thomas Crofton Croker, pubblicato per la prima volta a Londra, in forma anonima, da John Murray nel 1825, e illustrato dalle meravigliose incisioni di  William Henry Brooke, ha cambiato la mia vita. La storia di come ne sono entrata in possesso, quello che dalle pagine di questo libro per me è venuto, ha, non meno del suo contenuto, qualcosa di magico e fatato.Moltissimi anni fa, quando vivevo a Londra entrai, come spesso facevo,  un pomeriggio di fine estate dal libraio antiquario che aveva il suo negozio vicino alla casa in cui abitavo. Di lì a poco sarei tornata in Italia e, quasi a commiato, per un gesto di vera amicizia, quasi come un dono per l’amore che entrambi condividevamo per i libri vecchi e antichi, il libraio mi offrì a un prezzo davvero esiguo  – ora penso, troppo esiguo, dato che lui non poteva non conoscerne il valore – questo piccolo libro antico, con la sua rilegatura originale e costellato di bellissime incisioni. Mi disse: “lo compri, vedrà, ne sarà contenta”. E non posso dimenticare, dopo così tanti anni, quello strano sguardo con cui accompagnò le sue parole. Fu quasi come se quel libro avesse voluto trovare me… come se lui avesse avuto il compito di consegnarmelo.

Io amo moltissimo i libri vecchi e antichi, i libri che recano i segni del Tempo, e ancor di più i miti e le leggende e acquistai immediatamente, senza saperlo, quella che è una rarissima e preziosissima prima edizione anonima del primo libro di racconti orali mai pubblicato sulle Isole Britanniche.

Frontespizio della prima edizione anonima delle Fairy Legends, 1825

Croker pubblicò in seguito altre tre edizioni con aggiunte, di queste leggende e moltissime opere pionieristiche, sia sulle tradizioni irlandesi che sulla musica irlandese, oltre a meravigliosi diari di viaggio, testi teatrali e antiquari. Ed è giustamente riconosciuto come  il vero pioniere della ricerca folklorica sulle Isole Britanniche.

Frontespizio dell’edizione italiana, Neri Pozza, 1998

Nato a Cork, a diciotto anni, dopo la morte del padre si trasferì a Londra, dove lavorò fino al pensionamento come cartografo all’Ammiragliato, poiché possedeva anche un grande talento di disegnatore e incisore. Giovanissimo, ancora a Cork, allora definita l’Atene d’Irlanda, aveva fondato un’Accademia di studi antiquari. Appassionato di antichità, girò per le campagne del Munster raccogliendo reperti antichi, racconti orali, tradizioni e leggende. Ma il suo primo vero incontro con la grande tradizione orale irlandese avvenne la vigilia di San Giovanni al pattern (festa del Santo Patrono) che celebrava San Finnbar, il 23 di giugno del 1813. Quella notte, fra danze, musica, canti e celebrazioni quasi orgiastiche, ascoltò per la prima volta, dalla voce di un’anziana donna, un caoine (keen in inglese), vale a dire una lamentazione funebre ritualizzata, di straziante bellezza. Ne fu così colpito, che la tradusse e poi la pubblicò. Ma fu in quel momento che decise di dedicare parte della sua vita allo studio e alla diffusione della tradizione orale irlandese.

 A Londra conobbe e poi sposò Marianne Nicholson, la figlia del famoso pittore Francis Nicholson, fondatore della scuola acquarellistica inglese, di cui divenne amico poiché il mio Crofty, come lo chiamai subito, era un disegnatore di non poca vaglia. Amico di Sir Walter Scott, di Charles Dickens, di Disraeli, di Alicia Lefanu, dei Grimm e di molti altri protagonisti della cultura e dell’intellighenzia vittoriana, fu un uomo famosissimo, geniale e un conversatore di fascino unico. Membro di numerose accademie, autore di studi e saggi pionieristici sulle tradizioni irlandesi, morì nella sua casa di Camden nell’agosto del 1854.

Il valore enorme delle Fairy Legends, opera tra le più famose in Irlanda, Inghilterra, America, Germania e Svezia per le leggende irlandesi, sta anche nella struttura assolutamente rivoluzionaria che Croker scelse per il suo lavoro di pioniere. Ispirato dalla raccolta dei Fratelli Grimm, da poco tradotta in inglese e dal loro metodo di ricerca, si rese conto che nulla del genere era mai stato fatto per preservare e tramandare in forma scritta la tradizione orale della sua terra. Ma, rispetto ai Grimm, Croker apporta alcune modifiche al metodo di raccolta. Difatti egli narra le leggende così come gli vennero raccontate dalla viva voce dei narranti, senza molte alterazioni o modifiche e confinandosi nelle ricchissime e coltissime note alla fine di ogni leggenda. Questo rispetto per il testo originale è unico al suo tempo e ha anticipato di almeno un secolo le tecniche della ricerca folklorica, facendogli avere, a buon diritto, l’appellativo di pioniere del folklore irlandese e non solo. Ma tutto questo io lo scoprii un po’ alla volta, con la difficoltà che negli anni ’70 e ’80 non esisteva internet e la facilità che abbiamo oggi di reperire informazioni, né in Italia esisteva alcun materiale utile, dato che quest’opera importantissima e famosa era del tutto sconosciuta da noi. Inoltre l’Irlanda non era ancora diventata di moda, come poi fu in seguito.
Tuttavia, la lentezza con cui potei compiere le ricerche in un’epoca in cui non esisteva il web e in Italia nessuno sapeva chi fosse Croker,  e l’immersione emozionante in quella che mi pareva l’avventurosa scoperta di un tesoro sepolto, mi permisero di scoprire anche dentro di me un crescente amore per quest’isola, per il suo passato, per la sua gente e, soprattutto, un amore profondo per l’autore, tanto da rendermelo familiare e intimo. Al punto che, il nomignolo con cui l’avevo battezzato, Crofty, scoprii poi essere quello con cui lo chiamavano gli amici più intimi!

Quando, nel maggio del 1825, l’opera uscì, in 600 copie, pubblicata dal più grande editore del tempo, andò esaurita in una settimana! La grande modernità della sua struttura e la sua bellezza spinsero i fratelli Grimm, che alla fine del 1825  ne ricevettero una copia da un amico, a tradurlo immediatamente in tedesco, con un saggio introduttivo che è in sé un piccolo capolavoro. Non sapevano che ne fosse l’autore, ma lo scoprirono quando Croker, immensamente onorato di aver ricevuto tanta attenzione e stima dai due grandi studiosi, scrisse loro una lettera di ringraziamento. Tuttavia, conoscevano già Croker, avendone letto la prima opera, Researches in the South of Ireland, una sorta di viaggio sentimentale in cui però vi erano già i primi accenni di una ricerca folklorica e in seguito gli scrissero che nelle Leggende avevano riconosciuto il suo stile.

In seguito i Grimm e Croker divennero amici e anzi nacque un progetto di pubblicare una storia comparata del folklore europeo, progetto che però non si poté realizzare.

La bellezza, l’importanza di questo lavoro mi spinsero a tradurlo – ed è stata una gioia ad ogni parola – e poi a proporlo a un editore. Ma, come si sa succede che, in Italia, molti editori sono prevenuti nei confronti di autori che non conoscono, anche se famosissimi altrove.  Lo offrii a una serie di grandi editori, la cui mancanza di acume li spinse a rifiutarla. L’Irlanda, come ho detto, sarebbe diventata di moda solo alcuni anni dopo. Poi finalmente Corbo&Fiore ne fecero una prima edizione, anche se non molto curata e nel 1998 – mentre insegnavo all’Università di Cork – Neri Pozza ne acquistò i diritti.  Parlo della Neri Pozza il cui direttore editoriale era all’epoca Angelo Colla, con cui ho collaborato molti anni e felicemente.

L’edizione italiana, per la quale ho scritto un lungo saggio, frutto delle mie ricerche e delle mie scoperte, proseguite poi nel mio lungo soggiorno irlandese, è stata – come ben prevedevo  – un successo e ne sono state fatte moltissime ristampe e numerose edizioni. Mentre mi trovavo a Cork, durante il mio  insegnamento all’University College, l’editore irlandese Collins venne a sapere che io possedevo una copia della prima edizione anonima delle Fairy Legends, quella preziosissima edizione che nemmeno il fornitissimo Dipartimento di Folklore dell’University College di Dublino possedeva e volle farne una ristampa anastatica per celebrare il bicentenario della nascita di Croker, che cadeva proprio quell’anno.  Il volume uscì a mia cura e l’Irish Times mi dedicò un articolo in seconda pagina. Un onore che mai avrei immaginato!

Stephen Pearce, Ritratto di T. C. Croker nella maturità conservato nella Crawford Art Gallery, Cork

Il valore di questo libro per me però, non è solo intrinseco, ma è davvero personale. Infatti è stato proprio leggendo queste pagine e per il profondo desiderio di capire chi fosse quel coltissimo e geniale autore anonimo, quale la storia di quel fascinosissimo libro, che mi sono inoltrata nello studio del folklore irlandese e non ho mai più smesso. Ed è stato come ritrovare una patria perduta, come riudire molte voci che prima tacevano, come inoltrarmi dentro un bosco in penombra seguendo un sentiero che conduceva a una casa illuminata. Questo libro è stato una porta d’ingresso in un passato ancora vivissimo, mi ha condotta in Irlanda, ma mi ha rivelato molti misteri, anche di me stessa.

E in fondo devo a questo libro, a questo autore, pioniere in tutto, se anche per me si sono aperte le porte di un passato che non conoscevo, un passato che è diventato il mio futuro, che ha alimentato i miei studi, le mie ricerche, la mia scrittura, e ha ispirato il mio romanzo, La Strega Bianca – una storia irlandese. Perché questo non è un libro, ma un essere vivente, un pezzo di me e un diretto legame col mio autore.

Copertina della prima edizione anonima delle Fairy Legends, 1825 in mio possesso.

Esistono opere e autori che sono dei classici fin dal loro apparire, e queste Leggende di Thomas Crofton Croker, mai andate fuori stampa in Irlanda, in Gran Bretagna, in Germania, in Svezia e negli USA, sono proprio questo. Non hanno scadenza, perché sono figlie del tempo, come lo sono i miti e tutta la grande tradizione orale.

(C) 2011  by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

The White Witch – An Irish story – by Francesca Diano

The Italian 2010 edition of La Strega Bianca – una storia irlandese (The White Witch – an Irish story) by Francesca Diano


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The White  Witch

an Irish story

a novel by

Francesca Diano

 

Synopsis

 

A long journey through Ireland on a very special quest: a mystery to be unveiled. A love story that belongs to another life. A surprising encounter with  a woman, who is both a witch and a psychic: the White Witch. She  will help raising the veil hiding Sofia’s past.

The beauty and magic of the island will disclose the secret female power, the healing power of the Great Mother Goddess, as agents of a total transformation.

That of  Sofia  is a journey   through time and space, doubled by a journey inside herself.

Thanks to the beauty of a nature still intact, of the rich tradition of myths and legends, surrounded by a world of magic appeal,Sofia discovers a part of herself still unknown.

Sofia comes to Ireland leaving behind a frustrating relationship and a life of sorrows and painful experiences, bringing with her a deep love for this land,  a thirst to know, and the ability to see.

The events of her present life intertwine with flashbacks of a distant past, like in a riddle to be solved.

Visions of past lives, recollections of past events of her present life, mixed together, shifting from one place to the other, from one time to the other, create a fluid reality, where all boundaries are dissolved.

Reality becomes transparent. A see-through wall. So that Sofia will discover the truth hidden behind reality.

And it is in this magic island that the Great Goddess will disclose her healing power.

While meeting the various characters in her new homeland,Sofia recalls people and events of her life, and all the things that were before unclear and confused,  will acquire a new meaning and place through the unexpected events of her new life.

Cork, Cobh, Dublin, Monkstown, the Killarney lakes, Glandore, the National Museum, are all for Sofia places of learning and discovery. Each of them is a centre.

And, in Ireland,  Sofia will find the mother she never had.

The chance finding  of a precious, unknown  drawing by Daniel Maclise, will lead her to the  love she was waiting for since all her life, but, most of all, she will find herself, as a whole and new being.

The special structure  of the novel, like a Chinese box, is intended  to recreate   that unique  sense of time and space of the ancient Celts and of the mythological and oral narration. A circular  time, where past and present are at the same level, where there is no centre and yet the centre is everywhere.

Embedded into the prose writing, are some poems, as poetry was the choice required by writing  at that special point,  to express the deepness of  the distant past.

This is a  story where the female principle and archetype  play a central role.

And it is in this magical island that the healing power of the Great Mother Goddess will emerge and work her healing magic.

Ireland, its people, its myths, and its landscapes become the means and agents of a  rebirth.

All the unanswered questions that Sofia brings with her toIreland, will find their answers. All the pieces of the puzzle will fit, one by one, at the end.

Where is the bay she keeps seeing in her vision? Who is the man on the yacht she has been seeing  all her life sailing on that bay? Why is Ireland so special to her? What is she to find there? All these questions will get their answers.

In the novel’s circular structure, inspired by the Celtic vision of time, beginning and end coincide, so that the beginning is also the end.

And, of course, the end is not the end, but just a new beginning….

FRANCESCA DIANO was born in Rome in 1948. Her father, the famous  philosopher and scholar of ancient Greek, Carlo Diano, professor of Greek Literature and philosophy at the University of Padua, had a great influence on her education and studies, especially as regarding her interest in mythology and ancient cultures.

In 1971 she graduated Magna cum Laude in History of Art at Padua University. In the Seventies she  lived for some time first in Oxford, where she did research on medieval Italian illuminated manuscripts and later for some years in London, where she held courses of Italian Art at the Italian Institute of Culture and worked at the Courtauld Insitute.

In 1997/98 she lectured Italian at University College Cork.

From 1981  she’s a literary translator, working in the years  for well known Italian publishers, like Cappelli Fratelli Fabbri, Neri Pozza, Guanda. Among her authors are: Thomas Crofton Croker, (Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland), Anita Nair, Sudhir Kakar, Themina Durrani, Susan Vreeland, Uzma Khan, Kushwant  Singh, Pico Iyer, Geraldine Brooks etc. She has also translated, among others,  poems by the two Irish leading poets, James Harpur and Gerard Hanberry.

She is the official Italian  translator of all works of the best seller  Indian author  Anita Nair.

Irish folklore and oral tradition are among  her main interests, born  when in 1973 she was so lucky to find  in London one of the few and very rare  original copies of the  1825 first edition of  T.C.Croker’s Fairy Legends .

In 1998 she was the curator for the Collins Press, Cork, of the facsimile edition of 1825 T.C.Croker’s Fairy Legends, the one in her possession. Such  edition was released to celebrate the bicentenary of Croker’s birth. On that occasion she was interviewed  by the Irish Times   about her interest for T.C.Croker and Irish folklore.

Her  Italian translation of Croker’s work, enriched by her  long introduction (published by Neri Pozza  with the Italian title Leggende di Fate e Tradizioni irlandesi)  was also launched at the Irish Embassy inRome, on the personal invitation of the Ambassador and had several reprints and different editions.

She lectures extensively on art, literature, translation studies  (University Alma Mater in Bologna) and Irish folklore. Her essays and articles on Irish folklore have been published on journals and newspapers.

She writes poetry in Italian and English, short stories, essays and is  of course still active as an Art critic, writing essays on some Italian well known artists

In 2012 she was awarded the most important Italian Literary Prize for a short story, the Premio Teramo. In 2013 she published a collection of short stories, Fiabe d’amor crudele (Tales of cruel love) Edizioni La Gru and soon a collection of her poems will be released by the same publisher.

 

 


Musica colta contemporanea e arte contemporanea? Il pubblico è diverso.

Su la Repubblica di sabato 8 gennaio compare un interessantissimo articolo di Alex Ross, critico musicale del New Yorker e autore del bestseller finalista al Pulitzer Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, (Bompiani), dal titolo Per chi suona la musica colta.

Oggetto dell’articolo è la bizzarria per cui, mentre l’arte contemporanea, astratta e non, anche la più ostica, ha ormai un suo pubblico e un suo mercato, che anzi tocca ormai vette  di quotazione direi assurde, come il dipinto astratto N°5 di Jackson Pollock, che ha raggiunto il record di vendita di 140 milioni di dollari, non la stessa felice sorte tocca alla musica colta, o musica classica contemporanea, a cui manca un analogo calore di pubblico.

Compositori come Webern, Alban Berg, Boulez, John Cage, Karl Heinz Stockhausen, Shoenberg, o Luigi Nono, Giacinto Scelsi ecc.  e molti altri tra i grandi del primo e secondo 900 e viventi, hanno un pubblico fedele spesso fatto di conoscitori raffinati, ma le sonorità assai lontane da quella che si intende generalmente come musica classica non attraggono e anzi respingono il grande pubblico dei concerti.

L’arte moderna e contemporanea, invece, conosce una stagione di successo, soprattutto economico, oltre che critico, mai visto. Staccando di molte, ma molte lunghezze, le quotazioni dei grandi del passato. (Il che è già sospetto).

La prova ne sono appunto le quotazioni da capogiro, le gare tra i tycoons per accaparrarsi questa o quell’opera  e gli inneggi sperticati dei critici.

Lo stesso si dica per scrittori come il James Joyce dell’Ulisse o di Finnegan’s Wake, o Musil, o Ionesco, o Becket, le cui opere ora nessuno si sognerebbe di giudicare improponibili o prive di valore.

Allora perché la musica colta, perfino quella di quasi un secolo fa, che proprio contemporanea non sarebbe più a rigor di termini, non è entrata ormai nella sensibilità e nell’apprezzamento della gente?

Io ricorderei però che anche in passato la musica ha affermato il proprio stile con un certo ritardo sulle forme e gli stili di altri generi artistici.

All’articolo di Ross segue un più breve articolo di Alessandro Baricco, che sottolinea come uno dei motivi di questa percepita osticità della musica colta stia nell’equivoco generato dal credere che musica classica e musica colta siano collegate, che la seconda sia la versione contemporanea dell’altra.

Per quanto le analisi di Ross e Baricco sui motivi della poca fortuna generale della musica colta siano profonde e mirate, né l’una né l’altra tengono conto di un fatto fondamentale. E il fatto è questo:

L’arte contemporanea (pittura, scultura, video, installazioni ecc) ha un tale successo economico, di pubblico e di critica, per il solo e l’unico motivo che il mercato e dunque il gusto, oltre che la moda, sono creati dai critici e dai mercanti d’arte, gli uni in combutta con gli altri.

Chi in genere ammira in una mostra o in un museo un dipinto di Mark Rothko, o di Jackson Pollock, o di Basquiat, o di Emilio Vedova o di chi come loro ha un linguaggio bel lungi dall’essere immediato, ben poco comprende – sono assolutamente  certa – di quel linguaggio. Parlo ovviamente non degli addetti ai lavori, ma dello spettatore generico. Eppure, convinto del valore di quelle opere da centinaia, migliaia di articoli, libri, trasmissioni, mostre, esposizioni e transazioni milionarie e miliardarie, si racconta che ciò che ha di fronte è un capolavoro. Cosa poi significhi, cosa gli comunichi, è tutto da vedersi.

Tra il fruitore e l’autore, nel mondo dell’arte moderna, il cui linguaggio, a partire dal Romanticismo, è divenuto sempre meno comprensibile, grazie alla convinzione che l’artista ha da tenere d’occhio un solo fine: la libertà dell’arte, si sono incuneate con successo due figure chiave: il critico d’arte e il mercante. E, a quanto parrebbe, sono lì per restare.

Il Romanticismo e la sua sete di libertà espressiva hanno fatto sparire quasi del tutto la figura del committente, che in genere in passato erano la Chiesa, i principi e poi i ricchi mercanti. Ora la distanza tra il fruitore e l’artista s’è accresciuta al punto che c’è bisogno di chi ti dica cosa significa, che valore ha ecc. E non sempre chi te lo dice parla con onestà. Spesso parla per avidità, per realizzare un profitto.

L’arte sta nelle gallerie d’arte, in mano ai mercanti, non più nelle botteghe e negli atelier degli artisti.

Questo è il frutto di un grande equivoco, che non è quello di cui parla Baricco, ma un altro, ben più profondo. L’equivoco è che si dà per scontato che l’arte sia qualcosa di immediatamente comprensibile a tutti, una questione di gusto, di pelle, di emozioni. E dunque l’arte ormai classica, essendo entrata nella sensibilità generale, parrebbe non porre più problemi di comprensione.

Invece l’arte è un linguaggio, che è necessario conoscere per comprendere. Come non è possibile comprendere una lingua che non si conosce e al massimo se ne può apprezzare il suono, l’armonia, il ritmo, ma non certo il significato, così anche l’arte e i suoi diversi linguaggi va appresa per essere compresa. L’arte, qualunque forma d’arte e di linguaggio artistico, è lo specchio fedele del tempo che la produce e quindi ne riproduce, spesso in anticipo e in profondità, la visione del mondo.

Il fatto che il linguaggio musicale della musica colta sia meno comprensibile per l’ascoltatore, non è perché – come afferma Baricco – la musica classica e quella contemporanea sono due cose diverse, ma perché c’è una grande carenza di educazione musicale e dunque di conoscenza, quindi sono pochi gli ascoltatori in grado di giudicare e comprendere.

A questo si aggiunga, per ulteriore chiarezza, che per la maggior parte della gente è difficile in ogni caso comprendere il senso di ciò che accade nel tempo in cui viviamo, perché ci siamo immersi e non abbiamo la giusta distanza critica ed emotiva per farlo. E perché è più comodo lasciare ad altri la responsabilità di consegnarci un senso già confezionato.

L’arte invece è un termometro sensibilissimo dei tempi e ne mette in evidenza il senso e il significato. L’arte è un processo dalla confusione alla chiarezza, diceva Konrad Fiedler.

Ma appunto se ne deve conoscere il linguaggio.

Nel mondo della musica colta non si verificano i fenomeni di sfruttamento economico che vediamo nel mondo delle altre arti, perché si è capito che non offrirebbe grande profitto. Questo si verifica invece con la musica pop e rock o metal o rap o trap o qualunque altra roba che, buona o cattiva che sia, attira orde di fans paganti grazie al baraccone pubblicitario e alla mitologia creata ad arte che la circonda.

Non si tratta dunque di questioni artistiche, ma di vile profitto. L’arte – in tutte le sue forme e manifestazioni – è un linguaggio, che va appreso per essere compreso. Evitando, se possibile, gli intermediari, spesso interessati. Dunque oggi, in mancanza di questi intermediari, il cosiddetto “uomo della strada” non ha strumenti per orientarsi da solo.

Non li aveva nemmeno in passato, tanto che l’arte è SEMPRE STATA un fenomeno d’élite. L’altro equivoco moderno è che l’arte debba essere sempre e per forza un linguaggio popolare e comprensibile a tutti.

Non lo è.

Ecco la risposta alla domanda posta dall’articolo di Ross.