Antonin Artaud e il Teatro della “crudezza” per liberare l’uomo dalla crudeltà.

Mi sono spesso chiesta cosa vi fosse di crudele nell’idea di teatro come esperienza totale e universale dell’esistente, come presenza dell’Assoluto e labirinto di simboli che Artaud aveva maturato e a cui aveva dedicato infine ogni suo respiro. E se la traduzione della definizione di Artaud, “théâtre de la cruauté” con “teatro della crudeltà” (in inglese theatre of cruelty) non fosse del tutto corretta, anche se ormai universalmente accettata? Non sarebbe forse più aderente alla visione di teatro che egli esprime nel Teatro e il suo doppio, la resa con “Teatro della crudezza“, dato che non di crudeltà come comunemente la si intende si parla, ma più di crudo come rigore, austero, essenziale, depurato da qualunque possibile o persino impossibile elemento non permetta la totale fusione delle parti in un’unità abissale? Del resto crudezza è uno dei possibili significati di cruauté.

E’ nel vedere per la prima volta una forma di teatro non occidentale – il teatro balinese – che Artaud ha la sconvolgente rivelazione. In quella forma d’arte totale che è il teatro balinese trova una risposta. Non sa che l’avrebbe trovata, se vi avesse assistito, anche nel teatro-danza Kathakhali (anzi, lì ancor di più), o in altre analoghe forme d’arte teatrale, o sacra orientale, persino quelle più popolari e meno complesse. Quella è infatti la cifra delle sacre rappresentazioni d’Oriente, dove altra realtà non v’è se non il manifestarsi del Sacro e del numinoso in una sorta di sciamanica allegoria dei Primordi. E sopra ogni cosa, ad essere bandita dal suo teatro è la parola, la lingua come espressione suprema del lògos. Nessuna suadenza del pensiero espresso in modo articolato e mediato, nessuna ambiguità creata dalla parola, che infatti nasconde in sé, insieme al Bene, ogni Male possibile. La parola, che ha forgiato e forgia – oggi più che mai degradata e svuotata della sua potenza e della sua originaria nobiltà – l’Occidente. Di quanta crudeltà e ambiguità si può caricare la parola, quali orrori si possono perpetrare usandola come strumento di manipolazione e falsità? No, Artaud esige il Primordiale, ciò che esisteva prima della parola e per giungervi deve spogliare l’intera civiltà occidentale – e se stesso – di tutto ciò che impedisce al primordiale di emergere. Ecco dunque la crudezza, il necessario rigore nello sfrondare il superfluo, le superfetazioni, l’inutile che hanno sepolto l’Assoluto e l’Origine. Non la crudeltà. Anzi, proprio l’opposto! Crudezza per mondare della crudeltà! E all’origine c’è un grido, un grido che permea l’universo e genera genera genera genera. Quel grido che Artaud ben rappresenta in questo suo autoritratto e che è l’immagine della sua anima fattasi animale sacrificale.

Talvolta è dal grande dolore che nasce la luce accecante che ogni cosa rende Vera e fertile. Nel processo alchemico che per eccellenza sono la vita umana e l’arte, tutto ciò che è corrotto va combusto e sublimato perché nuovamente generi e poi, a sua volta si corrompa e ancora si purifichi e rigeneri. Senza questa purificazione – senza questa determinata rimozione del superfluo per lasciare solo il più profondo essenziale – non vi può essere visione del sublime, non vi può essere ricongiungimento all’Origine.

Francesca Diano

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