Le mura di Ninive

La dea Ishtar

La dea Ishtar

L’Isis ha distrutto le mura di Ninive. Prima di loro lo fecero i Medi e i Caldei. Lo fecero nel corso di una guerra di conquista per distruggere il dominio assiro, che allora era uno dei più ricchi e potenti. E, come preannunciato dai profeti biblici, da Giona soprattutto, la ridussero a un cumulo di rovine. Nulla di nuovo rispetto alle guerre moderne, se non i mezzi tecnologici che permettono distruzioni più rapide ed estese. Le guerre sono tutte noiosamente – se un tale avverbio può mai adattarsi alla tragedia di ogni guerra – uguali a sé stesse. Tutte egualmente idiote. Ma le guerre hanno scopi ben precisi, che sono esclusivamente economici. Non ne hanno altri, anche se l’ignobile bugia che vi fa da copertura è sempre ideologica. Tuttavia, puntualmente sfuggono ai progetti di chi le promuove. Anche in questo sta l’idiozia della guerra, che nei millenni si ripete pari pari. Sfugge al controllo. I danni sono sempre maggiori dei ricavi. Credo la cosa abbia a che fare con quella parte guasta dell’uomo, quella falla insanabile, quel tallone d’Achille, quel difetto di fabbrica, che marchia da sempre l’umanità. La sua stupidità.

Nonostante questo, ogni guerra, anche quelle che oggi ammorbano il povero pianeta che ci ospita, ormai assai malvolentieri, ha lo scopo di produrre un qualche guadagno: potere, vantaggi economici, prestigio politico. Ma poi ci sono le variabili impazzite che sfuggono al controllo. Come in questo caso, quando si distrugge la propria ricchezza, il proprio patrimonio culturale, invece che quelli altrui. (Anche se, parlando di patrimonio culturale, non esiste un altrui. Tutto appartiene all’umanità e dunque a noi stessi.) E’ successo durante la rivoluzione culturale cinese, è successo perfino in Europa, con i roghi di intere biblioteche o con lo smantellamento di centinaia di monumenti “pagani”, con le distruzioni di Cromwell ecc. E  allora ci si chiede: perché questo avviene? Credo che la prima risposta sia: per ignoranza. Proprio nel suo senso più tragico, di cecità, di annientamento dell’anima. Lasciare nelle mani di bruti ignoranti millenni di patrimoni culturali raffinatissimi significa scatenare in chi è ignorante la rabbia e l’invidia contro ciò che non è, né mai sarà, alla propria portata e ti fa sentire inferiore, inadeguato. Rafforza in questi ciechi il senso di fallimento, di impotenza. Così la reazione è quella della rabbia bruta, del ritorno a istinti primordiali e acritici, quella della distruzione totale. Ma – e qui sta la differenza rispetto alla distruzione “normale” di una guerra in campo nemico – la distruzione è quella della propria cultura, delle proprie radici, del proprio passato, della propria storia. Vale a dire, di sé stessi. Abbattere statue del Buddha scavate nella roccia, distruggere reperti, opere che mai più si potranno ricreare, edifici pazientemente riportati alla luce nel corso di decenni di scavi e che sono la storia dell’uomo, significa negare quella parte creatrice e ideatrice di civiltà che l’uomo possiede. Ma che è la tua stessa storia. Che sei tu.

La nostra civiltà ha iniziato a promuovere  questo tipo di distruzione soprattutto dal ‘900. E seguita. Arma le mani di folle di folli ignoranti pensando di rivolgerle contro chi si oppone ai propri piani di dominio politico, dunque economico. E non si accorge che ormai, in un mondo globalizzato, le guerre sono sempre e solo contro sé stessi. Perché meravigliarsi se la bassa manovalanza arruolata per i propri sporchi scopi poi distrugge le mura di Ninive? Se poi distrugge quelle esili mura che ci separano dal ritorno alla ferinità?

(C)2015 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Gerard Hanberry – Vi presento la punteggiatura.

amanuense

Gerard (Gerry) Hanberry (1955), di cui ho già pubblicato su questo blog, in anteprima assoluta per l’Italia, alcune poesie da me tradotte,  è un notissimo poeta e scrittore irlandese, che vive a Galway. Laureato in letteratura inglese, è stato giornalista, con una sua rubrica settimanale su un quotidiano nazionale, persino cantautore – attività che ancora svolge occasionalmente –  e tiene corsi universitari di scrittura creativa e scrittura poetica a Galway.

Ha pubblicato quattro raccolte di poesie, Rough Night, Stonebridge Publications, 2002, Something Like Lovers, Stonebridge Publications, 2005.  At Grattan Road, Salmon Poetry 2009 e What Our Schoes Say About Us, Salmon Poetry 2014, che gli hanno guadagnato numerosi premi, tra cui il Brendan Kennelly Sunday Tribune Poetry Award ed è stato finalista in numerosissimi premi nazionali di poesia. È regolarmente invitato ai più importanti festival poetici e a reading pubblici e ha tenuto reading delle sue poesie sia alla radio nazionale che alla TV nazionale irlandese RTE. Tiene inoltre corsi universitari di scrittura poetica all’università di Galway.

È membro permanente della commissione del Cùirt International Festival of Literature.

Nel 2011 ha pubblicato un’originalissima e documentatissima biografia di Oscar Wilde, More lives than one, in cui per la prima volta si indaga non solo sulla vita e sulle tragiche vicende del genio Wilde, ma, con il supporto di molti documenti fino ad ora inediti (parte dei quali forniti dai discendenti di Wilde) si traccia un quadro in parte ancora sconosciuto delle origini familiari e delle motivazioni che condussero Wilde alla sua fine infelice. Il tutto senza avere però la pesantezza di una fredda biografia, ma con una felicissima scrittura allo stesso tempo documentata e poetica, narrativa e stringata. Il libro ha ricevuto recensioni entusiastiche ed è stato presentato in Irlanda, in Inghilterra, in Australia e negli USA. E’ stato presentato anche a Dublino, nella residenza e al cospetto del Presidente della Repubblica, che ha voluto congratularsi personalmente con Hanberry.

Vi presento la punteggiatura (Meet the Punctuation) è un ironico, divertente, anche irriverente corso di stile letterario – di un’ironia dunque tutta irlandese – su di una componente essenziale della lingua scritta, che spesso viene trascurata, male usata, maltrattata, talvolta persino da chi dovrebbe essere specialista del settore. I segni d’interpunzione hanno una lunga storia alle spalle e, in qualche modo, siglano un patto d’intesa  fra la lingua parlata e la lingua scritta. Rivelano, in fondo, la presenza del respiro umano, ma anche del tono, della tonalità, dunque delle emozioni e della voce dello scrittore. Del suo stile. Persino nella loro totale assenza, come nel monologo joyciano di Molly Bloom.

Un uso maldestro della punteggiatura non è mai un indice positivo all’interno di un testo, né depone a favore di chi scrive e davvero sarebbe interessante un’analisi stilistica da questo punto di vista. La capacità letteraria di un autore trapela anche da qui.

L’ironia nasce anche dal contrasto tra l’astrattezza dei simboli grafici e l’umanizzazione di questi segni apparentemente aridi, cui Hanberry attribuisce sentimenti, pregi e difetti umani. La loro funzione, enfatizzata dall’occhio e dall’orecchio attento di un grande poeta, emerge con tale forza, da costringerci ad un’attenzione da amanuense e a un rispetto maggiore per questi indispensabili, umili compagni della parola scritta, senza i quali essa rimarrebbe non solo spesso ambigua, ma appiattita e atona, confinata alla carta, senza raggiungere la mente e il cuore. Poiché sono davvero le piccole cose a rivelare il valore delle più grandi. In fondo, non è attraverso la leggerezza che si giunge al nucleo delle maggiori verità?

Questo testo giocoso – delizioso il riferimento alle arie che si dà la Lineetta dopo l’incontro con Emily Dickinson – rivela solo una delle corde creative di Hanberry, che sono molteplici e spaziano dal dramma, al folklore, dall’intimità, all’impegno civile, dall’idillio al pathos. E, nel leggerla e tradurla, non ho potuto non pensare a quelle pause di leggerezza che si prendevano i monaci irlandesi durante il faticoso lavoro di amanuensi e di prodigiosi miniatori nei loro scriptoria, quando, con gli occhi arrossati e la mente affaticata per la stanchezza, nella concentrazione necessaria a tracciare complicatissimi disegni e viluppi nastriformi, disegnavano lungo i margini della pergamena gatti che inseguivano topolini, salmoni danzanti fra le onde, piccole caricature di confratelli. Ma pur sempre usando quello stesso inchiostro, quello stesso calamo, quegli stessi pigmenti con cui creavano i capolavori che ci hanno lasciato in eredità.

F.D.

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VI PRESENTO LA PUNTEGGIATURA

Almeno dove stiamo lo si sa

col Punto Fermo –

che sulla faccia ti sbatte la porta,

suona la campanella della fine,

e picchia con il dorso del badile

sulla tomba panciuta.

Non lasciate che v’abbia in simpatia

e state in guardia da quello schizofrenico

del Punto e Virgola ch’è il suo fratellastro –

quell’ammiccante banderuola segnatempo,

quel mercante del quello-che-ti-pare,

il Signor Insulsaggine e il suo compare

l’Apostrofo arraffone,

primo rimpiazzo della squadra locale

se le Vocali non mostrano la faccia.

E dopo c’è quell’esibizionista

la Lineetta, di ritorno da Amherst,

tutt’arie pretenziose e trepida incertezza,

spesso disoccupata al giorno d’oggi, sempre lo stesso ruolo

o così dice dopo quella gran cosa con Emily.

Non c’è che compatire quei poveri infognati

dei Due Punti che han da sopportarli tutti quanti,

a far da sentinella sulla porta,

col blocco degli appunti e spuntando la lista,

i quartiermastri della famiglia

lasciati a difesa del fortino quando la Lineetta

se n’è partita per il Nuovo Mondo.

Ma affidabili, manterranno l’ordine

a differenza del vero playboy della famiglia

il capriccioso Punto Esclamativo!

tra tutti i segni d’interpunzione il più erotico.

Guardatelo come lì se ne sta,

superbo, eretto.

Guardate un po’ come semplici parole

quali Ahi! Sì! Oh! e perfino Ah!

si fanno creta nelle sue mani sordide.

Non c’è parola che sia al sicuro infatti

dal Signor Sempre Pronto.

Usami, insiste,

usami spesso,

soprattutto nei fine settimana

quando i vicini sono

andati via!!!

°°°°°°

Meet the Punctuation

At least you know where you stand
with Full Stop –
ole’ door slammer,
time-bell chimer,
back-of-the shovel tapper
to the full-bellied grave.

Don’t let him get a liking for you
and watch for his schizophrenic
half-brother Semi-Colon –
that nod-and-wink weathercock,
whatever-you’re-having-yourself merchant,
Mr Wishy-Washy and his side-kick
Apostrophe, the grabber,
first sub’ on the local team
when the Vowels fail to show

Then there is Flash Harry himself
The Dash, back from Amherst,
all arty airs and breathless indecision,
out of work a lot these days, typecast
or so he says after that big thing with Emily.

You could only pity poor stick-in-the-mud
Colon putting up with them all,
keeping sentry at the gate,
with his clipboard, ticking the list,
the quartermaster of the family
left holding the fort when Dash
took off for the New World.
Dependable though, he will keep order

unlike the real playboy of the family
the volatile E mark !
the most erotic of the Punctuations.
Look at him standing there,
proud, erect.
Cast your eyes at how simple words
like Ouch! Yes! Oh! and even Ah!
are putty in his sleazy company.
In fact no word is safe from
Mr Ever Ready.
Use me, he insists,
use me often,
especially at weekends
when the neighbours are
away!!!

(C) 2015 by Francesca Diano per la traduzione e l’introduzione. RIPRODUZIONE RISERVATA

Hans Christian Andersen – La diligenza a dodici posti

Con questa scoppiettante fiaba di Andersen, che ho amato moltissimo e che spesso mi leggeva mio padre prima che imparassi a leggere, inizio l’anno nuovo. A tutti auguri e grazie a tutti i visitatori che sono arrivati in questi anni sul mio blog.

F.D.

Inside cover illustration of Andersen's Fairy Tales (New York, 1944) by Arthur Szyk.

Arthur Szyk – Illustrazione per le Fiabe di Andersen – New York 1944

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Faceva un freddo, intenso, pungente: il cielo luccicava tutto di stelle, non tirava un alito di vento. Bum! un vaso sbattè sulla porta. Pim! Pam! fecero l mortaietti di rimando, perchè si festeggiava l’anno nuovo. Era l’ultima sera dell’anno, l’orologio della chiesa aveva suonato allora allora dodici tocchi.

Troc troc! Troc trocl Terretee! Il carrozzone della diligenza arrivava, pesante, mezzo sconquassato; e si fermò alla porta della città.
Dentro c’erano dodici passeggeri, nè di più avrebbe potuto portarne; tutti i posti erano presi. “Evviva, evviva! “gridava la gente in tutte le case della città, perchè era l’ultima sera dell’anno;  e allo scoccar della mezzanotte tutti riempirono i bicchieri, e bevettero alla fortuna dell’anno nuovo.

“Salute per il nuovo anno! “ era l’augurio di tutti: “Una mogliettina, tanti soldi, fine dei problemi!”

Già, questo desideravano, facevano tintinnare i bicchieri e…. proprio in quel momento, alla porta della città si fermava la diligenza con i dodici forestieri.

Che genere di persone erano quei viaggiatori?
Ciascuno aveva  il suo passaporto ed il suo bagaglio; e portavano persino dei regali, per te, per me, per tutta la gente della città.
Ma chi erano? Che volevano? Che cosa portavano poi?
“Buon giorno!” gridarono alla sentinella ch’era di guardia alla porta della città.
“Buon giorno! “ rispose la sentinella; e al primo che scese dalla diligenza:

“Il suo nome e la professione?” domandò.  “Veda Lei, nel passaporto!” rispose l’uomo: “lo son chi sono!” Ed era un bel tipo davvero, tutto ravvolto in una pelliccia d’orso e con gli scarponi col pelo: “ Sono colui su cui tanti e tanti concentrano le speranze. Venga da me domani, e le darò una bella strenna di capo d’anno. Spargo per tutto mance e doni, e faccio inviti a balli e a feste; ma più di trentuno non ne posso dare. Le mie navi sono in mezzo ai ghiacci, ma il mio studiolo è caldo e vi si sta bene. Sono negoziante all’ingrosso: il mio nome è Gennaio, e porto con me solo conti.”
Scese a terra il secondo; era un allegro camerata, impresario di teatri, direttore di balli figurati, anima di tutti i divertimenti possibili e immaginabili. Tutto il suo bagaglio consisteva in una grossa pentola. “Quando c’è questo, l’allegria non manca mai” diss’egli, “Voglio far divertire, ma voglio anche divertirmi, poi che ho poco tempo da vivere: di tutta la famiglia sono quello che vive meno, ventotto giorni soltanto. Tutt’al più, ogni tanto, mi buttan là un giorno per soprammercato; ma non ci conto molto, e faccio buon sangue egualmente. Urrà!”
“Non tanto chiasso! “ fece la sentinella.
“Posso fare quanto chiasso mi pare e piace! “ rispose il viaggiatore:
“Sono il Principe Carnevale, e viaggio incognito sotto il nome di Febbraio”.

Scese il terzo. Era magro come la Quaresima, ma stava impettito perché era parente dei Quaranta Cavalieri danesi, faceva lunarii e prevedeva il tempo e le stagioni. Il mestiere, però, non era troppo lucroso, ed ecco perchè consigliava tanto i digiuni. Portava all’occhiello un mazzolino di violette, ma piccine piccine e stente.
“Don Marzo, Don Marzo!”  gli gridò il viaggiatore sceso dopo di lui, e gli battè sulla spalla: “Non senti che buon odorino? Va’ subito nella saletta dei doganieri: stanno bevendo un ponce, la tua bevanda prediletta. L’ho sentita alla fragranza. Corri, corri, Don Marzo!”
Ma non era vero niente; colui che parlava non voleva se non fargli una burla, uno dei suoi famosi pesci, perchè aveva nome Aprile, e col primo pesce cominciava la sua carriera nella città. Sembrava molto allegro; lavorava poco, perchè aveva più vacanze di tutti.
“Basterebbe che ci fosse un po’ più di stabilità a questo mondo! “ disse.
“Ma talvolta siamo di umore gaio; tal altra uggioso, secondo le circostanze. Ora piove, ora fa sole; ora si sgombera, ora si torna. Io tengo una specie di agenzia di collocamenti, fitti e vendite, ed ho anche l’impresa dei trasporti funebri. Rido o piango, a seconda del momento. In questa valigia ho i miei vestiti da estate ma non sono tanto sciocco da mettermeli Eccomi qui! La domenica vado alla messa con le calze di seta a trafori e col manicotto”.

Dopo di lui, scese una giovinetta. Aveva nome Maggiolina, portava un leggero vestito da estate, d’un verde tenero, e, sopra le scarpette, un paio di galosce. Nei capelli aveva un mazzolino di anemoni, ed era tanto profumata di timo, che la sentinella starnutì.
“Dio vi benedica!” esclamò la fanciulla; e quello fu il suo saluto.
Com’era bella! E come sapeva cantare!
Non era cantatrice da teatro, nè da camera; era cantatrice di bosco, perchè andava errando lietamente per la verde foresta e cantava per suo piacere. Nella borsetta da lavoro aveva due libriccini: Le incisioni di Christian Winther, perché sono come il bosco di faggi, e Le piccole poesie di Richardt, che sono come le stelline odorose.

“Ora arriva la signora, la giovane signora!” gridarono da dentro la carrozza, e così uscì la signora, giovane e snella, fiera e graziosa. Si vedeva subito che era nata per festeggiare i “sette dormienti”. Teneva un banchetto nel giorno più lungo dell’anno perché si avesse il tempo di mangiare le molte portate; poteva permettersi di viaggiare in una carrozza tutta sua, ma arrivò con la diligenza come gli altri, in tal modo voleva dimostrare di non essere altezzosa; del resto non viaggiava da sola, era accompagnata dal fratello minore Luglio.

Lui se la passava bene, indossava abiti estivi e un panama. Portava solo abiti per il viaggio, era così faticoso col caldo. Aveva solo la cuffia e i calzoncini da bagno; non è molto.

Poi arrivò madama Agosto, fruttivendola all’ingrosso, proprietaria di molti vivai di pesci, contadina in crinolina; era grassa e calda, partecipava a tutto, andava in giro con la botticella della birra fra la gente nei campi. “Con il sudore della fronte mangerai il pane” disse, “sta scritto nella Bibbia; poi si può anche fare il ballo nel bosco e la festa per il raccolto!” Era madama Agosto.

Poi scese ancora un uomo, pittore di professione, il maestro del colore, al bosco veniva detto che le foglie dovevano cambiare colore quando lo voleva lui, ma doveva essere bello; subito il bosco diventava rosso, giallo, marrone. Il maestro fischiava come lo storno nero, era un buon lavoratore e attaccava i pampini verdebruni di luppolo al suo boccale della birra, era un ornamento e lui aveva occhio per gli ornamenti. Eccolo lì con il suo vaso di colori, che era tutto il suo bagaglio.

Lo seguiva un signore di campagna, che pensava al mese della semina, all’aratura e ai lavori della terra- be’ anche un po’ al divertimento della caccia. Il conte Ottobre aveva con sé cane e fucile e la carniera piena di noci, che facevano un rumorino secco quando camminava. Portava un bagaglio di dimensioni incredibili, aveva persino un aratro di fabbrica inglese; e non parlava che di agricoltura, ma a mala pena si sentiva quel che diceva per la gran tosse e le rumorose soffiate di naso del suo vicino.
Quegli che tossiva così era Novembre, molto seccato da una tremenda infreddatura: tanto che portava un lenzuolo invece del fazzoletto. E, nonostante l’infreddatura, gli toccava  andar in giro con le nuove cuoche e le domestiche, per condurle a far le provviste ed insegnar loro il servizio d’inverno. Diceva che si sarebbe liberato dai suoi malanni andando al bosco a far la legna: doveva spaccarla e segarla, perché era Gran Guardiano della Confraternita dei segantini e fornitori del focolare. Passava la sera a intagliare suole di legno per i pattini, perché sapeva bene, diceva, che tra poche settimane ci sarebbe grande richiesta di quel genere di calzature.

Infine comparve l’ultimo viaggiatore, il vecchio Nonno Dicembre, con lo scaldino in mano.
Era tutto intirizzito, ma gli occhi gli brillavano vividi come due stelle e teneva tra le braccia un vaso di fiori, dove cresceva un piccolo abete. Diceva: “Avrò cura di quest’alberello, perchè cresca bene, e per la sera di Natale possa arrivare con la vetta a toccare il soffitto e cresca con le candele accese, le mele dorate e i ritagli. Questo scaldino manda un calore, che pare una stufa… e io tiro fuori il libro delle fiabe e leggo ad alta voce cossicchè tutti i bambini nella stanza rimangono in silenzio. E allora le figurine dell’albero di Natale diverranno vive, e il piccolo angelo di cera spiegherà le alucce di stagnola dorata e volerà giù dalla vetta dell’albero, e bacerà grandi e piccini, tutti quelli che sono nel salotto caldo, ed anche i poveri bambini che stanno fuori, in istrada, e cantano il canto di Natale della stella di Betlemme”.

“Bene; ora la diligenza può andare!” disse la sentinella: “Tutti i dodici passeggeri sono scesi. Frusta cocchiere!”
“Prima bisogna che i dodici viaggiatori vengano qui da me!” disse il Gabelliere.
“Uno per volta! I passaporti restano a me. Ognuno è valido per un mese; finito il mese, scriverò sul passaporto le generalità e le note a seconda della loro condotta. Prego signor
Gennaio, entrate pure!”
E così entrò.
Finito l’anno, cari lettori, credo che sarò in grado di dirvi quello che i dodici viaggiatori avranno portato in dono a me, a voi, a tutti. Ora non lo so, parola d’onore; e sto per dire che forse non lo sanno nemmeno loro. Si vive in certi tempi cosi strani!