Acqua alta – un racconto di Francesca Diano

Marc Chagall. La Vita

Marc Chagall. La Vita

Acqua alta

da Fiabe d’amor crudele, Edizioni La Gru, 2013

 

 La luce grigiastra gioca a rimpiattino con il respiro dell’acqua sotto il ponte delle Guglie. Un’ondina un riflesso, un riflesso un’ondina. La pioggia si diverte a trafiggere le ondine. L’odore forte di freschin annuncia scirocco ed è giugno.

Non è periodo di acqua alta, ma quando ieri mattina è iniziato a piovere ed è seguitato per tutta la giornata ed è continuato a piovere per tutta la notte e ancora nel corso della mattinata non ha accennato a smettere, l’acqua è presa a salire contro ogni previsione. Al punto che anche zone raramente  invase dall’acqua alta ne vengono sommerse.

La sirena ha diffuso in tutta la città il suo suono inquietante dall’eco un po’ sinistra e con l’alta marea il canale sotto l’arcata panciuta del ponte arriva a lambire i muri delle case, cancellando sul rio ogni separazione tra mare e mura.

È un’ostinata pioggia autunnale fuori tempo travestita da temporale estivo. Qui anche la pioggia è in maschera.

Se, appena dove il ponte delle Guglie plana  sulla salizada, si volta a sinistra, a metà del rio, sulla destra, si apre il portichetto che immette in Ghetto. Un piccolo vòlto che reca ancora i segni dei cardini su cui era imperniata la porta da chiudersi al tramonto e aprirsi all’alba. Così, per secoli, fino all’arrivo dei napoleonici che, fedeli ai principi egualitari della Rivoluzione, divelsero quel vergognoso ricordo di una separazione, non tanto degli ebrei dai bravi cristiani, ma dei bravi cristiani dagli ebrei.

Subito sotto il vòlto c’è la calle stretta su cui si apre il forno kasher. Tutti quei dolcetti di mandorle, quei pani azzimi, quelle tortine zuccherose ordinati in montagnole nella minuscola vetrina, vengono disposti ogni giorno come un baluardo di sapori  contro la dimenticanza.

A  fondale della calle, la facciata solenne della Schola Spagnola, quasi accudita dagli altissimi edifici a molti piani, fa da prologo alle bellezze che si celano dietro la curva a gomito. In Ghetto ormai si sente parlare molto di frequente angloamericano e americani sono i negozietti e le piccole botteghe di souvenir ebraici e americano è il libraio antiquario. In Ghetto si è ben radicata da qualche anno una comunità chassidica  Chabad-Lubavitch, proveniente dagli USA. New York, per essere più precisi.

I Lubavitcher, con i loro severi cappotti e cappelli neri a larga tesa, le loro barbe fluenti o, per gli studenti chassidici, le semplici camicie bianche portate con pantaloni neri come una divisa, hanno recato un certo scompiglio nella vecchia comunità ebraica del Ghetto, che li osserva con scarsa simpatia. Ma è suggestivo vederli camminare in campo o mangiare seduti ai tavoli posti  sull’orlo del canale davanti al ristorante kasher, in tavolate che si animano nelle discussioni e nel buon cibo ortodosso.

Giovanni è appena sceso dal treno, che è arrivato in forte ritardo. E non ha con sé stivali di gomma. Esce  dalla stazione, svolta a sinistra, in Strada Nuova verso il ponte delle Guglie. È molto cambiato il Ghetto da quando ancora abitava lì vicino con sua madre. L’arrivo dagli USA della nuova comunità lo aveva molto incuriosito. Un amico che insegna ebraico a Ca’ Foscari gli ha raccontato del pensiero Chabad-Lubavitch, dell’origine del movimento, del fondatore, il rebbe Shneur Zalman di Liadi  e delle tradizioni su cui si fonda la comunità. Il misticismo del pensiero del rebbe unito alla sua profonda conoscenza dell’animo umano, la sua capacità di definire la felicità e il suo raggiungimento attraverso l’unione col divino l’aveva catturato.

La pioggia sta diventando più battente. Nemmeno l’ombrello.

Scavalcando la barriera per l’acqua alta messa a guardia dell’ingresso, entra in una piccola valigeria dove, come quasi ovunque a Venezia, sono esposti ombrelli e stivaloni di gomma. Si toglie i mocassini zuppi – camoscio beige, cuciti a mano, figurarsi! – e infila i piedi in un paio di stivali di gomma verde che gli arrivavano alle ginocchia. Compra anche un ombrello ed esce, certo di essersi attrezzato per quella specie di monsone. Ora la pioggia si è infittita.

Il cellulare squilla. Ombrello, sacchetto del negozio, è Gregorio, di sicuro. Annaspando con le dita riesce ad aprire la tasca della sahariana di lino e ad afferrare il cellulare.

<<Dove sei!>> la voce di Gregorio ride e comanda.

<<Guarda Orio, qui c’è il monsone!>>

<<Ma dove sei? Sotto la doccia? Sento lo scroscio>>, gli chiede. <<E per l’amor di dio non chiamarmi con questo ridicolo diminutivo!>>

<<Per l’acqua che sta venendo giù potrebbe essere. Il fatto è che sale anche da sotto. Sono a Venezia e c’è l’acqua alta.>> L’ombrello si piega sotto le raffiche, il sacchetto rischia di cadergli di mano. <<Non posso certo chiamarti Greg. È orribile e snob. E se ti chiamo tutto intero metà di te è già scappato.>>

<<Ti voglio bene>>, dice Gregorio col tono brusco che  emerge quando i sentimenti gli sfuggono dalla gola.

<<Anche io>>, risponde Giovanni. <<Quando ti vedo?>>

<<Appena posso. Credo presto.>>

<<Credi? Lo dici ogni volta. Io…>>

<<Domani ho il volo per New York, lo sai. Appena torno corro da te.>>

<<Già. Lo so. Viene a New York anche tua moglie?>>

<<Smettila con questa gelosia. Lo sai come stanno le cose.>>

<<Già… come stanno Orio? Ci sentiamo dopo? Qui diluvia e non so come arriverò da mia madre. E devo stare attento a non cadere in canale. Con l’acqua alta non si capisce più dove finisca la strada e dove inizi il canale. Ciao a dopo.>>

Clic. Non gli dà nemmeno il tempo di replicare al saluto.

<<Non potremo vederci spesso>>, gli aveva detto fin dall’inizio. <<Lo sai il lavoro che faccio. E poi, per quanto ti ami, sono sposato. Mia moglie non sa niente. Sarebbe distrutta se lo capisse.>>

<<Capisse che cosa? Che ti piacciono gli uomini? Che sei frocio?>>

<<Non usare quella parola orrenda! Sei tu che non puoi capire. O non vuoi.>>

<<Sì, non sono sposato. Non so come ci si senta.>>

<<Ma non possiamo essere felici anche così?>> aveva chiesto Gregorio.

In effetti non gli era parsa una difficoltà insormontabile. All’inizio. La passione non lasciava spazio a ragionamenti o prospettive. Sapere che Gregorio correva, in fondo, dei rischi per vederlo lo aveva esaltato. Ora però, dopo mesi passati attaccato a una voce che emergeva dallo sfondo di diversi medley sonori e gli incontri brevi,  intensi – è vero –  come battaglie campali, la situazione ha iniziato a creargli un disagio che  sta crescendo come l’acqua del canale.

A volte prova un senso di soffocamento. Gregorio comincia a farlo sentire in trappola.

<<Io sono un uomo libero, non sopporto costrizioni>>, gli ripete quando si vedono. <<Solo quelle dell’amore>>, ci aggiunge poi guardandolo con uno sguardo liquido.

<<Ma l’amore non è una costrizione!>>, ribatte Giovanni. <<Se lo si vive così è un inferno. E poi, di che libertà parli? Non sei nemmeno capace di essere quello che sei davvero.>>

<<Ma io lo sono, con te.>>

<<Non sei stufo di tutte queste bugie? Di questa vita a metà?>> Giovanni non riesce a trattenersi.

<<E’ facile per te dirlo>>, ribatte Gregorio, <<tu non hai il problema di doverti nascondere.>>

<<Il problema, come lo chiami, ha avvelenato molti anni della mia vita. Ma tu lo sai quello che mi è costato uscire allo scoperto? Lo sai le sofferenze, gli orrori che ho dovuto guardare in faccia? Gli sguardi della gente, i giudizi, l’espressione di ripugnanza negli occhi di mio padre?>>

Gli impone qualcosa che comincia a non volere più.  Ha la sensazione di essersi lasciato avvolgere di nuovo da fili robusti e invisibili che l’hanno immobilizzato in una gabbia di illusioni. Si sente risucchiato verso un luogo oscuro che credeva non esistesse più dentro di lui. Non sa se ce la farà a liberarsene.

Prosegue cauto lungo i muri, per essere certo di non cadere in canale. Dove sta il confine? Il bordo della strada è sott’acqua; non lo si può distinguere. Il bordo oltre il quale il canale ti inghiotte. Basta poco. Tutto è incerto.

Quella che Gregorio chiama libertà è in realtà la prigione imposta a un altro. La sua. Giovanni non ha scelto quell’incertezza per permettere a lui la certezza del disimpegno. Non è facile, no. Ma non è autentico.

Mentre dall’alto le raffiche di vento cariche di pioggia gli frustano la faccia – l’ombrello è ormai inservibile, non lo ripara da nulla – e gli inzuppano i capelli, dal basso l’acqua comincia a entrare negli stivali. Scic sciac fanno i suoi passi, rallentati dal peso scivoloso. Un’esplosione di infelicità gli fa mancare il respiro. Gli viene da piangere. Poi sorride, perché le lacrime non possono nemmeno essere se stesse fra i rivoli d’acqua che gli bagnano il viso. Non le si saprebbe nemmeno distinguere. Una frustata di vento più forte delle altre gli strappa l’ombrello e lo scaglia in canale. La corrente lo trascina via con leggerezza.

Un canto, così sonoro da sovrastare il ruggito del vento, misto a risate a piena gola gli arriva alle orecchie del tutto inatteso. Quasi fuori luogo.

Dal vòlto che immette in Ghetto, che è completamente allagato dall’acqua, ormai indistinguibile dal livello del canale, spunta una forma panciuta di lucida plastica arancione. Il canto, in una lingua che non capisce – forse yiddish –  interrotto continuamente da scoppi di risa, proviene da lì. Nel grigiore delle pietre di Venezia, del cielo e nel viscidume verde dell’acqua, una forma panciuta emerge ondeggiando dall’arco di granito, reso liscio dai secoli, trascinata e cullata dall’acqua nella direzione del canale. È un grande canotto gonfiabile di forma rotonda, di quelli che i bambini usano al mare d’estate, i  fianchi lucenti decorati da disegni di pesci e stelle marine multicolore. Su di un lato svetta, come sull’Isola Che Non C’È,  un’assurda palma di plastica, il cui tronco rigonfio e le cui foglie di pvc verde si agitano sotto la forza delle raffiche. A bordo due giovani studenti Lubavitcher, riversi sulle fiancate, ridono rumorosamente, cantando a squarciagola, travolti da una gioia panica.

Per quanto le severe regole Chabad non permettano di bere alcoolici, paiono ubriachi. Le loro camicie bianche sono zuppe e appiccicate alla pelle, i capelli neri incollati alla testa, le braccia abbandonate fuoribordo, tentano senza forza e senza vera convinzione di remare nell’acqua agitata dalla corrente. Non sembrano curarsi del fatto che stanno andando alla deriva. Né, se è per questo,  di dove stiano andando.

Giovanni sbatte le palpebre incredulo e si ferma a osservare la visione, l’assurda contraddizione di quell’oggetto e di quelle persone su quell’oggetto in quel luogo. L’immagine è  surreale. Magica. Come il quadro di un acquatico Chagall. Un cortocircuito visivo.

Ma, come insegna il pensiero Chabad, che i due giovani chassidim sono venuti ad apprendere nella nuova comunità,  l’uomo non è né statico né passivo né dipendente da altri per unirsi a Dio. Il Tanya, il testo sapienziale il cui nome originale è Likkutei Amarim,  analizza con estrema sottigliezza quello che è il conflitto interiore dell’individuo e la via per risolverlo.

Che c’è di surreale, o di contraddittorio,  nella liberazione che scaturisce dalla gioia di esistere liberi e senza costrizioni? Esistono vie migliori di altre  per  giungere a Dio e all’interezza dell’io? Forse che un buffo canotto di plastica colorata, recuperato chissà dove e trascinato dalla corrente, ha meno significato di infinite ore di preghiera e meditazione? Dunque,  se pure Chabad attinge alla sapienza della Kabbalah per elevare la mente al di sopra delle emozioni, perché non potrebbero essere  le emozioni il mezzo per elevare la mente? Perché non potrebbe essere quella la via per risolvere il conflitto fra la bellezza dell’esistenza e il rigore della morale?  Hanno pensato questo i due giovani chassidim  nel  gonfiare il canotto, variopinto come  la città  corruttrice  in cui sono da poco arrivati, nel salirci a bordo e nel lasciarsi trascinare dal canto e dalla corrente? Così si è rivelato loro Dio e non nell’austerità della preghiera e della costrizione? Non sono ubriachi di vino. Sono ubriachi di vita.

Il canotto, col suo carico di libertà, è ormai avviato senza controllo verso lo sbocco del canale in laguna aperta. La macchia arancione, verde, gialla si rimpicciolisce perdendosi in laguna e il vento incorpora nella propria voce il canto e le risate.

Giovanni si asciuga pioggia e lacrime che colano in rivoletti sul viso e una risata di felicità primordiale gli sale dal cuore, gli libera la gola, gli esplode dalla bocca, dalla pelle, dai capelli, dal corpo tutto intero e lo travolge. Non importa se acqua cade dal cielo e sale dal mare. Non importa se non ha riparo. Lui è ora acqua e vento. È pietra e cielo. Qualcosa dentro di lui ha mollato gli ormeggi e veleggia libera verso il mare aperto delle possibilità. Senza più essere né statico, né passivo, né dipendente da altri.

(C) by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Da Fiabe d’amor crudele. 2013 Edizioni La Gru

Intervista a Giorgio Linguaglossa a cura di Matteo Chiavarone

 

Giuseppe Pedota, Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea (2012, CFR Editrice)

 

Pubblico volentieri sul mio blog l’intervista che Giorgio Linguaglossa ha rilasciato a Matteo Chiavarone.

Nel suo lungo percorso di conoscenza e analisi della poesia italiana moderna e contemporanea, Linguaglossa, critico militante, poeta lui stesso e autore di saggi dal linguaggio graffiante,  onesto e diretto,  svincolato dalle tante patrie fratrie, ha offerto gli strumenti per una visione più limpida  della produzione poetica italiana.  Non  servile e non asservita alle dinamiche del potere letterario ed  editoriale. 

 La sua è dunque, e ovviamente deve esserlo, una critica dissacrante in molti casi. Ma è una dissacrazione che spalanca porte e finestre di una stanza angusta e polverosa, dove si respirava a fatica. Con lui si può essere o meno in accordo, ma gli si deve riconoscere il coraggio di porsi al di fuori e di farlo con strumenti critici ed ermeneutici solidi, efficaci, mai scontati.

Francesca Diano

Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea di Giuseppe Pedota (CFR, Piateda, 2012 pp. 120 € 13,00).

Intervistiamo Giorgio Linguaglossa, curatore della collana di saggistica della casa editrice CFR che ha appena pubblicato il volume Dopo il moderno. Saggi sulla poesia contemporanea, raccolta degli appunti critici di Giuseppe Pedota, composti dal 2005 al 2010.

Buongiorno, grazie per l’intervista. «Dopo il Moderno»: di che si tratta? Perché riproporre questi testi di Giuseppe Pedota?

 

L’ho già raccontato: tanto tempo fa, a metà degli anni Novanta con il «Manifesto della nuova poesia metafisica» uscito sul quadrimestrale di letteratura «Poiesis» nel 1995 (altra rivista auto finanziata dal sottoscritto), io e Giuseppe Pedota abbiamo stipulato un patto con noi stessi, cioè che avremmo scritto (a torto o a ragione) quello che pensavamo dei libri di poesia che leggevamo.  In quel torno di anni però ci siamo resi conto che non potevamo semplicemente scrivere delle poesie senza impegnarci anche sul terreno di una «nuova critica» (militante), perché quella «nuova critica» avrebbe anche chiarito i legami  che la collegavano alla «nuova poesia» degli anni Novanta.  E così è accaduto che «Poiesis» è stata il terreno di cultura di una nuova sensibilità e una palestra della «nuova critica». Ebbene, a distanza di venti anni si può dire che io e Giuseppe Pedota siamo rimasti degli isolati. Siamo stati sconfitti? Può darsi, anzi sicuramente siamo stati sconfitti ma ci sono anche delle vittorie di Pirro, non tutte le vittorie portano dei vantaggi né tutte le sconfitte solo svantaggi. La vittoria del minimalismo romano-milanese era ampiamente prevista. È stata una vittoria incontrastata. È stata una valanga che ha travolto e seppellito ogni resistenza del pensiero critico. Ma oggi, a distanza di venti anni, possiamo seriamente affermare che la vittoria del minimalismo romano-milanese corrisponda ai reali «valori» della poesia italiana?  L’intento di Pedota è stato appunto quello di aver posto in discussione il dogma secondo cui quello che fanno gli Uffici stampa dei grandi editori rispecchi i reali valori della poesia italiana. Per certo, Pedota è rimasto fedele a se stesso, non si è mai pentito di quell’antico patto di fedeltà che aveva stipulato con se stesso.

 

Chi è per lei Giuseppe Pedota? Che rapporto aveva con questo artista così poliedrico e anticonformista?

All’epoca, parlo alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe Pedota era un intellettuale disorganico e isolato, un pittore che aveva smesso di dipingere quadri da almeno un ventennio e un poeta che aveva cessato di scrivere poesie da almeno un ventennio quando ci siamo incontrati e conosciuti per il tramite di un poeta romano, Leopoldo Attolico. Ritengo che il lavoro di critico e di poeta di Giuseppe Pedota abbia un valore inestimabile per i giovani e per chi voglia davvero capire che cosa accadeva (ed è accaduto) dietro e sotto la superficie patinata della collana bianca dell’Einaudi che pubblicava i testi dei minimalisti (da Patrizia Cavalli a Valerio Magrelli e adesso i post-minimalisti come la Gualtieri). Dal punto di vista della collana bianca dell’Einaudi Pedota è un autore dimenticato e rimosso? Io ritengo che la poesia e gli scritti critici di Pedota parlino una lingua molto chiara e cristallina. C’è stato anche qualcuno che ha tentato di dimenticare in fretta dicendo che in questi ultimi trenta anni non c’è stato nulla di nuovo nella poesia italiana (Maurizio Cucchi). Ovviamente, le cose non stanno così.  Lo ripeto ancora una volta, né io né Pedota siamo nati con la camicia di «critico» ma ci siamo  sforzati di pensare come «critici» perché ritenevamo che i tempi richiedessero da noi un impegno «critico» che non potevamo deludere né eludere, pena la nostra capitolazione intellettuale (ed etica, che poi è la stessa cosa). Lo sforzo critico del libro di Pedota è diretto verso i giovani (non contro i giovani), sono i giovani che debbono ereditare l’esempio e le tesi dei suoi lavori critici, sono i giovani che devono ricevere il testimone. Il messaggio di Giuseppe Pedota è rivolto ai più giovani affinché essi riprendano a pensare con la propria testa e non si facciano intimidire dalla minaccia del castigo dell’isolamento (diretto e/o indiretto) o altro. Ritengo che anche in letteratura occorra avere coraggio, il coraggio delle proprie idee, altrimenti si finisce tutti nella melassa epigonica di coloro che scrivono come vogliono gli Ottimati. Se io, e altri come me, Ennio Abate, Giuseppe Pedota facciamo della critica è perché questo è un lavoro che riteniamo ineludibile, necessario.
Certo, anch’io ho dovuto pagare un certo prezzo per questa mia libertà di critico. Degli esempi? Bene ve lo dirò: ho proposto negli ultimi tempi dei miei scritti a LE PAROLE E LE COSE a LA NAZIONE INDIANA e a LA POESIA E LO SPIRITO che sono stati passati sotto silenzio; alcune riviste come «L’immaginazione» si sono rifiutate, a priori, di recensire libri che avevo scritto io perché, è stato detto, avevo osato criticare autori come Cacciatore e Sanguineti. E la lista potrebbe continuare. Ma nel nostro povero paese tutto ciò è diventato normale: non c’è più la censura del regime ma c’è la censura degli epigoni degli epigoni che è occhiuta e salace quant’altri mai.

 

Per chi è stato scritto questo libro? Qual è il suo pubblico ideale?

 

Il pubblico ideale del libro di Pedota sono i giovani, coloro che vogliono capire qualcosa della storia d’Italia attraverso la storia della poesia contemporanea.  

 

Che cosa si intende per “moderno” parlando di poesia?

 

Oggi, nel Moderno dispiegato parlare di poesia o di «critica militante» rasenta la blasfemia. La tesi forte da cui parte Pedota è che negli anni Sessanta la poesia italiana ha imboccato la via del «riformismo moderato» inaugurata da autori come Giovanni Giudici con La vita in versi (1965) e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani, ed ha camminato per quella via accumulando un ritardo storico rispetto alle esperienze poetiche che intanto si erano fatte (e si facevano) in altri paesi. La verità è un’altra, la spina dorsale della poesia del secondo Novecento è costituita da poeti come franco Fortini, Angelo Maria Ripellino e Helle Busacca. E mi chiedo: è consentito capovolgere le «verità» acquisite? È lecito porsi delle domande? È lecito chiedersi  come è accaduto che in Italia si sia instaurato un consenso (un conformismo di facciata) su un tipo di poesia assolutamente elitaria scritta per i professori di linguistica e di glottologia come quella di Zanzotto? E perché questo è accaduto? Come è accaduto che un poeta intraducibile e incomprensibile con il suo sperimentalismo idiolettico è stato recepito come il maggior poeta italiano? Il libro di Pedota si pone delle domande, domande inquietanti, domande scomode. Pedota legge la poesia di Antonio Riccardi, di Maurizio Cucchi, di Mario Benedetti e si chiede: come mai il «reale» sfugge dalle mani degli esistenzialisti milanesi che vorrebbero catturarlo? C’è una spiegazione a questo fenomeno? E Pedota si pone la domanda finale: Il «reale» sfugge alla poesia italiana? E perché? Perché la poesia di Milo De Angelis dopo il suo brillante esordio con Somiglianze del 1980 si è accartocciata su se stessa? E si è isterilita in giochi sintattici e in inversioni di immagini? E Pedota si chiede: perché la poesia dei minimalisti romano-milanesi è diventata una congerie di commenti a luoghi comuni e luogo comune essa stessa? E Pedota si chiede: vogliamo voltare pagina? Vogliamo chiudere, e per sempre, il libro del minimalismo? Domande legittime, mi sembra.
Che Pedota sia un eretico? Ma eretico di che, di quale ortodossia? E chi l’ha stabilita l’ortodossia? Io penso molto semplicemente che Pedota sia un critico che pensa il proprio oggetto: il Moderno, o meglio, ciò che è accaduto nel Dopo il Moderno. Pedota non è mai stato interessato a far da sponda a questo o a quello, i suoi non sono «giudizi» tribunalizi, lui non è un giudice monocratico che emette sentenze, è un essere pensante che esprime valutazioni e argomentazioni.
A mio avviso, un libro come quello di Giuseppe Pedota, se fossimo in un paese serio, intendo se fossimo in un consesso di intellettuali credibili, dovrebbe essere analizzato e discusso; e invece nulla di tutto ciò. È per questo che io ritengo che in Italia gli effetti devastanti della «stagnazione economica, spirituale e stilistica» si propagano a macchia d’olio su tutti gli aspetti della vita associata. Perché? vogliamo dirlo? La poesia è una attività pubblica, che si fa in privato ma si esercita in pubblico. Ma, ovviamente, il luogo pubblico della poesia non coincide con quello del mercato.

 

Questo volume è una carrellata di poeti, più o meno conosciuti. Chi di loro ha avuto meno successo di quello che meritava?

Poeti come Giorgia Stecher (di cui ricordo Altre foto per Album del 1996), Maria Rosaria Madonna (con Stige del 1992), Maria Marchesi (con L’occhio dell’ala del 2003 e Evitare il contatto con la luce del 2005), Chiara Moimas (con L’Angelo della morte e altre poesie del 2003), Laura Canciani (con L’aquila svolata del 1983 e Il contagio dell’acqua del 2010), Dante Maffìa (del quale basti ricordare Il leone non mangia l’erba del 1975, Lo specchio della mente del 2000 e La Biblioteca d’Alessandria del 2006), Luigi Manzi (con Mele rosse del 2004), oltre che lo scrivente, sono tutti autori sotto valutati, direi non solo per svista e incuria ma per una assenza di pensiero critico indipendente.

Peraltro, occorre distinguere il successo editoriale da quello dei lettori e da quello della critica. Il primo è nullo o quasi; il secondo evanescente e illusorio, nel senso che la critica della poesia contemporanea è affondata in un birc à brac pseudo critico letterario, in un gergo tra lo ieratico e lo ierofanico.

 

Riprendo una domanda che sta alla base del saggio finale. C’è una crisi della ragione poetica?

 

È in atto da almeno trenta anni una Crisi della ragione poetica. È incontrovertibile.

La poesia delle nuove generazioni impiega l’arma dell’ironia, fa le capriole, assume pose attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico; l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa di possesso d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato, socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime, assonanze interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il «gioco» tra presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita mistificazione del poeta di corte. Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina». Sono gli indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno. Mentre l’eterna Arcadia italica si esprime «nella lingua della clericatura», nella lingua di uso pragmatico (sempre più periferica e marginale) suonando il plettro delle viandanze turistiche, la migliore poesia dei giovani dell’ultima generazione preferisce esprimersi nell’idioma della propria marginalità assoluta, marginalità linguistica e stilistica che è stata scacciata dai circuiti della produzione-consumo (quel coacervo di superconformismo di una sottoclericatura destinata al servizio di corte): la marginalità della merce riciclata e riutilizzata dell’epoca della stagnazione stilistica.

La gran parte della odierna poesia oggi in voga (una sorta di sub-derivazione del minimalismo), con tanto di sublime nel sub-jectum, scrive in un super latino della comunità internazionale qual è diventato il gergo poetico in Europa (di cui l’italiano è una sub componente gergale). Ma, è ovvio, qui siamo ancora (e sempre) sul vascello di una poesia leggera, che va a gonfie vele sopra la superficie dei linguaggi neutralizzati del Dopo il Moderno: srotolando questo linguaggio come un tappeto ci si accorge che ci sono cibi precotti, già confezionati, da esportazione: non c’è profondità, non c’è spessore, non ci sono più limiti. La leggerezza rimbalza sulla superficie, non ne affronta cause ed effetti drammatici, non c’è indagine della superficialità fino a indagarne e metterne a nudo le profondità.
Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può. C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso lo stile lapidario; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi neutralizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.

 

Cosa ne pensa lei della situazione della poesia oggi? Quanto sta influendo, in bene e in male, la rete nei processi naturali di una forma d’arte tanto complessa quanto la poesia?

 

«Sì, la scacchiera va buttata per aria», sono d’accordo con Ivan Pozzoni e Francesca Tuscano, forse la rete può servire ma occorrerebbe una miccia come quella che ha innescato la catena delle rivoluzioni maghrebine  ma per far ciò occorre un «pensiero critico», occorre riscrivere le «regole minime» per la lettura di una poesia. Lei mi chiede qual è la prima delle regole minime? Le rispondo: l’onestà intellettuale (molto più importante di quella monetaria). Lei mi chiede che cos’è un «pensiero critico»? Le rispondo: sembra di parlare di ircocervi in scatola! Dove si trova? Negli Almanacchi? Nelle innumerevoli Antologie auto promozionali? Nelle riviste auto promozionali?
Sì, dobbiamo uscire anche dal pathos dell’autenticità del pensiero militante (ormai storicamente tramontato) e prendere atto che il mondo della chiacchiera letteraria è consustanziale al mondo della chiacchiera poetica; nella misura in cui la poesia È FUORI MERCATO, essa, la poesia corrente è anche fuori della storia, abita il presente, il presenzialismo, la fugace visibilità, la performance; è diventata fluida, liquida, elusiva, esclusiva; il senza-espressione (o l’intensificazione forsennata dell’espressione) tende a prevalere sulla formulazione di un discorso poetico organizzato sulla finalità della conoscenza dell’oggetto.
Non mi meraviglia che la poesia corrente sia finita FUORI MERCATO; se ciò è accaduto è perché il livello qualitativo della poesia corrente (quella proposta dai Grandi Editori) è stata ed è terribilmente basso. Si pubblica per ragioni di contiguità, di affinità e di visibilità accademico-mediatica. Ma andando per questa via in discesa, abbassando sempre di più il livello qualitativo della poesia proposta, si è giunti al punto di non ritorno: non è più possibile scendere più in basso, abbiamo toccato il punto più basso dagli inizi del Novecento, ed i lettori si sono rivolti altrove. Inoltre, la poesia corrente è sempre più idiolettica, auto esasperata, impreziosita di ologrammi e di fantasmi, posticcia, falsa come una moneta falsa e la puoi sentire dal tinnire fesso della sua materia. In queste condizioni che fare?
Pubblichiamo di meno. Anzi, come qualche tempo fa scrisse Luigi Manzi, non pubblichiamo affatto, facciamo una serrata di 10 anni non pubblicando alcun libro di poesia! Sarebbe già qualcosa. Ma, ovviamente da solo questo non basta. E bisogna ritornare a mettere in onda un «pensiero critico» applicato alla poesia. Non c’è altra strada, credo.

 

Nella foto, Giorgio Linguaglossa

Francesca Diano. La notte che il satellite cadde sulla terra

Risultati immagini per uars satellite crash

Satellite UARS (Fonte NASA)

La notte che il satellite cadde sulla terra

Da Francesca Diano, Fiabe d’amor crudele. Edizioni La Gru, 2013

 

Così, seguendo una sua traiettoria bizzarra, a vite – dissero – a spirale – dissero ancora – il vecchio satellite tornò a casa.

La nostalgia lo aveva macerato per tempi resi intollerabili dalla solitudine. Gli aveva corroso le giunture, i tessuti metallici, i circuiti elettronici, nelle cui pulsazioni nessuno avrebbe sospettato l’attività del pensiero. Nel cuore di berillio e titanio, che batteva con fatica sempre crescente,  palpitava però il desiderio di tornare alle origini. Era partito tanto tempo prima – quanto? Non ricordava – e del resto, che importanza aveva il tempo?  E, in ogni modo,  cos’era il tempo? La sola misura che ne conosceva era una quantità compresa tra  due cesure: il momento in cui  s’era ritrovato a volare in uno spazio allagato da un’oscurità luminosa, dove non v’era linea d’orizzonte, né limiti segnati, né direzioni, in cui gli impulsi intelligenti delle sinapsi elettroniche lo avevano indotto a un corteggiamento perenne della curva terrestre e l’altro momento, quando il suo cuore – un ordinato aggroviglio di circuiti – aveva cessato di battere e il suo dialogo con casa, fatto di impulsi elettronici e numeri, s’era spento nel silenzio.

Era stato felice di comunicare ai Costruttori l’incantamento di quella vastità infinita, l’ebbrezza dell’esplorazione, lo slancio inarrestabile del percorso.  Ma i mutamenti della cupola invisibile che fasciava il pianeta natale erano, per i Costruttori,  oggetto di interesse puramente  meccanico. Lo aveva capito perché le raffiche di dati che trasmetteva, invece di suscitare esclamazioni di entusiasmo – così gli era sembrato  che i Costruttori manifestassero le loro emozioni  – venivano passati ad altri circuiti. “Elaborati”, dicevano. Ma i numeri che inviava loro non avrebbero potuto trasmettere quello che andava osservando con una meraviglia che s’era trasformata  prima in amore e poi  corrosiva nostalgia.

Sotto i suoi occhi attenti si volgeva la rotondità del pianeta azzurro, i vortici delle sue nubi e gli occhi maligni dei tornadi, i colori sempre mutanti della sua atmosfera, l’alternarsi di azzurri, ocra, bruni, verdi, bianchi spumosi. Il sorgere e il tramontare del sole, che tingeva di un pulviscolo multicolore la curva del pianeta, per poi sfumare in un’oscurità alleggerita dagli astri. Cercava – ogni volta che nel suo volo  rotondo vi passava sopra – il punto da cui era partito. Casa.  Col tempo gli era stato sempre più difficile ritrovarlo. Col tempo le sue membra metalliche avevano perso il vigore degli inizi, e così i riflessi dei suoi circuiti.

Non era solo nel suo percorso perenne. Altri oggetti, molti altri oggetti, galleggiavano nello spazio sorretti dalla fedeltà dell’orbitare. Alcuni erano nuovi e pulsanti, altri ormai privi di vita, altri lasciavano intravvedere dagli oblò delle forme immobili. Forme che somigliavano a quelle dei Costruttori. Ma con quegli oggetti non aveva contatti. Tutto il suo dialogo avveniva con casa.

Quando il suo cuore e la sua mente elettronica si spensero, dopo gli ultimi impulsi debolissimi, seppe che i Costruttori lo avevano abbandonato. Dismesso come una cosa ormai inutile.  Per loro  era diventato uno di quegli oggetti morti e inservibili, catturati per sempre dall’orbita. Che mai sarebbero tornati a casa. Da loro, dalla grande casa dei Costruttori,  non gli giungeva più nessun messaggio, né fu in grado di inviare alcun impulso.  Non riusciva a comunicare la sua nostalgia,  la sua preghiera di farlo tornare.  Quell’isolamento, quella solitudine lo terrorizzavano.

Certo, loro non immaginavano che, una volta cessato il suo compito di esploratore, una volta spenta la sua mente, lui fosse ancora in grado di sentire, di vedere.  Ma, quello che per tanto tempo gli era parso meraviglioso, ora gli appariva temibile e minaccioso.  E dai Costruttori, capì, non sarebbe arrivato alcun segnale di ritorno. Capì anche che non lo avrebbero voluto il suo ritorno.

Poi accadde  un evento che non avrebbe mai nemmeno immaginato. Un piccolo frammento di asteroide lo urtò. E, nell’urtarlo, lo scalzò dal percorso obbligato che era stato fin dall’inizio il suo tracciato nello spazio.  Uscì dall’orbita. Il corpo fragile smembrato in molti frammenti. Eppure, anche ridotto in pezzi, il pensiero era unico. Comune ad ogni frammento. Il pianeta, più compassionevole e più grato dei Costruttori, lo attrasse a sé. Con potenza sempre maggiore lo chiamava  verso il proprio centro. Ora vedeva più distintamente i profili dei continenti, i rilievi che percorrevano la terra di vene brune, i colori cangianti dei mari e degli oceani.

Ma nella felicità del ritorno non aveva previsto che la morte dei circuiti non gli avrebbe permesso di ritrovare il punto di partenza.  La sua caduta era scomposta, avvitata, deviata dai venti  solari e dalle correnti.  Non riusciva a capire dove si trovasse, come tornare a casa.

Fu allora che avvertì la paura. Non la propria, ma quella dei Costruttori. La paura che il suo ritorno imprevisto, non voluto, incontrollato, potesse danneggiarli, causare distruzione  e devastazione. Eppure li aveva serviti fedelmente, con dedizione assoluta. E ora lo temevano. Una creatura nata dalle loro stesse mani.  Tutti i Costruttori e i loro simili parevano impazziti. Ora gli prestavano attenzione. Ora erano interessati al suo destino. Ma non con gratitudine.  Non nell’attesa di dargli il benvenuto a casa. Avrebbero preferito che il ritorno lo ardesse come mille piccoli soli e lo dissolvesse nell’atmosfera. Avrebbero voluto saperlo sospeso per sempre nello spazio vuoto e gelido.

E allora capì che sarebbe stato meglio non tornare.  Non sarebbe tornato a casa. Meglio far perdere ogni traccia, meglio lasciarsi inghiottire dalle profondità dell’abisso liquido , dove nessuno l’avrebbe più trovato.

 

 

 

 

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Un cuore irlandese

Celtic Missionaries Starting on a Voyage

Missionari irlandesi all’inizio del loro viaggio. Acquaforte  (1901)

Ci sono luoghi in cui il tempo e lo spazio si dilatano fino a mutare la loro qualità, che è quella del continuo, di uno scorrere ininterrotto che dà loro il carattere del provvisorio. Ci sono luoghi in cui il tempo e lo spazio escono dal fiume eracliteo dell’eterno  fluire, per separare la loro natura in essenza puntiforme. Questa qualità del discreto, dell’infinitamente separato, sospende tempo e spazio, così che ogni istante/punto diviene un’entità a sé stante: diviene eternità., o meglio, assenza della provvisorietà.

Luoghi come questi sono in genere aree circoscritte e limitate; non solo luoghi geografici, come Olimpia, Capo Sunion, Pompei, alcune calli veneziane lontane dalle greggi di turisti, Machu Picchu, i circoli di pietre (tranne Stonehenge che è stato completamente ricostruito) e altri che a ciascuno verranno in mente.

Ma esiste un’intera isola in cui questo avviene e quell’isola è l’Irlanda. Non è tanto per la presenza così forte del passato, ma all’opposto.  La presenza del passato, di un passato che non è fluire del tempo, ma sospensione puntiforme del tempo,  è così potente, perché l’isola ha una qualità che la pone al di fuori dello scorrere del tempo.  Difatti, quel passato è la sostanza di cui è intessuto il presente. Ovunque si vada, che sia nel mezzo del traffico di Dublino, lungo le strade animate di Cork, lungo le coste frastagliate, nelle foreste, nelle brughiere, sulle colline o sui monti, lungo le stradine di campagna, dietro e dentro il paesaggio esiste un altro paesaggio, simile a quello visibile, ma di consistenza e sostanza  diverse. L’uno è composto di materia, l’altro di energia eterica. Il primo è l’emanazione del secondo. Come se la sostanza eterica si rapprendesse in una proiezione materiale della propria forma.

E’ il suo volto immutabile. Ed è per questo che l’Irlanda parla al cuore di chi vi arriva come pellegrino del cuore. Forse anche i turisti frettolosi, che vanno a visitare le distillerie, i pub, i negozi di souvenir, i monumenti megalitici davanti ai quali si fanno fotografare avvertono quel respiro primordiale e, pur ignorandolo con la mente, se ne sentono avvolti in modo inspiegabile. Provano forse, dentro, una nostalgia a cui non sanno dare nome né spiegazione, di cui non comprendono il significato. Ma è lì, rannicchiata in un angolino segreto.

Che cos’è un cuore irlandese? E’ un cuore che sussurra il canto che sente salire dalla terra, dalle acque, dalle rocce e lo trasforma in parole udibili.

La narrazione degli antichi miti diventa la narrazione bardica e poi tradizione orale di leggende e storie, e poi diventa la  preghiera degli antichi primi anacoreti dell’isola e  diventa un canto gregoriano con caratteristiche molto speciali  e poi diventa lamentazione funebre ritualizzata e  la poesia dei grandi poeti irlandesi della nostra epoca e poi  storytelling dei moderni seanchaì, non affatto diversi dai loro antenati e discorsi che animano il quotidiano.

Il suono e la parola sono la stessa cosa e il suono e l’immagine sono la stessa cosa. Dunque è all’origine del mondo che si deve guardare, quando l’energia non era ancora materia e la materia era già nell’energia. Quando tempo e spazio non erano separati ma l’uno era l’altro.

Fonte sacra- acquaforte

Nelle migliaia di fonti sacre disseminate sul suo suolo, l’Irlanda riversa il cristallo liquido che la nutre e l’attribuzione di qualità taumaturgiche a queste acque trasparenti, che sgorgano silenziose dal sottosuolo, meta di pellegrinaggi e offerte, altro non è che il tributo a questa verità invisibile. I fiumi in Irlanda sono vene in cui scorre la linfa che alimenta il sogno. Le fonti sacre sono uteri che riversano quella linfa vitale e come tali, in passato e ancora oggi, venerate.

L’oppressione inglese ha di fatto conservato, più che annientato, questa trasparenza della realtà. L’ha incapsulata in una teca protettiva e ha impedito che evaporasse.

Un cuore irlandese ride piangendo e piange ridendo, perché tra riso e pianto non c’è distinzione. Solo in Irlanda esiste la merry wake, la veglia funebre in cui si ride, si scherza, si raccontano storie e barzellette, si mangia e si fuma, lasciando che il fumo del tabacco salga al cielo, accompagnando l’anima, che è fatta di fumo eterico e luminoso,  nel suo viaggio. E’ questo che in apparenza rende contraddittorio un cuore irlandese, la coincidenza degli opposti.

Che cosa separa la vita e la morte? Nulla, sono la stessa medesima cosa, ma l’una è immersa nella precarietà del tempo, l’altra se ne è astratta. Essere e non-essere, essenza ed esistenza si incontrano in un unico punto. Quel punto è ineffabile e inafferrabile, ma non precario.

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Mangia prega ama, la fiera dell’inutilità

Ho appena finito di vedere (costringendo me stessa a non sprecare i 5 Euro dell’affitto del DVD) il ridicolo e grottesco film “Mangia, prega, ama”, tratto dall’altrettanto ridicolo romanzo omonimo dell’americana Elizabeth Gilbert. Che, per la cronaca, scrive solo e unicamente i fatti suoi. Ma non si dice sempre che un vero scrittore non deve mai essere autobiografico? Boh…

Preciso che ho visto il film nell’originale inglese, dunque ho potuto apprezzare la parlata degli italiani nel film, che anche a Roma parlano con accento siciliano o italoamericano, anzi passando nello stesso dialogo dall’uno all’altro. Giusto no? Tutti gli italiani parlano con l’accento siciliano. E tutti gli italiani sono scuri di pelle e di capelli e tutti gli italiani sono seduttori.

Dire che le risate, generate dalla goffaggine del film, si sono mescolate col senso di nausea è dir poco. La storia è pietosa, i personaggi vuoti e praticamente inesistenti, i luoghi trattati come piatti sfondi da cartolina e Giulia Roberts, ormai ridotta a un’acciuga legnosa e ben lontana dallo splendore dei suoi primi film, è antipatica, gelida e insopportabile quanto la protagonista.

Il romanzo-biografia non è da meno. Una tizia, la tipica newyorkese nevrotica, che ha tutto nella vita – marito innamorato, lavoro interessante e ben remunerato, giovinezza – non si sa perché viene presa dalla fregola della crisi esistenziale.  Non ha il cancro, non si ritrova sotto una tenda grazie a mutui scippacasa, non è stata licenziata, non è una vecchia zitella con il fuoco di S. Antonio, non le è deflagrato un seno rifatto, insomma, che cavolo ha ‘sta donna per essere tanto triste?  Ma ovvio! Si accorge che non ha ancora trovato se stessa!

Questa missione esistenziale, che ogni brava americana evoluta e meglio se newyorkese radical chic sente di avere e per la quale è disposta a spendere migliaia di dollari, e che la Gilbert ha apparentemente compiuto, è la chiave del mistero di un incomprensibile successo di questo romazetto tristanzuolo ma pittoresco e di questo filmetto.

Tutte le donne americane, oberate da questi terribili problemi esistenziali, si sono identificate con questa eroina del luogo comune, dell’ovvietà, della superficialità più becera. Accompagnata nondimeno da una tipica ignoranza, propria della presunzione di questa tipologia umana, delle culture e dei luoghi “esotici” che affollano il libro e il film.

Liz (Elizabeth Gilbert stessa), la newyorkese nevrotica e ovviamente mentalmente instabile, decide che l’unica soluzione a questa terribile sofferenza è licenziare il marito, peraltro innamoratissimo (pare che dovunque vada non ci sia uomo che non cada ai suoi piedi, ossessionato dall’idea di sposare questa vetustà) e mettersi a girare il mondo per un anno. Un anno! E i soldi? Boh. Dio è grande. Comunque dove va a cercare se stessa? Che domanda ingenua… Ma a Roma, ovvio! La città più bella del mondo, stipata di monumenti, di bellezze, di paesaggi e scorci mozzafiato. Ma lei, di tutto questo, non vede nulla, né  nulla le importa, si capisce. Ma allora, perché?

Lei va a Roma per abboffarsi. Non fa che ingozzarsi di pasta, dolci, piatti ipercalorici. Il che fa sorgere un dubbio: che la legnosa, segaligna Gilbert sia una bulimica? La risposta è: sì. Nessuno si ingozza fino a quel punto e poi trova la scusa che “il cibo italiano è sensuale”…. Ma per favore! Ancora a ‘sto punto sono gli americani? Ancora codesti luoghi comuni?  Sì. SOLO luoghi comuni. Questa vede solo trattorie, vicoli, i personaggi romani sono macchiette improbabili da Broccolino, la sua pervicace ignoranza del luogo in cui, pur come afferma, senza soldi vive,  è totale, assoluta, infrangibile. Ovviamente questo microcosmo ossessivo è per la Gilbert l’Italia stessa. Dà dei giudizi sui romani che sono quelli non di una “scrittrice”, come lei ama definirsi, ma di chi se li è fatti su film come Il Padrino o Gang of New York. Non vede se non quello che vuole vedere: cioè nulla.

A dire la verità, a Roma  si trova anche un insegnante di italiano. Perché Gilbert non è superficiale e vuole imparare la lingua degli indigeni. Un giovane gigolò, che ha risolto il problema della disoccupazione giovanile in Italia bazzicando le turiste straniere e convincendole che dà lezioni di italiano. Magari prima potrebbe impararlo anche lui. Però attenzione attenzione,  riesce a insegnarle due parole: una è “actriaversciamo” (= attraversiamo) e l’altra è “dolcifarnienti”. Quando Gilbert assapora in bocca, come una pappardella alla lepre grondante aromi, la parola “actriaversciamo” ne rimane fulminata e in preda all’estasi, commenta la sensualità di tutte queste s, r, a, “tipicamente italiana”.

Poi va a Napoli. (Un giorno) Dice: avrà visto le bellezze del posto, il mare, il Vesuvio, Pompei, Mergellina…Ebbene, no. Ci va solo per mangiare la pizza, vedere la partita di calcio in TV in un’osteria e comprarsi dei jeans più larghi, dati i 12 chili che le abbuffate le hanno regalato. Dice che questo è il “dolcifarnienti”…. e che lei lo deve imparare. Va e torna, mi raccomando. Non sia mai che le tocchi di vedere qualche bellezza artistica o naturale!

Intanto, quando passa per strada, tutti le fanno apprezzamenti, perché, basta guardare le sue foto, questa 42enne che dimostra 10 anni di più, segaligna, tirata, spettinata  e poco curata (così sono le newyorkesi radical chic) racconta che TUTTI gli italiani quando la vedono le pizzicano il sedere, le gridano dietro “a bona!” ecc. Del resto, anche nel film, la cosa è davvero poco credibile, perché la povera Julia Roberts ha ormai ben poco da pizzicare sui suoi quattro ossetti e difficilmente un romano direbbe “a bona!” a una come lei. Ormai i galli italiani, che tanto hanno fatto in passato per il nostro turismo, sono scomparsi, a meno che le amministrazioni comunali non li ingaggino a giornata in luoghi come la Riviera romagnola. Ormai ci sono rimasti solo gli extracomunitari a fare apprezzamenti per strada alle donne.

Quello che è rassicurante però, è che Julia/Liz, pur ingozzandosi di tonnellate di cibo per mesi, rimanga un’acciuga. Ma non è che poi rivomita tutto? In effetti lo spettatore/lettore un po’ inizia a preoccuparsi per la ragazza.

Comunque, compiendo un passo indietro, mentre la Gilbert doveva capire se stessa a New York, (ancora viveva col marito), si trova un amante giovane e prestante e scopre le filosofie orientali. L’amante, che per lei fa follie, è un devoto dell’ennesima guru indiana che fonda ashram a destra e a manca (ma soprattutto in America) dove poter sucare dei bei dollaroni a quei bambacioni degli occidentali, che credono davvero di percorrere un cammino spirituale e di arricchire se stessi….. la scena in cui i bambacioni newyorkesi cantano di lena tutti insieme davanti alla gigantografia della guru circondata di fiori e incensi è impagabile!

Così Julia/Liz, dopo essersi abboffata a Roma (Mangia) va in India (Prega). Ma dove in India? Ma ovvio, nell’ashram della santona! Che è uguale a quello di New York (e si suppone che sia costosissimo) ma più grande. Molto più grande. Il bello è che, pur rimanendo un bel po’ di tempo in India, NON METTE MAI PIEDE FUORI DALL’ASHRAM! Mai. E che fa lì tutto il tempo? Si abboffa di cibo indiano, tanto che le appiccicano il nomignolo di grocery (drogheria, pizzicagnolo per i romani) e medita. Sta ore immobile (beh, dopo tutto quel cibo piccante), e medita. Però conosce un idraulico texano che pure lui sta lì. Perché,  suvvia, quale idraulico texano non va una volta nella vita in un finto ashram indiano di una finta santona indiana?

La tizia si meraviglia solo quando le dicono che la santona, di cui troneggiano le gigantografie ovunque, lì non ci sta mai, sta sempre in America. Però questo non la sposta di una virgola e seguita a mangiare e meditare.

Poi, visto che non ha soldi, va a Bali. Ovvio. Tutti noi andiamo a Bali quando siamo in bolletta. Lì si trova una casa da sogno in mezzo a uno scenario da sogno e…medita. Dall’ora tot all’ora tot. Letteralmente. Mette pure la sveglia!

Però a Bali (Ama) dove era già stata in passato, ritrova l’unico personaggio divertente e simpatico di tutta la storia. Un vecchio sciamano sdentato che le predice il futuro e le impartisce questi illuminati insegnamenti: “devi sorridere, ma devi sorridere anche col fegato”. Stop. Certo, guardando le foto  della Gilbert e le espressioni costantemente aggrondate e gli isterismi della Roberts nel film, credo che chiunque avrebbe detto. “e sorridi una buona volta!”

Comunque lei, ligia, sorride. Si mette la sveglia all’alba, si siede sulla veranda e sorride dall’ora tot all’ora tot. TUTTI I GIORNI. Poi, ovvio, quando è finita l’ora del sorriso, non sorride poi tanto.

Ma non è tutto! Perché conosce un figone brasiliano da paura che immediatamente le cade ai piedi. Cotto come una pera! Lei che fa? Beh, dato che il figone è tale e ogni lasciata è persa, coglie la pera. (Fichi, pere, sempre frutti sono). Ma, quando il poveretto le dice che la vuole sposare, che è disposto a fare la spola tra Bali (dove ha il suo business)  e New York  (così come seguita a volerla sposare l’amante a New York, come le dichiara in telefonate strappacuore), le offre un week-end da sogno tutto per loro, lei gli fa una scena isterica (che altro?) e lo molla. Proprio nel senso che lo insulta, urla come una gallina che deve scodellare un uovo troppo grosso, bava alla bocca e tutto il resto.

Ora, uno chiede, ma perché?  Pareva lo amasse tanto…   Beh, ma ovvio! Non ha ancora trovato se stessa! Non ha ancora mangiato abbastanza, pregato e meditato abbastanza, urlato abbastanza, non si è ancora strappata abbastanza da dosso tutti i figoni che le si attaccano ai pantaloni e la vogliono sposare. Del resto, per fare tutte queste cose estremamente impegnative, non ha mai visto niente né di Roma, né dell’India, né di Bali. Capperi, mica ha tempo!

Ma, proprio quando mancano due ore alla partenza per New York, va a salutare il simpatico sciamano. Dunque, ho dimenticato di precisare due cose in proposito; lo sciamano  le affida a un certo punto un preziosisssimo e fragilissimo testo antico di secoli, scritto si suppone in una qualche lingua balinese antica, e le chiede di ricopiarlo per lui. Voi che avreste fatto? Come copiare pagine e pagine di una scrittura semicancellata, sconosciuta, su pagine mezzo mangiate dal tempo? Uno dice: impossibile. E invece Julia/Liz, che non per nulla è una di quelle americane iperattive, iperefficienti, inizia a copiare! Però mica è scema. E così sottrae al vecchietto il libro mentre quello le va a prendere un bicchiere d’acqua e…lo va a fotocopiare. BRAVA! Questo sì che si chiama saper vivere e il simpatico sciamano è felice come una Pasqua balinese.

La seconda cosa da precisare è che la moglie dello sciamano non fa che ripeterle: trovati un marito!  Mi sa che la signora aveva l’occhio clinico.

Comunque, lo sciamano, per ringraziamento le chiede: “come va col tuo boyfriend?”

Julia/Liz, a questa semplice domanda, rimane di princisbecco e, nonostante stia per partire, nonostante l’abbia trattato a pesci in faccia e coperto di improperi, che fa? Corre dal figone brasiliano in un empito di rimorso (oppure tutta quella meditazione le ha fatto bene e conclude: ogni lasciata è persa) e accetta il week-end. La sua accettazione avviene in questa scena: tramonto sul mare, barca che li condurrà all’isoletta dove saranno solo lei, lui e i pappagalli sotto una tenda di veli, e nel salire a bordo lei proclama con tutta l’enfasi di una metafora carica di significati: “Actriaversciamo!!” (Le lezioni del gigolò avevano dato i loro frutti)

HAPPY END!

Nel narrare l’illuminante vicenda, ho cercato di nobilitare un po’ la materia, evitando di sottolineare l’atteggiamento supponente, incapace di vedere le cose e le persone, la banalità di cui libro e film sono disseminati come mine antiuomo.

Questo capolavoro ha venduto 8.000.000 di copie nel mondo e la grande filosofa e pensatrice Elizabeth Gilbert è stata inclusa, udite udite, tra le 100 persone più influenti del mondo…… e poi ci meravigliamo se il mondo è quello che è?

Per chi è curioso. Gilbert (nella vita) ha poi portato il figone brasiliano a New York e siccome gli scadeva il permesso di soggiorno e l’amore per questa milionaria era troppo forte, si sono sposati. Lei precisa che è un ottimo cuoco e cucina sempre lui.

Progetti per il futuro? Sta scrivendo un libro sulle gioie del matrimonio.

Buona lettura e buona visione del prossimo romantico film

(C) 2011 il ramo di corallo RIPRODUZIONE RISERVATA

Anoressia. La nuova frontiera della misoginia

Rileggendo ancora una volta quel magnifico libro che è L’amore e l’Occidente di Denis de Rougemont, una delle più profonde analisi mai scritte del concetto di amore che l’Occidente ha interiorizzato, mi sono resa conto di qualcosa che non avevo mai davvero considerato.

Muovendo dal mito di Tristano e Isotta, de Rougemont analizza il concetto che dell’amore è giunto sino e noi e che ormai la nostra società ha assorbito. Dalla vicenda dell’amore infelice di Tristano e Isotta nasce quello che de Rougemont definisce il mito della passione, cioé  quella forma malata di amore, amore NON per la persona, MA per l’amore stesso, che ha riempito migliaia di pagine di letteratura, ma le nostre stesse anime. E’ una forma di amore che celebra l’amore infelice, che salda il concetto di amore con la morte. Passione, appunto, nel suo senso originario di sofferenza.

L’amore cantato dai poeti provenzali, dai trovatori, successivamente dagli stilnovisti, l’amour de loin, l’amore lontano, l’amore per la donna angelicata è la celebrazione di un’assenza non di una presenza. E’ il desiderio per ciò che NON si vuole possedere, è l’apoteosi del desiderio fine a se stesso e che rifiuta ogni appagamento.

E’, di fatto, la celebrazione della morte. de Rougemont collega, con un’intuizione geniale, questo improvviso cambiamento del concetto dell’amore che si affaccia in Europa verso gli inizi del XII sec. nel sud della Francia, con il diffondersi dell’eresia catara e vede nei poeti provenzali, nel loro linguaggio criptico e misterioso, nel loro trobar clus, una sorta di codice tra appartenenti a una setta segreta o iniziatica. I catari rifiutavano con forza ogni forma e manifestazione di amore sensuale in favore di un amore puro, idealizzato. Insomma, la Beatrice dantesca.

Gli amanti non possono che bruciare di una passione che nega il corpo ma accende l’anima. Tuttavia, mentre colui che ama, l’uomo, è la parte attiva, la donna è colei che è amata. Che si nega, ma si lascia amare.

L’analisi di de Rougemont è ricchissima, complessa e affascinante e molto convincente e non è questa la sede per parlarne troppo a lungo (vi invito a leggere questo libro illuminante e unico), ma prosegue fino ai giorni nostri.

Il mito della passione, che da Tristano e Isotta in poi è dilagato nella letteratura fino a dominarla, è stato, proprio attraverso la potenza del racconto letterario, interiorizzato al punto da divenire il concetto d’amore che ha l’Occidente e ciascuno di noi. L’amore romantico, o romance, secondo il termine inglese.

Eppure, quella visione così alta, idealizzata, angelicata ed eterea della donna nella letteratura e nella poesia medievale (una figura Anima, secondo la visione di Jung) era in stridente contrasto con la condizione REALE della donna nel quotidiano. Mai come nel Medio Evo dell’Occidente cristiano la donna è stata oggetto di maltrattamenti, disprezzo, odio, misoginia, paura, persecuzione. Mai la donna ha contato tanto poco nella società, in casa, a livello legislativo. E allora, come si spiega questo dualismo esasperato, per cui il corpo della donna è negato e violato mentre la sua essenza pura è esaltata fino a farne una creatura angelica?

de Rougemont ipotizza una sorta di oscuro senso di colpa, di ricerca di un bilanciamento, per quanto inconscio. Ma tutto questo, che prosegue a fasi alterne da allora, non è altro che il segno della paura della donna. E più una società cova e nutre questa paura, più il dualismo si estremizza.

Perché ho parlato così a lungo del saggio di de Rougemont? Perché mi ha illuminata su un aspetto della nostra società che ha raggiunto livelli ormai drammatici e che, alla luce di questo, mi si è improvvisamente chiarito.

Mi sono spesso chiesta se fosse davvero possibile che un disturbo come l’anoressia, che è di fatto un lento suicidio, e che sta assumendo proporzioni allarmanti in tutto l’Occidente, e si sta estendendo anche a paesi che si stanno occidentalizzando, diffusa soprattutto fra le adolescenti, ma non solo, si possa attribuire solo al fatto che la moda impone modelli di “bellezza” che nulla hanno da invidiare ai poveri corpi ritrovati nei campi di concentramento. Modelli imposti con la complicità dei designer di moda.

Certo, riviste, catwalks, sfilate, televisione, cinema, sono pieni di scheletri femminili ambulanti spacciati per belle ragazze. E’ vero che le forme dolcemente arrotondate di una donna normale sono bollate come orribile obesità, è vero che le uniche curve ammesse e anzi ricercate sono quelle FINTE, siliconate, gonfiate artificialmente e NON naturali, è vero che  soprattutto in Italia molti uomini rifiutano come brutte ragazze e donne bellissime ma morbide in favore  di altre magari orrende ma magre. Che la magrezza eccessiva è considerata segno di bellezza e non di poca salute. Ed è vero che, attorno a tutto questo, gira un business – fra moda, integratori, chirurgia plastica, cosmesi ecc. – di miliardi sulla pelle delle donne.

Ma tutto questo non è sufficiente a spiegare il fenomeno che dilaga e uccide. No.

Perché tutto questo è solo un EFFETTO, non una CAUSA. Non mi convinceva la spiegazione che ne viene data. Non è sufficiente, come non è sufficiente addossare tutto al rapporto madre – figlia.

No. Non è sufficiente.

Invece, se noi pensiamo che alla sua origine ci sia una vera e propria recrudescenza di paura e odio verso la donna e tutto ciò che rappresenta, soprattutto dopo le lotte femministe degli anni 60 e 70, se noi pensiamo che sono aumentate le violenze sulle donne, gli assassinii di donne, che la parità sociale ed economica – tranne rare eccezioni – è ancora una chimera, dunque che la donna si trova di nuovo in una sorta di moderno Medio Evo, ecco che allora sarà molto più chiaro ed evidente perché una creatura priva di ogni connotazione femminile, che non ha mestruazioni, che riduce se stessa a un soffio, che non ricorda nulla di una donna se non l’idea astratta, è celebrata e imposta di fatto come ideale di donna. Di fatto una donna privata della sua concretezza e carnalità, che non fa paura, che non è in grado di generare. Che nega quella vita di cui è portatrice naturale.

Poiché i miti agiscono soprattutto a livello inconscio tanto più quanto sono potenti, ecco che il mito della donna-angelo imposto dall’Occidente cristiano e misogino come misogina è la Chiesa, molti secoli fa, rispunta oggi più potente e pericoloso che mai. Il dualismo tra corpo e anima, tra materia e spirito in una società che, come la nostra, disconosce l’anima e lo spirito, è radicato al punto ancora oggi che, di fronte al pericolo di una rinascita del potere del femminino, si è risvegliato in tutta la sua virulenza.

Così sono le stesse donne che assorbono questo veleno e, tra loro, ancor di più le donne adolescenti, quelle con meno difese. Bombardate dalle immagini di morte spacciate per bellezza e fascino sensuale (mentre li negano apertamente), alla ricerca dell’approvazione di maschi insicuri e spaventati, si macerano, si affamano, si annullano negandosi la vita. Negano il proprio corpo e con esso la propria femminilità.

Basti pensare agli orrori, alle torture a cui si sottopongono molte donne violando e violentando il proprio corpo nelle sale operatorie dei chirurghi plastici, veri esecutori di un tribunale dell’Inquisizione che, invisibile, condanna le donne a mutilarsi, squartarsi, farsi infilzare nelle carni cannule per estrarre litri di “osceno grasso”, farsi tagliare seni, pance, pelle, nasi, farsi tirare lineamenti e iniettare veleni. O, ultima moda caldamente consigliata dai chirurghi, la chirurgia bariatrica, vera e propria mutilazione irreversibile, i cui effetti nel tempo non sono ancora noti. Col pericolo magari, di morire sotto i ferri o risultarne sfregiate.  Cosa ha di diverso tutto questo dalle camere di tortura in cui le streghe venivano maciullate, se non il fatto, ancora più orribile, che ora lo fanno volontariamente?

Ma insieme alle donne, anche gli uomini assorbono un veleno che li ammorba a livello inconscio.

Ma anche Con tutto il rispetto per la libertà di vivere la propria sessualità come meglio si crede, è un fenomeno ben strano che migliaia (le cifre statistiche parlano chiaro) e migliaia di uomini sposati, fidanzati e apparentemente senza problemi, frequentino abitualmente uomini che assumono l’aspetto spesso esasperato di donne.

Sono a contatto quotidiano con adolescenti e ho sotto gli occhi tutto questo. Solo le ragazze con una personalità molto forte sfuggono seppure con fatica a questo incantesimo mortifero.

E vorrei anche aggiungere che la portata di questa distorta visione dell’amore per sè e per l’altro che sfocia nella negazione del proprio corpo, è molto, ma molto maggiore di quanto si creda. Le cifre della diffusione dell’anoressia vanno lette per difetto.

Alcuni giorni fa Dacia Maraini ha scritto un breve articolo sul Corriere della Sera, in cui si poneva questa stessa  questione, avendo osservato nella vita di Caterina da Siena, di cui si è occupata per un bellissimo testo teatrale, che questo stesso rifiuto del cibo fino allo sfinimento era originato da una ricerca furiosa di ascesi e da un misticismo esasperato. Ha dunque giustamente collegato questa stessa ricerca di una spiritualità che l’Occidente ha cancellato, nei comportamenti di chi si priva del cibo fino alla morte.

La sua analisi è frutto di grande intuizione e della sensibilità che contraddistingue tutta la sua scrittura, ma, imboccata la via maestra,  si spinge solo fino a un certo punto. La privazione del cibo, i digiuni, sono sempre stati associati all’ascesi e nel Medio Evo cristiano non era solo Caterina da Siena a praticarlo. Certo, lei si spingeva fino agli estremi, ma non era un’eccezione. Tuttavia l’esempio della Maraini conferma quanto dicevo in precedenza sul concetto cataro del corpo e della materia e sulla visione idealizzata della donna in quel tempo.

Io credo si debba scavare ancora, fino a trovare il seme originario. Credo che potrebbe essere quello da me proposto.

E’ un’ipotesi e un’intuizione sorretta dall’analisi.

Ecco, potrebbe essere questa  l’origine di questa epidemia dilagante di  anoressia. Non è altro che l’ennesima forma, in vesti moderne, di caccia alle streghe. Come si riconosce oggi una strega? Cosa la denuncia? Cosa la rende un orribile essere da perseguire? Quelli che, con la complicità di medici, nutrizionisti, mass media, stilisti, industria dello spettacolo e della moda, sono definiti “chili in più”. Cioé quelli che costituiscono i caratteri secondari sessuali del sesso femminile e sono lì a testimonianza del potenziale che ha la donna di dare la vita, di detenere quel potere arcaico e misterioso che per 25.000 anni ha visto l’esistenza di una società matriarcale, pacifica, negatrice della violenza, il cui essere speriore era configurato nel culto di una Grande Dea Madre e che fu annientata dall’avvento di una società patriarcale, guerriera, basata sul potere del più forte.

Una società che voglia imporsi tende ad annientare la società precedente e questo è avvenuto. Eppure le vestigia di quella lontanissima società non sono mai del tutto sparite. Una sapienza femminile si è conservata nei secoli, tramandata di madre in figlia. Conoscenze legate al mondo della natura e dei suoi cicli, a cui la donna è fisiologicamente legata, alle terapie naturali. E di quando in quando tutto questo è stato osteggiato e combattuto con forza feroce. Come nei 4 secoli di persecuzione delle “streghe”, semplici depositarie di quella sapienza arcaica.

Del resto, anche oggi il ritorno alle terapie naturali rivela il perdurare millenario di questa sapienza. Ecco come allora la nostra società, se da una parte ricerca l’antica sapienza ed esalta, secondo le forme che sono proprie di questa società, cioè visive ed esteriori, l’essenza più astratta del femminino, dall’altra dimostra una misoginia sinistra nei confronti della donna e dell’infanzia ed è di fatto scissa in un dualismo manicheo, malsano e generatore di sofferenza.

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EGIDIO GAVAZZI “DESIDERIO DI VOLO”

Egidio Gavazzi è una di quelle persone di cui l’Italia dovrebbe essere orgogliosa. Perché è uno dei nostri più illustri ecologi, è un raro conoscitore, osservatore e fotografo della natura, ha fondato riviste come Airone, Acqua, Silva, Alisei, perché la sezione italiana di Greenpeace è nata a casa sua, perché ha dedicato la vita all’amore per la natura, perché è un uomo di una cultura vasta, raffinata e che spazia in molte culture ed epoche, perché ha girato il mondo con occhi di poeta e perché è da sempre innamorato perso di una delle passioni più antiche e mistiche dell’uomo: volare.

Ho usato il condizionale all’inizio, perché la storia di questo libro, o meglio, di questa lunghissima poesia, lascerebbe intendere che le grandi case editrici italiane, che tanto si danno da fare – a loro detta – per scoprire vecchi e nuovi talenti e per pubblicare scrittori di tutto il mondo, non hanno in realtà alcun interesse a pubblicare testi il cui contenuto e la cui scrittura sono di qualità eccellente. Ma questa mia affermazione, le parole che ho usato, non dicono quel che è il libro, sono scioccamente riduttive.

Tuttavia, conoscendo bene il mondo dell’editoria italiana, non mi meraviglia affatto che Gavazzi abbia trovato tante difficoltà per la pubblicazione, lui che per poter scrivere di natura come voleva e poteva, ha fondato una delle riviste più belle del 900, Airone. Come meravigliarsi se, anche uno scrittore unico come Guido Morselli, di cui pure si parla nel romanzo, abbia dovuto tirarsi una rivoltellata perché gli editori corressero a pubblicarlo? Ma evidentemente da morto non era più tanto pericoloso. Pensare, e soprattutto pensare in modo originale, avere una visione del mondo complessa e inusitata, in Italia, si sa, è ritenuto sospetto, dunque pericoloso.  Non c’è di meglio che oscurare, ignorare, mettere a tacere.

DESIDERIO DI VOLO, Sironi Editore, racconta con l’andamento ondivago della memoria, un sogno che si realizza nel corso di una vita eccezionale. Il sogno di volare. Che è da sempre un sogno umano, ma che qui nasce insieme a quel bambino che prima osserva l’universo aereo, poi lo imita, poi si identifica in un nibbio. Che SCEGLIE di diventare un uccello e vi si immedesima, al punto di pensare e vedere il mondo con gli occhi e la mente di un uccello. E dunque, da adulto, si fornisce di ali, quelle degli aerei, per iniziare una lunghissima e ininterrotta storia d’amore con l’aria e la sua dimensione.  Quella della libertà.

Come tutti i percorsi che, se non conducono definitivamente alla libertà, vi si dirigono comunque con ostinazione, anche questo è disseminato di sconfitte, di  disillusioni e amarezze. Che non vengono dall’aria e dai suoi abitanti, ma da altri uomini e, talvolta, dal misurarsi con parti non del tutto note di sé. Eppure, è proprio da questi incidenti di percorso che nasce la conoscenza e la passione cresce e dilaga fino ad invadere ogni campo della vita. Una vita, quella narrata, che davvero diventa “una vita inimitabile”.

Una vita che è stata e continua ad essere, la ricerca della purezza, della bellezza.

“Il cielo, il volo, hanno un potere purificatore sul mondo. Dall’alto il brutto e lo spiacevole tendono a sparire. Nella prospettiva che si allontana si perdono le costruzioni sgradevoli, il disordine, la sporcizia. Tuttavia la nostra capacità di leggere il paesaggio integra il segnale visivo con quegli elementi di negatività che ci sono troppo noti per riuscire a rimuoverli, anche quando sono lontani e confusi. La notte è diverso. La notte è un altro mondo.

Senza il dettaglio del reale che sfila di fianco, senza gli odori degli scarichi, senza un’individuabile presenza di persone, come sarebbe vista da un’automobile, la città dall’alto si trasforma in una sinfonia di luci, senza rumori, senza odori, e si offre in tutta la sua apparente purezza ai pochi che hanno il privilegio di sorvolarla come noi, così piano, così basso.”

E penso, leggendo queste righe, a quando Leopardi parla della luna, di come, osservata dagli astri, la terra appaia lontana e tutti gli affanni e le brutture umane perdano di valore e significato. Perché è così, perché solo uscendo da noi stessi e fondendoci col tutto e dimenticando noi stessi riusciamo a capire noi stessi.

Storie di uccelli e di aerei, divenuti creature vive, dotate di anima e sentimenti, si rincorrono alternandosi come una doppia spirale del DNA attorno a quest’anima di sognatore.

E la dimensione onirica si mischia col quotidiano e il reale, anche grazie a uno stile davvero originale. Anche narrando di dati tecnici di volo, anche tracciando i ritratti e gli ambienti di una famiglia d’origine così bizzarra e affascinante da aver impresso per sempre il marchio della libertà e del desiderio di conoscenza, lo stile è quello di un poema in prosa e non v’è fatto o avvenimento che non acquisti un significato paradigmatico. Che non si faccia conoscenza.

La storia narrata è quella di chi ha girato il vasto mondo, da un continente all’altro, per vedere, scoprire, capire, per amore della vita che si manifesta in innumerevoli forme, una delle quali è anche l’uomo, ma non l’unica e, certo, non la più felice.

Del resto l’Ulisse di Dante compie il folle volo per inseguire la “canoscenza”. Ed il volo non è che la metafora di una visione “dall’alto” delle cose, di una visione più universale.

Leggendo questo libro intensissimo, che in molti punti ti afferra dentro, non ho potuto evitare di chiedermi quale visione abbiano gli uccelli di noi. 

Vidiadhar S. Naipaul a Mantova

Finalmente qualcuno ha messo a tacere la supponenza e l’ignoranza dei giornalisti, o sedicenti tali, che vanno in giro per i festival letterari a porre stupide domande agli scrittori. Di chi, solo perché viene affiancato a grandi autori, si sente in diritto di fare il bello e il cattivo tempo.

Forse la giornalista che pensava di mettersi in mostra facendo domande sciocche a V.S. Naipaul,  credeva di trovarsi di fronte a uno dei tanti venduti damerini e damerine della “letteratura” di casa nostra. Gente che non ha nulla da dire e che quel nulla lo dice oltretutto male. Disposti a tutto per un istante di cronaca.

Le domande, tutte volte a fargli esprimere forzatamente dei giudizi politici sull’Islam, sul terrorismo ecc. non hanno in alcun modo tenuto conto del fatto che Naipaul si è esposto in passato con coraggio su questi temi, ma poi, dati i rischi che ha capito di correre, ha deciso di tacerne. E il suo silenzio sull’argomento è, mi pare chiarissimo, molto più pesante ed esplicito di qualunque esternazione.

Ma questo non ha fermato la giornalista, nessun rispetto per la scelta di Naipaul. Si doveva per forza ottenere lo scoop. Lei ne sarebbe uscita come quella che l’aveva fatto sbottonare. Che brava!

Ma, nel caso di Naipaul, è caduta male. L’aristocratico scrittore non tollera la stupidità e l’ha dimostrato in infinite occasioni. Nonostante abbia sottolineato di essere uno scrittore e NON un politico, le domande non sono cambiate.

Dopo l’intervemto della moglie, la giornalista, con aria di condiscendenza e col tono di chi stia parlando a un cretino,  si è decisa a fargli una domanda da scrittore. “Ci parli della sua scrittura”… Come no?  Ma perché avrebbe dovuto rispondere a quel punto a una persona che, pochi istanti prima, aveva definito lui stesso “di vedute ristrette”? Naipaul stupido non è e ha ben capito l’atteggiamento con cui la domanda sulla sua scrittura gli veniva posta. Cioé senza rispetto e senza alcun interesse per la sua scrittura. Tanto per non perdere la faccia.

Dunque ha fatto non bene, ma  benissimo ad andarsene. Deve aver capito il livello della kermesse letteraria in cui si trovava. Il pubblico doveva prendersela con il poco tatto, con la grossezza dell’intervistatrice.

Anni fa mi capitò di essere inviata al festival di Mantova per conto di un quotidiano. Cosa ho visto? Ad una colazione con Joseph O’Connor, i giornalisti delle maggiori testate nazionali, incapaci di biascicare una sola parola di inglese o di capirlo,  pretendevano di fargli interviste e finì che  lo intervistai io, che comunque lo facevo per me,  traducendo in simultanea le risposte dello scrittore irlandese, che gli altri a quel punto annotavano alacremente.

In un incontro con Vikram Chandra, l’acclamato scrittore sardo di successo che lo affiancava nell’incontro e che avrebbe dovuto discutere con lui dei due bellissimi romanzi che Chandra aveva all’attivo, dimostrò di non aver letto una sola pagina di Chandra, ma soprattutto di non avere la più pallida idea della letteratura e cultura indiane, di non sapere di cosa si stesse parlando, con un effetto grottesco. Chandra, disgustato, lo guardava allibito.

Negli articoli che scrissi per il quotidiano riportai tutto questo, ma chissà perché non vennero pubblicati…

Tutto questo è l’ennesima prova  dell’approssimazione all’italiana, delle pessime figure che facciamo non solo in politica. C’è questa bizzarra idea che l’arroganza e l’ignoranza che da noi sono un biglietto da visita per la scalata al successo siano cose normali anche nel resto del mondo. Che ciò che accade in Italia in politica, economia, cultura, nel sociale, nel privato, sia il modo in cui va il mondo altrove.  Anche perché è questo che ci raccontano.

Non è vero! Siamo il terzo mondo d’Europa. In tutti i sensi.

Ma, quando poi le reazioni sono quelle dovute, se ne addossa la colpa non alla propria grossolanità e ignoranza, ma alla persona che ha reagito con sdegno o dignità a questo triste andazzo.

Difatti i quotidiani e le TV riportano la notizia della giusta reazione di Naipaul come l’ennesima prova del cattivo carattere del premio Nobel.

Non sarebbe ora di fare un po’ di sana autocritica?

IL VALORE DEL PASSATO

 

 

Che valore può avere il passato per noi? Penso che nessuno metta in dubbio che ciò che siamo oggi è la somma di tutte le nostre esperienze, avvenimenti, emozioni vissuti. Delle conoscenze che abbiamo accumulato e delle lezioni che abbiamo o non abbiamo imparato.

Eppure, rimanere ancorati al passato è come vivere in una morsa, in una gabbia che ci toglie ogni libertà, perché ci impedisce di vivere il presente. E la vita non è altro che un eterno presente.

Il tempo, come noi lo concepiamo, è solo una convenzione umana, respira solo nella dimensione dell’esistenza  che ci fa esseri che “sentono”. E l’esistere è sentire. 

Ma l’esistere è cosa dell’istante, l’Augenblick di  cui parla Goethe nel Faust. “Istante fermati. Sei bello!” dice Faust, nella sua assetata ricerca del senso della vita. Noi “esistiamo” perché in quella esperienza – e non in un’altra – percepiamo noi stessi essere. Dunque il senso è nel presente.

E allora, che valore ha o deve avere per noi il passato? Ecco, io penso che  il passato non come fardello debba intendersi, come ancora a cui rimanere attraccati e bloccati, ma il passato come serbatoio di futuro. Perché noi siamo la somma del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro. Ma non tanto, o non solo come individui, ma come umanità.

Penso all’immenso patrimonio dei miti, della tradizione orale, in cui è racchiusa, e ancora solo in minima parte esplorata, la risposta a chi noi siamo. E’ tutto lì, racchiuso nel passato e galleggiante, come un immenso universo sommerso, sul mare del tempo.

C’è un dipinto famosissimo di Paul Gauguin, “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” che dipinse nel 1897, poco tempo prima del tentativo di suicidio. E mi immagino che quel dipinto abbia significato per lui la ricerca disperata di un senso a se stesso. Forse più che una domanda sul senso collettivo dell’esistenza umana, la ricerca del significato del proprio destino, del proprio essere nel mondo.

Nessuna cultura ha mai cancellato, condannato, eliminato il passato come stiamo facendo noi. E il risultato non è la capacità di vivere nel presente. Tutt’altro. Perché il presente acquista valore solo nella prospettiva di  un passato riconoscibile, di un passato che diventa fonte e origine. Un presente svincolato da una continuità fluida diventa per forza di cose una superficie senza profondità. E l’assenza di profondità, di radici, genera angoscia.