
Sono davvero felice che il Nobel sia andato a questa grandissima poetessa americana. Davvero grande, per la profondità della sua opera, per la limpidezza (non semplicità, quella è solo apparente) del linguaggio, un mare di cristallo sotto cui respira un’anima potente, per la sensibilità con cui affronta temi universali e difficili, per la grande familiarità che ha col mito classico, che in lei rivive e fruttifica. Ho letto pareri di vario tipo sulla sua poesia; chi la definisce dura, che non fa sconti, chi la definisce semplice seppur ricca di contenuti, chi definisce la sua lingua diretta, chi ancora antiquata e tradizionalista. Sicuramente qualcosa di questo è in parte vero – a parte la semplicità, che proprio non è nelle sue corde di anima tormentata e cristallina insieme, né nella sua lingua. E non certo l’essere antiquata e tradizionalista. Forse si dimentica che, per fare grande poesia, non c’è bisogno di usare paroloni obsoleti o arcaicizzanti, né di essere oscuri e incomprensibili, come tanti poeti italiani, anche ritenuti grandi suppongono, facendo della poesia un vuoto esercizio autoreferenziale e narcisista, parimenti non è limitandosi a descrivere in modo asettico “la cosa”, invece di pagarla col sangue, o di perdersi in vuoti sperimentalismi fini a se stessi, ma è necessario attingere alla fonte profonda del Sé, come lei fa, elaborare una propria mitologia interiore creatrice del mondo, capace di riscriverlo. E’ questa la differenza fra un grande poeta e un poeta mediocre. Anzi, io trovo che proprio quella sua classicità, quella sua misura aurea della forma, in così grande contrasto con temi estremamente drammatici e forti, sia la sua cifra innovativa.
Direi che, da questo punto di vista, Frammento arcaico sia assolutamente paradigmatico. Pur se il testo affonda le radici in uno dei più dolorosi nodi della sua personalità, quel difficile rapporto con se stessa e con la propria identità, un conflitto sfociato poi nell’anoressia nervosa, che le è costato molti anni di analisi, in particolare il verso – Non puoi odiare la materia e amare la forma – non è solo da intendersi come il rivelare il noto conflitto di chi è affetto da questa malattia, fra il rifiuto del corpo e la sublimazione ossessiva, perfezionista della propria immagine, ma diviene metafora del suo fare poetico. Lo scontro fra pulsioni interiori potenzialmente distruttive e l’aspirazione a dar loro una forma strutturata e unificatrice. Credo sia questo un possibile filtro di lettura per comprendere quella che apparentemente è una forma classica – analogamente alla ricerca di risposte nel nutriente serbatoio del mito – e la materia della sua poesia, che è tragica. Insomma, la tecnica è quella della catarsi tragica, come Carlo Diano insegna, che nasce come incontro fra tèchne alypias, tecnica per la liberazione del dolore, ideata da Antifonte Sofista, e la praemeditatio futurorum malorum dei Cirenaici. Insomma, una forma di meditatio mortis, e in effetti il tema della morte, fisica e simbolica, è uno dei suoi temi ricorrenti. Da questo punto di vista, la poesia della Gluck è una forma di catarsi. E, come tale, travalica la dimensione personale e si fa universale.
Grandissima e famosissima, eppure in Italia sono uscite solo due sue opere, curate da quel raffinato anglista che è Massimo Bacigalupo, ma presso due piccolissimi editori. A dimostrazione che, quando si propone un grande autore straniero alle case editrici italiane, magari premiatissimo e famoso nel resto del mondo, ma da noi sconosciuto, invece di ringraziarti e aprirgli le porte, ti snobbano, proprio con la scusa che a loro è ignoto. Salvo poi scoprire anni dopo che magari ha avuto il Nobel e avrebbero potuto averlo in catalogo per primi.
Io ne conoscevo dei testi, ma non mi sono mai misurata con la traduzione, così, in questa occasione, desidero recarle omaggio con quattro testi da me scelti e tradotti.
F. D.
*********
PAESAGGIO ABORIGENO
Stai pestando tuo padre, disse mia madre,
ed in effetti stavo esattamente al centro
di un tappeto erboso, così curato che avrebbe potuto
essere la tomba di mio padre, pur se non v’era lapide a segnarla.
Stai pestando tuo padre, ripeté,
più forte questa volta, il che mi parve strano,
poiché era morta; l’aveva ammesso anche il medico.
Mi spostai leggermente di lato, fin dove
finiva mio padre e mia madre iniziava.
Il cimitero era silenzioso. Vento soffiava tra gli alberi;
sentivo un suono flebile di pianto a molte file di distanza,
e, più oltre, il guaito di un cane.
Infine i suoni tacquero. Mi venne in mente
che non ricordavo d’essere stata condotta lì,
in quello che ora pareva un cimitero, benché potesse essere
solo nella mia mente un cimitero; forse era un parco, o se non un parco,
un giardino, o una pergola, profumata, ora notavo, di rose –
douceur de vivre colmava l’aria, la dolcezza del vivere,
come si dice. A un certo punto,
mi resi conto d’essere sola.
Dov’erano le altre,
le cugine e mia sorella, Caitlin e Abigail?
La luce stava ormai scemando. Dov’era l’auto
che ci aspettava per portarci a casa?
Cercai allora qualche alternativa. Avvertii
crescere l’impazienza, direi approssimarsi l’ansia.
Infine, in lontananza, scorsi un trenino,
fermo, sembrava, dietro del fogliame, il controllore
poggiato a una portiera, fumava una sigaretta.
Non si scordi di me, gridai mentre correvo
superando molte tombe, molti padri e madri–
Non si scordi di me, gridai quando infine lo raggiunsi.
Signora, disse, indicando i binari,
certo si rende conto che questo è il capolinea, i binari non vanno oltre.
Le sue parole erano dure, eppure gli occhi erano gentili;
questo m’incoraggiò a insistere di più.
Ma ritornano indietro, dissi e gli feci notare
la loro robustezza, come ancora avessero in sé molti di quei ritorni.
Sa, disse, il nostro è un lavoro difficile: ci confrontiamo
con tanto dolore e delusione.
Mi guardò con crescente franchezza.
Un tempo ero come lei, aggiunse, innamorato dell’agitazione.
Allora gli parlai come si parla a un caro amico:
Che le è successo, dissi, poiché era libero di andarsene,
non desidera tornare a casa,
di rivedere la città?
È questa la mia casa, disse.
La città – la città è dove io scompaio.
Aboriginal Landscape
You’re stepping on your father, my mother said,
and indeed I was standing exactly in the center
of a bed of grass, mown so neatly it could have been
my father’s grave, although there was no stone saying so.
You’re stepping on your father, she repeated,
louder this time, which began to be strange to me,
since she was dead herself; even the doctor had admitted it.
I moved slightly to the side, to where
my father ended and my mother began.
The cemetery was silent. Wind blew through the trees;
I could hear, very faintly, sounds of weeping several rows away,
and beyond that, a dog wailing.
At length these sounds abated. It crossed my mind
I had no memory of being driven here,
to what now seemed a cemetery, though it could have been
a cemetery in my mind only; perhaps it was a park, or if not a park,
a garden or bower, perfumed, I now realized, with the scent of roses —
douceur de vivre filling the air, the sweetness of living,
as the saying goes. At some point,
it occurred to me I was alone.
Where had the others gone,
my cousins and sister, Caitlin and Abigail?
By now the light was fading. Where was the car
waiting to take us home?
I then began seeking for some alternative. I felt
an impatience growing in me, approaching, I would say, anxiety.
Finally, in the distance, I made out a small train,
stopped, it seemed, behind some foliage, the conductor
lingering against a doorframe, smoking a cigarette.
Do not forget me, I cried, running now
over many plots, many mothers and fathers —
Do not forget me, I cried, when at last I reached him.
Madam, he said, pointing to the tracks,
surely you realize this is the end, the tracks do not go further.
His words were harsh, and yet his eyes were kind;
this encouraged me to press my case harder.
But they go back, I said, and I remarked
their sturdiness, as though they had many such returns ahead of them.
You know, he said, our work is difficult: we confront
much sorrow and disappointment.
He gazed at me with increasing frankness.
I was like you once, he added, in love with turbulence.
Now I spoke as to an old friend:
What of you, I said, since he was free to leave,
have you no wish to go home,
to see the city again?
This is my home, he said.
The city — the city is where I disappear.
Ognissanti
Ancora questo paesaggio si va componendo.
Le colline s’oscurano. I buoi
dormono nel loro giogo azzurro,
i campi sono stati
ripuliti, i fasci
uniformemente legati e accatastati sul bordo della strada
fra le potentille, mentre la luna dentata si leva:
Questa è la brullità
del raccolto o della pestilenza.
E la moglie che si sporge alla finestra
la mano tesa, come a pagare,
e i semi
distinti, d’oro, chiamano
Vieni qui
Vieni qui piccolino
E l’anima striscia fuori dall’albero.
All Hallows
Even now this landscape is assembling.
The hills darken. The oxen
sleep in their blue yoke,
the fields having been
picked clean, the sheaves
bound evenly and piled at the roadside
among cinquefoil, as the toothed moon rises:
This is the barrenness
of harvest or pestilence.
And the wife leaning out the window
with her hand extended, as in payment,
and the seeds
distinct, gold, calling
Come here
Come here, little one
And the soul creeps out of the tree.
Frammento arcaico
Stavo cercando di amare la materia.
Attaccai un biglietto sullo specchio:
Non puoi odiare la materia e amare la forma.
Era una bella giornata, seppur fredda.
Questo, per me, fu un gesto bizzarramente emotivo.
……. la tua poesia:
tentai, ma non potei.
Attaccai un biglietto sul primo biglietto:
Grida, piangi, colpisciti, stracciati le vesti–
Lista delle cose da amare:
terra, cibo, conchiglie, capelli umani.
……. diceva
eccesso di cattivo gusto. Allora
stracciai i biglietti.
AIAIAIAI
gridò lo specchio nudo.
Archaic Fragment
I was trying to love matter.
I taped a sign over the mirror:
You cannot hate matter and love form.
It was a beautiful day, though cold.
This was, for me, an extravagantly emotional gesture.
…….your poem:
tried, but could not.
I taped a sign over the first sign:
Cry, weep, thrash yourself, rend your garments—
List of things to love:
dirt, food, shells, human hair.
. …… said
tasteless excess. Then I
rent the signs.
AIAIAIAI cried
the naked mirror.
Mito di devozione
Quando Ade decise che amava la fanciulla
creò per lei un duplicato della terra,
uguale in tutto, fin nei prati,
ma con l’aggiunta di un letto.
Tutto uguale, compresa la luce,
perché sarebbe stato duro per una fanciulla
passare tanto in fretta dalla luce splendente alla totale tenebra.
A gradi, pensò, avrebbe inserito la notte,
dapprima come ombre di foglie ondeggianti.
Poi la luna, le stelle. Poi né luna, né stelle.
Che Persefone vi si abitui pian piano.
Alla fine, pensò, lo troverà rassicurante.
Una replica della terra
solo che qui v’era amore.
Non vogliono tutti amore?
Attese molti anni,
costruendo un mondo, osservando
Persefone nel prato.
Persefone, che odorava, assaporava.
Se hai un appetito, pensò,
li hai tutti.
Forse che ognuno non vuol sentire nella notte
il corpo amato, bussola, stella polare,
ascoltare il quieto respiro che dice
sono vivo, che significa anche
che tu sei viva perché mi ascolti,
sei qui con me. E quando si gira l’uno
anche l’altra si gira–
Questo sentiva, il signore delle tenebre
guardando il mondo che aveva
creato per Persefone. Non gli venne mai in mente
che lì non vi sarebbe più stato un odorare,
e certamente non più un mangiare.
Senso di colpa? Terrore? Paura dell’amore?
Queste cose non poteva immaginarle;
non le immagina mai nessun amante.
Sogna, si chiede come chiamare questo luogo.
Dapprima pensa: Il Nuovo Inferno. Poi: Il Giardino.
Infine, decide di chiamarlo
Fanciullezza di Persefone.
Una morbida luce si leva sopra il prato,
dietro il letto. La prende fra le braccia.
Vuole dirle ti amo, nulla ti può ferire
ma pensa
che è una bugia, così alla fine dice
sei morta, nulla ti può ferire
che a lui sembra
un inizio più promettente, più vero.
A Myth of Devotion
When Hades decided he loved this girl
he built for her a duplicate of earth,
everything the same, down to the meadow,
but with a bed added.
Everything the same, including sunlight,
because it would be hard on a young girl
to go so quickly from bright light to utter darkness
Gradually, he thought, he’d introduce the night,
first as the shadows of fluttering leaves.
Then moon, then stars. Then no moon, no stars.
Let Persephone get used to it slowly.
In the end, he thought, she’d find it comforting.
A replica of earth
except there was love here.
Doesn’t everyone want love?
He waited many years,
building a world, watching
Persephone in the meadow.
Persephone, a smeller, a taster.
If you have one appetite, he thought,
you have them all.
Doesn’t everyone want to feel in the night
the beloved body, compass, polestar,
to hear the quiet breathing that says
I am alive, that means also
you are alive, because you hear me,
you are here with me. And when one turns,
the other turns—
That’s what he felt, the lord of darkness,
looking at the world he had
constructed for Persephone. It never crossed his mind
that there’d be no more smelling here,
certainly no more eating.
Guilt? Terror? The fear of love?
These things he couldn’t imagine;
no lover ever imagines them.
He dreams, he wonders what to call this place.
First he thinks: The New Hell. Then: The Garden.
In the end, he decides to name it
Persephone’s Girlhood.
A soft light rising above the level meadow,
behind the bed. He takes her in his arms.
He wants to say I love you, nothing can hurt you
but he thinks
this is a lie, so he says in the end
you’re dead, nothing can hurt you
which seems to him
a more promising beginning, more true.
Da Averno, 2006.
Fine d’estate
Dopo che ogni cosa mi fu venuta in mente,
mi venne in mente il vuoto.
V’è un limite
al piacere che ho avuto nella forma –
in questo non sono come te,
non ho sollievo in un altro corpo,
non ho bisogno
di rifugi che mi siano esterni-
Mia povera ispirata
creazione, sei
non altro che distrazione, infine,
mera decurtazione; sei
come me troppo piccola alla fine
per soddisfarmi.
E poi così decisa-
esigi un pagamento
per scomparire,
tutto pagato in qualche luogo della terra,
qualche souvenir, come un tempo fosti
ricompensata per la fatica,
poiché lo scriba lo si paga
con l’argento, il pastore con l’orzo,
benché non sia la terra duratura, né
questi piccoli frammenti di materia-
Se tu aprissi gli occhi
mi vedresti, vedresti
la vacuità del cielo,
che si rispecchia sulla terra, i campi
vuoti di nuovo, senza vita, innevati,
poi luce bianca
non più camuffata da materia.
End of Summer
After all things occurred to me,
the void occurred to me.
There is a limit
to the pleasure I had in form –
I am not like you in this,
I have no release in another body,
I have no need
of shelter outside myself –
My poor inspired
creation, you are
distractions, finally,
mere curtailment; you are
too little like me in the end
to please me.
And so adamant –
you want to be paid off
for your disappearance,
all paid in some part of the earth,
some souvenir, as you were once
rewarded for labor,
the scribe being paid
in silver, the shepherd in barley
although it is not earth
that is lasting, not
these small chips of matter –
If you would open your eyes
you would see me, you would see
the emptiness of heaven
mirrored on earth, the fields
vacant again, lifeless, covered with snow –
then white light
no longer disguised as matter.
.
Ott 10, 2020 @ 11:21:11
L’ha ripubblicato su Paolo Ottaviani's Weblog.
"Mi piace"Piace a 1 persona