Ed eccola finalmente in italiano, con testo a fronte, la raccolta di Anita Nair, Cuore di Malabar (titolo originale, Malabar Mind), a mia cura, edita da Marco Saya Edizioni nella nuova collana di poesia straniera Kelen, diretta da Antonio Bux (grazie Antonio). Ne sono immensamente felice, in primo luogo perché cercavo per questa raccolta un editore adatto (non sono molti in Italia gli editori di poesia non a pagamento) e in Marco Saya, editore raffinato, ho subito trovato un grande entusiasmo per il progetto. In secondo luogo perché penso che i numerosissimi lettori italiani di Anita Nair, una delle scrittrici indiane più note e amate in tutto il mondo, tradotta in 28 lingue, avrebbero avuto certamente piacere di ritrovare nell’Anita poetessa moltissimi dei temi che sono un po’ il suo “marchio di fabbrica” e che l’hanno resa la grande romanziera che è: La natura potente e onnipresente del suo Kerala – di cui il favoloso Malabar, ora non più presente con tale nome – era parte, il realismo magico, l’esplorazione dell’animo femminile, l’empowerment femminile, lo scontro fra tradizione e modernità, la natura della passione e dell’amore, il linguaggio diretto con cui descrive emozioni e sentimenti, il rapporto donna-uomo ed altro ancora. Ma, questa volta, narrato con il linguaggio della poesia.
Un altro motivo per cui questa edizione mi rende felice, è che mi ha dato la possibilità di scrivere, nell’Introduzione, molte delle riflessioni sulla sua scrittura, nate da venti anni di amicizia, lavoro con lei come sua traduttrice italiana e frequentazione. Il moltissimo che avevo da dire, anche su alcune altre poetesse indiane, ho cercato di condensarlo in alcune pagine, con la speranza di essere buona compagna di viaggio, pur se giustamente in sottofondo, per il lettore in questo nuovo percorso che affianca la sua prosa e, per certi versi, permette di guardarla sotto una nuova luce.
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Brevemente, dalla mia Introduzione:
“Chi legge la prosa di Anita Nair si accorge presto che non è solo una romanziera e prosatrice sapiente, ma può percepire, serpeggiante sotto la robusta struttura dei suoi testi, una vena lirica e poetica che emerge a tratti con grande forza e ruba la scena…
Ci sono momenti in cui lo stile si fa improvvisamente più alto, cantante, ed ecco hai quasi di fronte dei petits poèmes en prose incastonati nel testo e mi è accaduto, in quei momenti, di sentirmi trascinata dalla lingua in una dimensione diversa, vibrante a un diverso registro. Nessuno quanto un traduttore infatti ha la possibilità, il privilegio direi, di penetrare nei meccanismi più profondi della scrittura di un autore e di osservare la formazione stessa del processo creativo; il suo costruirsi, il suo dispiegarsi fino a raggiungere la sua forma compiuta. Dunque non deve meravigliare se Anita Nair è anche autrice di testi poetici, raccolti e pubblicati per la prima volta nel 2002 col titolo di Malabar Mind (Cuore di Malabar) e, nel 2010, in una nuova edizione per i tipi di Harper Collins India. Il significato del titolo lo spiega lei stessa all’interno della raccolta:
“Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione fu divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, né compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tutt’ora come una condizione psichica[1].”
Da queste parole deriva la mia scelta di tradurre mind con ‘cuore’ e non con mente, poiché quella che celebra Anita è la dimensione non duale della mente/cuore. Uno stato dell’essere, una condizione esistenziale e allo stesso tempo una visione del mondo. Del resto, in sanscrito, il termine per mente, manas, è usato indistintamente in entrambe le accezioni di mente e cuore.
I quaranta testi della raccolta, scritti nell’arco di una decina d’anni esplorano, soprattutto nella prima parte, un mondo che per l’autrice è stato fin dagli inizi un dovizioso serbatoio di ispirazione, immaginazione, ricordo e amore, miscelati e cucinati sapientemente nella sua fucina/cucina, eppure sempre usando un linguaggio lineare, senza artifici, spesso colloquiale e quotidiano. Il mondo del Kerala delle sue origini, delle origini della sua famiglia, di cui l’antico Malabar era parte, e in cui convivono moltissime contraddizioni. Un Kerala che torna come sfondo in molti dei suoi romanzi. ….
Quello che per Anita Nair significa la poesia, lei stessa l’ha dichiarato in un’intervista: <<Non sono una poetessa che scrive poesia in modo costante. Molto spesso la mia poesia nasce o da un’intensa esperienza emotiva, o da un avvenimento che mi ha scossa fin nel profondo. In questo senso, la mia poesia si manifesta come un lampo, mentre i miei romanzi sono frutto di un lungo pensare, riflettere e di un intenso lavoro di ricerca.>>
Dunque, in un certo senso, mentre la sua narrativa è un meditato frutto della mente, la sua poesia ha natura epifanica, un luogo dove più apertamente si manifestano contenuti non mediati dell’inconscio. Ed è un aspetto interessante, perché rivela una forma di creatività che completa e in qualche modo alimenta l’altra. In effetti, chi conosce le opere di Anita Nair, ritroverà in questi testi poetici tutti i suoi temi e la sua visione del mondo, balenante per lampi, come lei stessa afferma; una luce sia pur intermittente che rende certo più nitida la percezione della sua narrativa e ne illumina i lati più in ombra. ”
[1] In inglese, state of mind, stato mentale, condizione psichica, ma anche stato d’animo. (N. d. T.)
Solitamente un uomo. A volte un Dio.
Sappilo, donna
Mille soli s’avvolgono al mio braccio.
Marchio di chi io sono
Solitamente un uomo, a volte un Dio.
Striscianti, predatori
Sento i tuoi occhi
Tracciare segni di tintura vermiglia, di curcuma e di riso
Che sferzano la seta bruna della mia pelle.
Donna, sento il tuo tocco.
Macerie di luce
Densità di una notte senza stelle.
Il mio pennello è l’indice,
La mia tintura lucente nerofumo.
Quando il tuo sguardo incontra il mio
Nell’arena d’amore ch’è lo specchio,
Mi tremano le mani,
Le linee si sbaffano.
Donna, non sai quel che mi fai.
Donna, ho abbandonato la mia pelle.
Ho avuto un sorso d’eternità.
Ed ora cesserò di essere.
Ma prima che tu scemi nel nulla,
Assaporo la linfa della palma da cocco.
Stringo la tazza di terracotta come fosse il tuo mento.
M’inumidisco le labbra alla tua bocca.
Avido bevo questo mortale desiderio proibito.
La mia corona è intrecciata d’erba e divinità.
Labbra carnose, labbra bianche, lanugine nasconde la mia bocca d’adultero.
Agito l’arco di bambù.
Sollevo la lama scintillante.
Vibrano i tamburi a ridestare il dio che s’è assopito.
Tremor di cavigliere mentre l’uomo ch’è in me si ritrae.
Non sono più chi tu hai desiderato.
Sono il tuo protettore.
Il fiero dio Muthappan.[1]
Parla Muthappan:
Io sono il signore della giungla, figlio dei tralci ritorti[2]
Lesto di piede, leale sino in fondo.
Il cane m’accompagna,
Il cieco Thiruvappan è il mio compagno.
Nei tempi oscuri di questa età
Sarò con te.
A darti aiuto e consolazione.
A proteggerti ed a sostentarti.
Guarda, con questa freccia
Che perfora l’occhio del cocco
Io distruggo ogni male
Che ti turbina intorno.
Spicco dal serto della speranza
Frammenti perché tu vi costruisca
Tutti i tuoi sogni.
Premo la mano sulla tua testa;
Che i tuoi nervi trasmettano il messaggio
Che mai io t’abbandonerò.
Tutto questo e altro ancora
Farò per te.
Ma prima dentro di me la sete
Spegnerò con latte ancora tepido.
Con il vino di palma che ribolle
Senza fermare il tempo.
Succhio dalla lunga canna di bronzo
Mastico un pezzo di pesce secco
Muthappan è soddisfatto;
Muthappan è felice.
Muthappan ha parlato.
Più non gli sono necessario.
La mia corona del potere è fatta d’erba vizza.
Scorre sulla mia fronte il sale del sudore.
Con dita che cercarono un tempo perfezione,
Di dosso mi rimuovo la maschera del dio.
Donna, sono di nuovo chi io ero,
Un uomo con pelle ed occhi
Che cercano i tuoi.
Donna, lascia che il mio desiderio al tuo s’unisca.
Che le mie labbra ustionino le tue.
Che la mia fame bruci la tua pelle.
Perché dunque ora mi sfuggi?
Forse senti l’odore di selvaggio?
Temi colui che fui?
Ascolta donna,
Io sono un uomo;
Solo talvolta un dio.
Mostly a Man. Sometimes a God
Know this, woman
Clasped around my forearm are a thousand suns.
The mark of who I amMostly a man, sometimes a God.
Crawling, maraudingI feel your eyes
Trace vermilion, turmeric and rice paint paths
Slashing the brown silk of my skin.
Woman, I feel your touch.
The debris of light
The density of a starless night.
My forefinger my brush,
Glistening lampblack my paint.
When your eyes meet mineIn the mating pool of the mirror,
My hand falters,
The line smudges.
Woman, you do not know what you do to me.
Woman, I have shed my skin.I have sipped at timelessness
Now I shall cease to be.But before you diminish
Into nothingnessI savor the life juice of the coconut palm.
Cup the baked earthen pot as if it were your chin.
I wet my lips at your mouth.I drink deep of this forbidden mortal desire.
My crown is wrought of grass and divinity.
Fat lips, white lips, wool fuzz hide my adulterous mouth.
I sling the bamboo bow
And raise the gleaming blade.
Drums throb to awaken the slumbering god.
Anklets shiver as the man in me retreats.
I am no longer who you desired.
I am your protector.
The fierce god Muthappan.
Muthappan speaks:
I’m lord of the jungle, son of the tortured vines
Fleet of foot, loyal to the last.
The dog is my comrade,
The blind Thiruvappan my companion.
Through the dark times of this age
I shall be with you.
To help and console.
To provide and protect.
Look, with this arrow
That pierces the eyes of the coconut
I destroy all evil
That swirls around you.
I pluck from the crown of hope
Fragments for you to build
Your dreams upon.
I press my palm on your head;
Let your nerve ends carry this message
That I shall never forsake you.
All this and more I shall do for you.
But first there is a thirst in me
That I shall quench with milk still warm.
With toddy that bubbles
Unable to still time.
I suck on the long bronze spout
I crunch a piece of dried fish
Muthappan is satisfied; Muthappan is happy.
Muthappan has spoken.
He no longer needs me.
My crown of power is of wilted grass.
The salt of sweat runs down my brow.
With fingers that had once sought perfection
I wipe away the guise of divinity.Woman,
I am once again who I was.
A man with skin and eyes
That seek yours.
Woman, let me match my longing with yours.
Let me sear your lips with mine.
Let me burn your flesh with my hunger.
Why then do you evade me now?
Is it that you smell the savage?
Is it that you fear who I was?
Woman listen,
I am a man;
Only sometimes a god.
[1] Muthappan, il cui nome letteralmente significa “zio maggiore da parte di padre”, è il benevolo Dio Cacciatore del Kerala, protettore dei poveri e dei diseredati. Il suo culto antichissimo risale all’India prevedica. Il dio, che in realtà è la personificazione di due figure divine, Thiruvappan e Vellatom, viene fisicamente impersonato ogni giorno nei templi a lui dedicati da un uomo che, dopo essersi truccato in modo da alterare i propri lineamenti e assomigliare al dio – una cerimonia che dura molte ore – ne indossa i coloratissimi panni e i pesanti ornamenti, che ricordano i più antichi personaggi della danza Kathakali. In quel momento l’uomo perde la sua natura umana e diventa il dio. I fedeli, che assitono all’intera cerimonia, gli recano offerte di cibo e bevande che Muthappan consuma in cambio di benedizioni. Alla cerimonia sacra possono partecipare persone di ogni casta e religione. Uno stesso uomo impersona il dio anche per molti decenni e la pratica rituale viene passata da padre in figlio per generazioni. Questo tipo di venerazione è unica nel panorama dei culti dell’India, e chiaramente fra i più arcaici, proprio per la tipologia del rito in cui ogni giorno un uomo in carne ed ossa impersona il dio attraverso la vestizione. Il che rimanda a culti tribali. Muthappan racchiude anche la doppia natura di Vishnu e Shiva. Il cane è il suo animale sacro. (N.d.T.)
[2] Secondo alcune leggende Muthappan fu trovato dalla madre, la regina Padikutti, che non poteva avere figli e invocò il dio Shiva, in un cesto di tralci di fiori intrecciati arenato sulla riva del fiume. Proprio come Mosè. (N. d. T.)
Possa tu dormire un milione di anni, Shiva
I
Signore dell’universo
Maestro della distruzione,
Sono di fronte a te
Ma non disposto ad essere schiacciato.
Hai mai avvertito
Le ossa di tuo figlio pungerti il palmo?
Hai mai sentito
Il pianto perforante della fame?
II
Ho soddisfatto
Le esigenze del mio appello.
Ho cantato il tuo nome
Milioni e più di volte.
E tuttavia, torneranno i miei avi
Vampiri avidi dei resti della mia colpa.
Ché sanno che abbandonando te
Abbandono loro.
III
Più non raccoglierò fiori d’ibisco,
O nasconderò la nerezza della tua tumescenza
Coi rossi petali della speranza
Che sbocciano, fioriscono e poi muoiono dentro questi cortili.
Non arderanno lampade, tuo occhio onniveggente.
Il tuo fiato di canfora non strinerà queste pareti.
Mai più io fingerò che tu esista.
I tuoi doni, solo cenere che mi strozza la gola.
IV
Per un’ultima volta
Mi sono immerso nella piscina verde.
Lacrime dei prescelti, come io fui, insozzate di fango.
Per un’ultima volta ho retto il filo che a te mi lega.
Sia dunque questa la mia maledizione nell’addio:
Possa tu vivere prigioniero del tuo sonno.
E quando sarò andato, nessuno ti risvegli
Mai più per te richiamo di campana.
May You Sleep a Million Years, Shiva
I
Lord of the universe
Master of destruction,
I stand before you
Unwilling to be cowered.
Have you ever felt
The bones of your child prod your palm?
Have you ever heard
The piercing wail of hunger?
II
I have appeased
The demands of my calling.
I have chanted your name
A million times and more.
And yet, my ancestors will return
Ghouls hungry for the crumbs of my guilt.
For they know when I forsake you
I forsake them.
III
I shall no longer gather shoe flowers,
Hide the blackness of your tumescence
With the red petals of hope
That bud, blossom and die in these courtyards.
No lamp will burn as your all seeing eye.
No camphor breath of yours will singe these walls.
Never again will I pretend that you exist.
Your blessings are ashes that stick in my throat.
IV
One last time
I plunged into the green pond.
Slime infested tears of men chosen as I was.
One last time I held the thread that bound you to me.
Let this then be my parting curse:
May you live trapped in your slumber.
And when I am gone, none shall awaken you
No bells shall ever ring for you.
Voglio
Voglio sederti accanto in un tetro pub rumoroso
Dondolando le gambe, spalla a spalla, ginocchia che si toccano
Voglio che il tuo respiro mi asciughi il sudore sulla fronte
Che tu mi lecchi via l’amaro dalle labbra
Voglio che i tuoi occhi cerchino i miei
Voglio, nel rumore, sentire il tuo desiderio sottovoce.
Voglio sederti accanto su di un balcone buio
Dove il bucato di ieri non sventola ali crepitanti
Voglio ascoltare con te il richiamo della notte
Guardare le ombre giocare a palla ed il tempo strisciare lungo il muro del cielo
Voglio che le tue dita cerchino le mie, decise
Voglio esistere come più di una semplice abitudine.
I Want
I want to sit beside you in a rowdy dingy pub
Legs dangling, shoulders jostling, knees touching
I want your breath to drain the sweat off my brow
And for you to lick the bitterness off my lips
I want your eyes to seek mine
I want to hear the hushed lust in your voice amidst the noise.
I want to sit beside you in a dark balcony
Where yesterday’s washing doesn’t flap its crackling wings
I want us to hear the night call
Watch shadows play ball and time creep up a celestial wall
I want your fingers to unerringly seek mine
I want to exist as more than a mere habit.
©2018 by Francesca Diano. RIPRODUZIONE RISERVATA
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