Simone Gambacorta intervista Francesca Diano

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Fra i miei due padri e Maestri, Sergio Bettini (a sinistra), Sergio Bettini e Carlo Diano. Università di Padova il giorno della mia laurea

Riporto qui la bellissima intervista che gentilmente mi ha voluto fare Simone Gambacorta per il blog della Galaad Edizioni da lui curato. Ho conosciuto Gambacorta in occasione del Premio Teramo, che la Giuria ha generosamente voluto assegnarmi e  per il quale svolge l’oneroso e complesso ruolo di segretario (vedi organizzatore, coordinatore, angelo alla cui vista nulla sfugge). Lo ringrazio per la sensibilità con cui ha saputo  scegliere le domande, per nulla ovvie e per lo spazio che mi ha concesso.
http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=471 
Francesca Diano ha vinto nel novembre 2012 la XLII edizione del Premio Teramo con il racconto “Le libellule”. Nata a Roma, si è trasferita a Padova quando ancora era piccolissima, aveva infatti appena due anni, a seguito del padre, il celebre grecista, filologo e filosofo Carlo Diano, che era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Letteratura greca di Manara Valgimigli all’Università. Quando aveva dieci anni, Diego Valeri, colpito dalla sua scrittura, volle farle pubblicare delle poesie nella rivista «Padova e il suo territorio». Laureata in Storia della critica d’arte con Sergio Bettini, ha vissuto a Londra, dove ha lavorato al Courtauld Insitute e ha tenuto corsi di Storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura. In Irlanda ha invece insegnato all’University College di Cork. Ha anche tenuto corsi estivi in lingua inglese di Storia dell’arte Italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha curato la prima traduzione in italiano, dal tedesco, della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl ed è stata la prima a tradurre in italiano “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland”, di Thomas Crofton Croker, il primo testo di leggende orali sulle isole britanniche. È la traduttrice italiana delle opere della scrittrice indiana Anita Nair. In questa intervista Francesca Diano, che è anche autrice del romanzo “La Strega Bianca”, parla della traduzione, ma soprattutto racconta la sua storia, il suo percorso professionale, il suo amore per la cultura e per tutto ciò che è pensiero.Penso a suo padre, il grecista Carlo Diano, e le chiedo: che cosa significa nascere e vivere in un ambiente familare di per sé intriso di cultura? Che tipo di porosità comporta, tutto questo? E in che modo indirizza o ispira le scelte che, più avanti, si compiranno?
«È una domanda a cui non saprei dare una risposta precisa, perché è come chiedere a un pesce cosa significhi nuotare nel mare, o a un uccello volare. Una cosa del tutto naturale. Se sei un pesce o un uccello, ovviamente. Ecco, il punto è questo. Si può essere immersi in un elemento che risponde alla tua natura – e questo è un dono della vita – oppure che non ti è congeniale e in questo caso l’ambiente non inciderà, oppure inciderà in senso negativo, per una sorta di rigetto. Per me è stato un grande privilegio – me ne sono resa conto solo quando tutto questo è finito – nascere figlia di quel padre, e ancora più fortunata mi ritengo per aver ereditato, assorbito. la sua sete di conoscenza. Il mondo in cui vivevo non era solo un ambiente intriso di letteratura ma – l’ho capito in seguito, confrontandomi con altre esperienze – una sorta di aristocrazia del pensiero, del meglio che il ‘900 abbia visto. E non solo in Italia, perché nella nostra casa arrivava un po’ tutto il mondo. Studiosi, filosofi, poeti, artisti, letterati, storici delle religioni, musicisti. Oltre a italiani, anche francesi, tedeschi, inglesi, svedesi, americani. La bambina che ero li guardava e li ascoltava con immensa curiosità. Ho avuto come padrino e madrina di battesimo Ettore Paratore e la sua bellissima moglie Augusta, nipote del grande Buonaiuti, che non è un cattivo esordio. Nella prima parte della mia vita sono vissuta in un mondo privilegiato, che a me pareva l’unico e in seguito l’impatto con altre realtà non è stato facile. Mi rendo conto che sono vissuta in un mondo scomparso, che se da una parte mi ha dato degli strumenti unici di approccio alla vita, dall’altra ora mi fa sentire come in esilio da una patria perduta. È un mondo che riesco a ritrovare però nei libri, nella gioia dello studio e della scrittura. E, forse perché ormai ho accumulato molti anni e molte vite, nel custodire quei ricordi. La stessa università di Padova raccoglieva contemporaneamente cervelli come mio padre, Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco, dei Maestri che davvero hanno aperto nuove strade. Personalità come queste hanno lasciato un vuoto non più colmato. Poi c’era la sterminata biblioteca di mio padre, da cui mi hanno parlato secoli di sapere, da cui attingevo in modo disordinato e vorace. Ho letto libri come “Vita di Don Chisciotte” di Miguel de Unamuno, o “Delitto e castigo”, o “Iperione” di Hölderlin a undici, dodici anni. Capivo la metà di quello che leggevo, ma era proprio quello che non capivo che mi affascinava. In quella biblioteca di oltre 10.000 volumi, c’erano le letterature di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e libri di filosofia, di arte, di critica, di scienze matematiche e naturali, di storia delle religioni, di teatro e molto altro e insomma era lo specchio della mente e del sapere di mio padre, che non è stato solo filosofo, grecista e filologo, ma anche pittore, scultore, poeta e compositore di musica. È stata la sua ecletticità che mi ha insegnato a essere curiosa di tutto, a non temere di esplorare campi non miei (se mai ho avuto dei campi miei), a inoltrarmi lungo vie ignote. Insomma, proprio come per le parti dei libri che non capivo, mi ha sempre attratto quello che non so. Non ho una mente accademica – e vedendo molti cosiddetti accademici di oggi la ritengo una cosa positiva – ma più di una curiosa, di un’innamorata del sapere. E questo è quello che di me più mi piace. Eppure, immersa in tutta questa sapienza e conoscenza, la lezione più grande che ho tratto da mio padre è stata di aver visto come tutto questo suo sterminato sapere non abbia mai soffocato in lui un’umanità traboccante, una generosità impetuosa e un’innocenza del cuore che ben pochi intellettuali possiedono. Spesso una mente cui si dà eccessivo spazio invade ogni altro campo della vita e soffoca e inaridisce il cuore. La sua mente era mossa dal cuore e non l’opposto. Sì, direi che è stato questo l’insegnamento più grande. Mio padre si è sposato piuttosto tardi e quando è morto avevo ventisei anni e già da tempo vivevo lontana. Spesso mi chiedo quanto sarebbe stato importante averlo accanto più a lungo, quanto ancora avrei imparato – ormai adulta – da lui, che dialoghi ricchissimi avremmo potuto fare. E quanto mi sarebbe stato preziosa la sua presenza in momenti difficili della mia vita. Ma ci sono le sue opere e, leggendo i suoi scritti e le sue carte, anche inedite, quel dialogo e quella vicinanza esistono comunque, pur se in modo diverso»

.Nella sua vita la poesia è arrivata molto presto, e nel nome di Diego Valeri…
«Per me la poesia è arrivata assai prima della prosa. Mi dicevano che da molto piccola parlavo in rima, quando ancora non sapevo leggere e scrivere. In effetti la poesia per me è sempre stata una questione di musica, di ritmo. All’inizio emerge da non so che recesso, fino a un istante prima silenzioso, una sorta di musica, una sequenza ritmica, priva di suoni e quella musica si traduce poi in due o tre parole o in un verso. E’ come uno spiraglio che si apre su qualcosa che vuole essere detto. È sempre stato così. Poi però arriva il lavoro più duro, quello di decodificare in un discorso poetico l’idea che a livello inconscio è molto chiara, ma deve affiorare alla coscienza e trovare la sua forma. Valeri, insieme alla sua compagna di affetti e di vita, Ninì Oreffice, è stato fra i primi amici di mio padre a Padova, insieme a Sergio Bettini, Carlo Anti, Giuseppe Fiocco e, come tutti questi uomini eccezionali, mi voleva molto bene. Gli piacevo perché, anche a quattro o cinque anni, ero capace di rimanere ad ascoltare questi adulti che parlavano di cose che non capivo affatto ma che mi affascinavano, anche se poi, in realtà, nel quotidiano ero una specie di Gianburrasca. Quando sono nata mio padre, che è stato anche un grande poeta, scrisse per me una bellissima poesia in greco con la sua traduzione italiana e poi componeva molte filastrocche che mi cantava per farmi addormentare. Insomma, la poesia l’ho respirata. Tra i molti poeti che frequentavano casa nostra c’era Quasimodo, di cui ho ricordi bizzarri. Lui e mio padre erano molto legati; si erano conosciuti da giovani ed entrambi avevano avuto un padre capostazione e un inizio della vita difficile. Dunque, la poesia è stata per me un primo linguaggio, che mi pareva molto naturale e così, quando avevo dieci anni, Valeri volle far pubblicare tre delle mie poesie in rivista»

.Come storica dell’arte – il suo maestro è stato appunto Sergio Bettini – ha insegnato in Inghilterra e in Irlanda. Se non sbaglio, è nella storia dell’arte che trova inizio la sua attività di traduttrice: penso infatti alla traduzione dal tedesco della “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl, che lei ha realizzato nel 1983 per l’editore Cappelli, firmando anche le pagine introduttive e gli apparati di note. A proposito di quella traduzione, che le valse anche una menzione speciale al Premio Monselice, vorrei porle due domande. Cominciamo dalla prima: che cosa ha significato, e che lavoro ha richiesto, affrontare un’opera così complessa e tecnica?
«Sì, a Londra tenevo dei corsi di storia dell’arte italiana all’Istituto Italiano di Cultura, poi un corso estivo a docenti americani all’Università per Stranieri di Perugia e un corso pubblico di arte italiana contemporanea all’University College di Cork. Mi sono molto divertita. «In effetti è vero, ho iniziato a tradurre nel “modo duro”, per così dire, perché tradurre Alois Riegl è un lavoro difficilissimo e di alta specializzazione, che non si può certo affrontare se non si hanno degli strumenti adeguati. Non so pensare a un modo più “brutale” di trovarmi a iniziare quella che poi sarebbe diventata, dopo molti anni, una delle mie attività. Ma Riegl è stata un’ottima scuola. Un Maestro come Sergio Bettini è la seconda grande fortuna che ho avuto nella vita. Lui e mio padre erano legati più che se fossero stati fratelli, erano l’uno per l’altro quel che in Irlanda si chiama «anam cara», spiriti, anime affini ed è stato proprio nel corso di una passeggiata in montagna, sopra Bressanone, dove alla fine degli anni ’50 mio padre aveva contribuito a fondare dei corsi estivi dell’Università di Padova, che negli intenti avrebbe dovuto essere una sorta di piccola università europea, che loro due si misero a discutere su quale argomento avrei dovuto scrivere la mia tesi. Era da poco stata pubblicata in Austria, a cura di Karl Swoboda e Otto Pächt, l’edizione postuma di alcune lezioni che Riegl aveva tenuto per gli studenti dei suoi corsi e l’argomento era interessantissimo: una grammatica storica delle arti figurative. Io avevo studiato tedesco, sia a scuola che con mio padre e così fu deciso che quello sarebbe stato l’oggetto della mia tesi. È per questo che la mia traduzione, pubblicata da Cappelli nel 1983, la prima traduzione italiana, è dedicata a Sergio Bettini e Carlo Diano. Riegl ha sempre posto dei grandi problemi ai suoi traduttori, motivo per cui le sue opere sono state tradotte parcamente e solo a partire dagli anni ’50 in italiano. In inglese addirittura molto dopo. Bettini era il maggior conoscitore italiano di Riegl e in un certo senso un diretto allievo della Scuola viennese di Storia dell’Arte. Anche mio padre conosceva il pensiero di Riegl e ha scritto splendide pagine, in “Linee per una fenomenologia dell’arte”, sul senso del “Kunstwollen”. I problemi posti dai testi di Riegl sono essenzialmente di due ordini: il primo è semantico e lessicale e il secondo ermeneutico. Il tedesco di Riegl è una lingua di una logica stringente, dall’architettura rigorosa e tuttavia estremamente complessa. Spesso però ci si trova di fronte a termini che lui stesso conia ex novo – come appunto “Kunstwollen” – e allora è necessario trovare un termine nuovo anche nella lingua di arrivo, ma che sia filologicamente corretto e preciso. Il che implica la conoscenza del suo pensiero, delle sue opere, dell’epoca e di quanto accadeva allora nel campo degli studi storico-artistici della Vienna del tempo. Ecco, non è un lavoro che chiunque possa fare, né tanto meno in tempo brevi, poiché richiede competenze tecniche, storiche, filologiche non indifferenti e, ovviamente, un’ottima conoscenza del tedesco. Per la mia tesi, all’inizio mi limitai a una lettura approfondita della “Historische Grammatik der bildenden Künste” e ne discussi a lungo con Bettini, che mi offrì delle chiavi interpretative fondamentali. Sicuramente senza il suo sostegno e aiuto non mi sarebbe stato possibile nemmeno il faticosissimo lavoro di traduzione. Solo in seguito iniziai la traduzione sistematica, che in tutto mi richiese oltre un anno e mezzo di lavoro e il saggio introduttivo, lavoro che poi fu pubblicato da Cappelli appunto nel 1983 e che fu presentato al Premio Monselice di traduzione, dove ricevette una menzione d’onore. Il testo fu poi adottato in molte università ed ebbi bellissime lettere di apprezzamento non solo dagli stessi Swoboda e Pächt, ma anche, tra gli altri, da Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Cesare Brandi e Filiberto Menna. Insomma, non ci si improvvisa traduttori di Riegl, magari sfornando una traduzione in pochi mesi avvalendosi di traduzioni già esistenti».

L’altra domanda è invece questa: qual è il valore culturale, nell’ambito della storia dell’arte, dell’opera di Riegl?
«È necessario dire che Riegl è stato un rivoluzionario, nonostante questa definizione poco sembri attagliarsi al suo carattere di rigoroso e metodico studioso dalla forma mentis squisitamente austro-ungarica. Eppure, dotato di una monumentale conoscenza dei materiali e delle tecniche, delle arti applicate – fu Curatore del reparto dei tessuti presso l’ Österreichischen Museum für Kunst und Industrie di Vienna – e di una solidissima formazione di storico dell’arte, esponente di spicco di quella che divenne nota come Scuola viennese di Storia dell’Arte, Riegl si incammina lungo una via nuova: la via che lo porterà alla creazione di una nuova estetica. Ciò che distingue Riegl dai suoi contemporanei, oltre alla necessità, per lui essenziale, di scoprire – scoprire, forse più che formulare – una teoria universale, oserei dire unificatrice, delle dinamiche artistiche, quale strumento di comprensione del farsi dell’arte dal suo stesso interno, delle sue origini e dei suoi «principia», è il coraggio di essersi avventurato su un terreno oscuro, scivoloso, incerto e sconosciuto: nelle sabbie mobili della ricerca di una chiave di lettura che abbia valore universale, ma allo stesso tempo non rigida o fissa, dei fenomeni artistici nel loro alterno manifestarsi nel flusso del tempo e dello spazio. Non rigida, ma fondante. Dunque il suo non può essere che un proceder cauto, come chi cammini su terreno tanto pericoloso e ignoto. Dei pericoli, Riegl è ben conscio. Questa è cosa che s’ha da aver chiara. E per questa ricerca egli crea di volta in volta delle categorie duttili e direi quasi plastiche. Questa chiave di lettura così unica, proprio perché elastica, capace di trasformazioni e mutamenti, direi prismatica, altro non è che ciò per cui Riegl conia il termine di «Kunstwollen». Il «fattore direttivo» appunto, come Riegl stesso lo definisce, tradotto da me, sulla scia di Bettini, con l’espressione «volontà d’arte», (e non un fuorviante «volere artistico», come da altri è tradotto). Una direzione. Una volontà appunto, come la direbbe con Schopenhauer. Un filosofo che Riegl non aveva affatto cancellato dal suo paesaggio. Ma anche un vettore. Capace di convogliare forze e proiezioni. Ed è per analizzare come di volta in volta, di civiltà in civiltà, questo motore della creazione artistica si sia manifestato, che Riegl scrive questa Grammatica storica. La «volontà d’arte» non è che una necessità profonda di espressione dell’uomo, che si concretizza in opere d’arte, non meno di quanto la necessità di espressione del pensiero si concretizzi nelle forme della lingua. Ho poi ritrovato, nella grammatica generativa di Noam Chomsky delle analogie sorprendenti. Alcuni anni fa tradussi poi per Neri Pozza un testo molto importante, “Vasari, le tecniche artistiche”, di Gerard Baldwin Brown, a cui premisi un mio saggio introduttivo. Il testo, pubblicato nel 1907, comprende la prima traduzione in inglese dei capitoli sulle tecniche artistiche delle “Vite” del Vasari, capitoli che non erano mai stati inclusi nelle versioni inglesi dell’opera, ma soprattutto è arricchito da un commentario vastissimo di Baldwin Brown, che è un’opera in sé. Dunque è vero che la mia anima di storica dell’arte è filtrata anche attraverso quella di traduttrice. Ma l’origine è più antica. L’arte della traduzione l’ho respirata fin da bambina, quando sentivo mio padre “cantare” a bassa voce i versi della sua traduzione delle tragedie greche che andava facendo. Magari durante una passeggiata, o mentre guidava, o mentre aveva le mani impegnate in un lavoro pratico. Gli piaceva moltissimo aggiustare le cose, anche se poi poco ci riusciva».

Uno dei suoi campi di studio è quello delle folklore e della tradizione orale irlandese. Com’è nato questo amore?
«Questa è una storia molto affascinante, perfino per me che l’ho vissuta, perché tutto nacque a Londra, in una libreria di libri antichi e usati. Proprio insomma come in un film o in una fiaba. E difatti, di fiabe si trattava. Fu in questa libreria che “fui trovata” – dire che lo trovai io è riduttivo, dato il destino che a quel libro mi lega – da un delizioso piccolo volume di autore anonimo, datato 1825 e pubblicato da John Murray, all’epoca il più importante editore inglese, che pubblicò anche il nostro Ugo Foscolo in esilio a Londra. Il titolo recitava “Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland” ed era costellato di bellissime piccole incisioni. Il libraio antiquario, di cui ero diventata ormai amica perché ci passavo quotidianamente, me lo vendette a un prezzo irrisorio, 3 sterline e 6 scellini. A quell’epoca ignoravo tutto del folklore irlandese e, pur amando moltissimo le fiabe, le leggende e i miti, non mi ero mai interessata in modo specifico di folklore. Quel libro ebbe subito su di me una presa molto speciale e, nel leggerlo, mi rendevo conto che l’autore anonimo non doveva essere stata una persona qualunque, perché la cultura davvero enciclopedica che dispiegava nelle note poste alla fine di ogni leggenda era fuori del comune. Era un erudito ma allo stesso tempo uno scrittore pieno di ironia, fantasia, ampiezza di visione. E ancora più sorprendente era la struttura stessa dell’opera. Le varie leggende erano presentate più o meno così come evidentemente gli erano state narrate dalla gente contadina e l’intervento del Compilatore (così si autodefiniva nel testo l’autore anonimo) era limitato solo e unicamente ai ricchissimi commenti alla fine di ogni leggenda. Questa struttura mi colpì subito, perché la trovai molto moderna, anche per l’idea di commentare alla fine ogni leggenda. Evidentemente l’autore aveva voluto lasciare il massimo della spontaneità ai suoi racconti, soprattutto se paragonata alla raccolta dei fratelli Grimm, pubblicata tredici anni prima. Si sa che i Grimm infatti rielaborarono pesantemente le storie che avevano raccolto dalla bocca di signorine della buona società e soprattutto di Dorothea Viehmann, una donna dalla straordinaria capacità di narratrice e l’unica che avesse tratto le sue storie dalla bocca popolare. Una volta tornata in Italia decisi di tradurre per mio conto quel libro meraviglioso, anche per leggerle la sera ai miei bambini, a cui per anni ho raccontato e letto favole prima di dormire. Il modo più efficace per conoscere e capire veramente un’opera è tradurla, perché nel tradurre si entra dentro la sua struttura più profonda e si stabilisce un legame intimo con l’autore. E difatti fu soprattutto traducendolo che mi resi conto sempre di più dell’eccezionalità di quel libro e della sua struttura. Un’opera che nel 1825 era così moderna. Dunque mi pareva impossibile non sapere chi ne fosse l’autore. E perché quell’anonimato? Come mai un testo di leggende irlandesi era stato pubblicato a Londra e per di più dal maggiore editore del tempo? Così, spinta da tutte queste curiosità, che stuzzicavano la mia anima segreta di detective, mi misi alla ricerca delle risposte. Ma vivevo ormai in Italia e all’epoca non esisteva internet. In Italia l’opera era del tutto sconosciuta e all’epoca l’Irlanda non era ancora diventata di moda, come poi fu. Così mi ci volle molto tempo e ricerche e pomeriggi in biblioteca finché, un giorno, durante un breve soggiorno a Londra, trovai l’antologia di fiabe irlandesi pubblicata da W.B.Yeats nel 1888 ed ecco, tra quelle, due delle leggende della mia raccolta, ma…con il nome dell’autore: Thomas Crofton Croker! Che sorpresa e che emozione fu per me! Come scoprire la tomba di un faraone sconosciuto. Avevo il nome del mio autore. Da quel momento tutto fu più facile. Cominciai a trovare molto materiale, ovviamente in Inghilterra, attraverso i prestiti internazionali e le ricerche proseguirono per altri due anni. In tutto erano passati molti anni da quel pomeriggio nella libreria antiquaria, ma quello che accadde dentro di me fu qualcosa di inaspettato. L’amore, la passione che quel libro mi avevano acceso dentro, mi avevano sospinta lungo una strada di ricerca che pian piano mi aveva fatto scoprire l’Irlanda, il suo folklore, la sua storia, la sua cultura e la storia del mio amatissimo autore. Dunque è stato davvero un percorso interiore, una sorta di iniziazione, alla fine della quale ho trovato il mio tesoro. Una nuova vita, che poi mi ha portata anche in Irlanda, dove ho trovato ancor più di quanto mai mi potessi aspettare. Qualcosa di così unico che ne è nato un romanzo, “La Strega Bianca”».

Che rapporto ha stabilito con “quella” copia di Croker?
«Quella copia che è in mio possesso e che per me non è un libro, ma una parte della mia vita, oserei dire un essere che parla e respira, è una delle 600 pubblicate nel maggio del 1825 in forma anonima e che andarono esaurite in una sola settimana. Era la prima raccolta di leggende orali mai pubblicata nelle Isole Britanniche e per di più irlandesi. Croker è stato un personaggio straordinario. Nato a Cork, che allora era chiamata l’Atene d’Irlanda per l’intensità della sua vita culturale e per la ricchezza della sua economia, apparteneva all’Ascendency, cioé la classe dominante sia politicamente che economicamente in Irlanda, costituita dai discendenti degli “invasori” inglesi che vi giunsero durante il regno di Elisabetta I e, come tale, ancora oggi odiata. Fin da bambino dimostrò una passione molto singolare per tutto ciò che era antico o strano e a quindici anni si mise a girare le campagne del Munster per raccogliere dalla voce dei contadini racconti e leggende. A quella stessa età fondò, insieme ad alcuni amici, una società antiquaria e in seguitò contribuì a crearne molte altre. Era un ottimo disegnatore e incisore ed espose in mostre d’arte. A diciotto anni però rimase orfano di padre e andò a Londra, dove trovò impiego come cartografo all’Ammiragliato. A Londra conobbe il meglio dell’intellighentia del tempo e, dopo un primo libro sull’Irlanda, decise di tornare in patria per un breve periodo per raccogliere altro materiale. Da poco era stata pubblicata la traduzione inglese delle fiabe dei Grimm, da cui Croker era stato molto colpito, soprattutto dall’idea di preservare una tradizione che si andava perdendo e che invece costituiva lo spirito del popolo. Così, nel 1825 pubblicò questa raccolta, che ebbe un successo strepitoso, ebbe molte nuove edizioni e gli diede la fama. Fama che crebbe negli anni e ne fece uno dei maggiori protagonisti della vita culturale nella Londra vittoriana. Ma la prima edizione, quella del 1825, uscì in forma anonima perché, per varie circostanze, Croker aveva perso il manoscritto e dovette rimetterlo insieme in breve tempo. Così si fece aiutare da alcuni amici di Cork nel ricostruire vari testi e, per onestà intellettuale, non volle firmare questa edizione. I fratelli Grimm, che non lo conoscevano ma che l’anno precedente avevano letto la sua prima opera, ricevettero in dono da un amico di ritorno dall’Inghilterra questo testo e ne furono così colpiti da volerlo tradurre in tedesco e scrivere un importantissimo saggio introduttivo. Si può capire quanto si sentì onorato il giovane Croker nel vedere che i famosissimi fratelli avevano ritenuta degna della loro attenzione la sua opera e si mise subito in contatto con loro, svelando il proprio nome. Iniziò così una lunga amicizia e una collaborazione che prevedeva anche il progetto di una storia comparata del folklore europeo. Tuttavia questo progetto non andò mai in porto, almeno non nella forma che i tre avevano auspicato, né si incontrarono mai di persona. Le “Fairy Legends” comunque, non sono importanti solo per essere stata la prima raccolta di racconti orali mai pubblicata sulle Isole Britanniche, ma per il metodo di ricerca che ha fatto di Croker un pioniere della ricerca folklorica. E’ un metodo sul campo, per così dire, in cui massimo è il rispetto per gli informanti e per il sapore spontaneo della loro narrazione. Così pionieristico è questo metodo, che solo nel ‘900 esso è stato capito appieno e ripreso. L’opera di Croker però non si limitò a questo. Per tutta la sua vita – morì a 56 anni nel 1854 – seguitò a raccogliere e pubblicare materiale preziosissimo, sia sulle leggende che sulle canzoni popolari, che sulle tradizioni, tra cui quella della lamentazione funebre irlandese. Pur angloirlandese, fu proprio lui a far conoscere fuori dell’Irlanda l’immenso patrimonio orale per cui questa nazione è ancora oggi tra le più importanti al mondo. Nessun inglese, o angloirlandese, aveva mai ritenuto di prestare alcuna attenzione a una cultura che riteneva inferiore, come allora si pensava».

Ma che cosa è “diventato” per lei Thomas Crofton Croker?
«Croker è diventato un caro amico, direi un membro della mia famiglia, certo della mia vita e in effetti ancora oggi lavoro alle sue opere, che sono ancora tutte da scoprire qui da noi. Alcune di esse, in qualche modo offuscate dalla fama delle Leggende, note e amate in tutto il mondo e dal 1998 anche da noi, non sono ancora state abbastanza studiate. Devo così tanto al mio “Crofty” – così avevo preso a chiamarlo e poi rimasi allibita nello scoprire che proprio così lo chiamavano i suoi amici più intimi! – che vorrei ripagarlo almeno di una parte dei tesori e delle gioie che mi ha dato».

La traduzione italiana dell’opera ha avuto molto successo…
«Anche se mi ci sono voluti degli anni per trovare alle “Leggende” un editore – come ho detto, quando le proponevo l’Irlanda non era ancora di moda – poi l’opera fu pubblicata una prima volta da Corbo&Fiore e in seguito, in diversa edizione, nel 1998 da Neri Pozza, con cui all’epoca collaboravo attivamente come traduttrice e consulente editoriale. L’opera ha avuto numerose edizioni ed è ancora in stampa. Cosa rara oggi, che i libri hanno vita tanto breve. Ma, ovviamente, si tratta di un’opera immortale! Ho potuto verificare nel tempo di avere un certo “naso” per autori e opere da proporre. Ogni volta che l’ho fatto sono sempre stati dei successi editoriali».

Quali sono le differenze tra la traduzione di un’opera saggistica e la traduzione di un’opera letteraria?
«Questo è un problema che non mi sono mai posta in realtà, poiché non ho alcuna teoria della traduzione da seguire, mi sento forse più un’artigiana della traduzione. Proprio nel senso di arte applicata. Forse potrei desumere delle considerazioni a posteriori. Tradurre è un’arte, non vi sono dubbi, ma soprattutto una pratica, non teoria. Le teorie le lascio volentieri ai teorici. In quanto pratica, la si apprende col tempo e con l’eperienza, ma credo sia necessaria una predisposizione, come per tutte le cose. La predisposizione di cui parlo è forse il desiderio di condividere con gli altri il piacere o la gioia di una scoperta. Il mettere a disposizione di altri la conoscenza che da un’opera ci è giunta, ma anche una certa plasticità lingusitica e mentale. Ma, riflettendo sulla sua domanda, mi rendo conto che forse tutta questa differenza non c’è, se non per un aspetto. Sia nell’un caso che nell’altro è importante che il traduttore abbia il polso dell’autore e dell’argomento. Che conosca cioé l’oggetto di cui si tratta e la visione che vi sta dietro. Che abbia una conoscenza approfondita della lingua e della cultura che ha prodotto quel testo e, ovviamente, del suo autore. Questo, se non altro, per non incorrere in fraintendimenti pacchiani o per non trovarsi nell’impossibilità di capire il contesto, cosa che accade più spesso di quanto si creda. Tuttavia, quando si tratta di un’opera letteraria, credo che nessun bravo traduttore letterario possa non essere anche uno scrittore e, a maggior ragione, chi traduce poesia deve anche essere un poeta. Non tutti sono d’accordo su questo, soprattutto chi non è di suo scrittore o poeta, ma io invece sono convinta che sia fondamentale. Perché in un’opera letteraria uno degli aspetti essenziali è lo stile. Ogni autore ha il suo, un suo, per così dire, DNA dello scrivere, che lo caratterizza e che è parte inscindibile della sua poetica. Ora, se non si riconosce questo e se non ci si sforza di ricreare, pur nei limiti del possibile, quella specialissima “voce” nella propria lingua, si reca un enorme danno all’opera e al suo autore e se ne vanifica in buona parte il senso. Tutti sappiamo che la letteratura non è tanto e solo quel che si dice, ma come lo si dice. Ed è questa forse la maggiore difficoltà per ogni buon traduttore. Del resto, quel che è sempre emerso dal Premio Monselice e che Mengaldo ha anche sottolineato, è che i maggiori traduttori di poeti sono stati altri poeti. Ma, come dice il buon Schopenhauer, per andare lontano si deve avere qualcosa da scrivere. E che quel qualcosa ti stia a cuore. Ci sono opere la cui grandezza sta soprattutto nello stile, nella sonorità, nella luminosità della lingua. Penso, un esempio per tutti, a Kerouac e a quel suo inglese ora vellutato ora duro ora fumigante, non affatto prescindibile dalla sua scrittura. Ovviamente qui parlo di letteratura e non di semplice fiction o narrativa. Per quello è sufficiente essere buoni conoscitori della lingua, la propria e quella dell’autore. Farei invece una distinzione fra tradurre prosa e tradurre poesia. Che si tratti di versi ancorati al rigore della metrica o di versi liberi, il linguaggio poetico ha comunque in sé una musicalità, un’armonia intrinseca, una timbricità, che sono legati alle specifiche sonorità della lingua e che chiedono al traduttore un orecchio musicale o, per lo meno, un orecchio capace di percepirli. Ora, nel passaggio da una lingua romanza all’altra è ancora possibile conservare o ricreare quella sonorità originale, o almeno ci si può provare, ma da una lingua germanica a una romanza questo è più difficile, per non parlare poi di altre lingue dalla nostra ancora più lontane o di strutture metriche estranee all’italiano. Allora, in questi casi, sarà necessario trovare comunque una soluzione che in qualche modo sia eco del significato del testo. Un po’ come musicare un libretto d’opera insomma. Ma in realtà non saprei dire come poi emergano da dentro di noi certe soluzioni, certe risposte – sì, risposte – alla voce dell’autore che ci sussurra. Forse ci guida. Credo che si debba ascoltare. Tutto nasce dall’interazione fra chi siamo noi, di cosa siamo fatti, quanto sappiamo ascoltare e chi è l’autore. Un dialogo costante e uno scambio. Questo è il motivo per cui uno stesso testo, tradotto da uno, sarà diverso se tradotto da un altro. Ogni traduttore trova ciò che sa trovare».

Lei è anche la traduttrice della scrittrice indiana Anita Nair. Che cosa significa attraversare e ricreare le pagine di un’autrice che appartiene a un’area culturale completamente diversa? Torniamo a quanto abbiamo detto: dietro le quinte di una traduzione c’è un vero e proprio percorso di studio…
«È proprio così, è in parte quello che dicevo in precedenza. Tradurre è un modo profondo di conoscere, ma è anche una forte spinta alla conoscenza. Mi sono trovata a tradurre le opere di vari scrittori indiani, in realtà angloindiani, cioé autori indiani che hanno scelto di scrivere in inglese. In India, come si sa, l’inglese è non solo una lingua franca, ma anche il veicolo di quella cultura postcoloniale che ha dei complessi meccanismi ed esiti. Dunque, gli scrittori che in India scelgono di scrivere in inglese compiono una scelta precisa e cioé quella di scrivere per un mercato internazionale. Allora, anche i contenuti delle loro opere, in un certo senso, tengono d’occhio quello che, a loro avviso, a un pubblico occidentale può interessare dell’India. In un certo senso è un principio d’esclusione. La letteratura indiana moderna e contemporanea che si avvale di lingue diverse dall’inglese, è assai differente da quella che arriva in Occidente, sia nello stile che nei contenuti. Perché proprio diversa è la forma mentis. Lo stesso si può dire per i poeti indiani. Oggi molti, soprattutto i più giovani, scrivono in inglese e imitano in modo marcato poeti americani e inglesi, in una sorta di minimalismo o realismo che non è nelle corde della poesia indiana tradizionale. In ogni caso tutto questo lo so non perché conosca l’hindi, o il bengali, o il malayalam, o l’urdu ecc. ma perché mia figlia Marged è un’indologa che parla hindi correntemente, conosce urdu e bengali, dunque conosce molto bene e direttamente la situazione culturale, politica e sociale dell’India. È soprattutto a lei che devo molte delle informazioni che ho in proposito, oltre naturalmente a quanto ho voluto approfondire e oltre a quello che della cultura indiana classica consoscevo attraverso le opere presenti nella famosa biblioteca. Tuttavia il mio impatto con le scritrici indiane moderne è avvenuto molto presto. Nel 1957 era uscito “Altro mondo”, un libro di Sonali Dasgupta, la moglie indiana di Roberto Rossellini e quel punto di vista di una donna indiana sull’Occidente mi aveva colpita moltissimo. A parte Rabindranath Tagore, che mio padre amava molto e mi pare avesse conosciuto attraverso Giuseppe Tucci, era la prima opera di una scrittrice indiana che incontravo. Poi, a Londra, negli anni ‘70, acquistai un libro bellissimo, “Nectar in a sieve” – tradotto anche in italiano solo di recente – di Kamala Markandaya, scritto negli anni ’50 e ambientato nell’India rurale. Un grande classico della letteratura indiana femminile moderna. Mi affascinò a tal punto, che mi ripromisi di tradurlo, ma poi non trovai un editore a cui interessasse. Per quanto riguarda Anita, si tratta di una storia molto bella, perché quando ancora era una scrittrice esordiente, poco nota anche in India e del tutto sconosciuta fuori, mi fu dato da leggere il suo primo romanzo, quello che poi fu pubblicato col titolo “Un uomo migliore”. Mi piacque, mi commosse, mi colpì la conoscenza che della natura umana aveva questa giovane autrice e volli che fosse pubblicato e che fossi io a tradurlo. Da questo suo primo meraviglioso libro è nata poi una vera e duratura amicizia, che si è approfondita negli anni e che è stata preziosissima anche per capire in modo privilegiato la sua opera. È bellissimo poter seguire un autore fin dai suoi esordi e discorrere della sua opera, capirla nel profondo. Anche questo mi ha permesso di avvicinare l’India contemporanea in modo privilegiato e diretto e dunque di avvicinare altri scrittori e poeti – o meglio poetesse – indiani che poi ho tradotto».

Fra gli altri, lei ha tradotto Kushwant Singh, Themina Durrani, Pico Iyer, Susan Vreeland, Sudhir Kakar, Uzma Khan. Quali sono gli autori, fra quelli che ha tradotto, che sente più suoi?
«Da quello che ho detto, è chiaro che il mio autore è Thomas Crofton Croker. Ça va sans dire! Ma poi devo anche aggiungere Sudhir Kakar, un grandissimo scrittore, tra i più grandi che io abbia incontrato, psichiatra e saggista di fama internazionale, oltre che uomo di grande generosità e umanità, che negli anni ’90 ha iniziato a scrivere narrativa. Ho avuto la fortuna di poter tradurre quasi tutti i suoi romanzi, il più grande dei quali è senz’altro “L’ascesi del desiderio”, una biografia immaginaria di Vatsyayana, il misterioso autore del Kamasutra, narrata da un giovane kavi, uno studioso poeta. L’affresco dell’India d’oro della dinastia Gupta, la descrizione del mondo raffinato delle cortigiane, la scrittura elegantissima e colta, lo stile aristocratico e austero ne fanno un vero capolavoro. Poi devo aggiungere la poesia di Edgar Allan Poe, con cui mi sono misurata per l’amore sconfinato che ho per questo autore e soprattutto per la sua poesia, che, essendo anche pura musica, è davvero una sfida per un traduttore. Tradurre i testi poetici di Poe mi ha aperto prospettive nuovissime sul resto della sua opera».

Quando deve tradurre un libro, quali sono le fasi che scandiscono il suo lavoro?
«Forse sarò banale, ma in genere parto dalla sua lettura. A meno che non si tratti di un testo che già conosco. In quel caso traduco e basta. Nel corso della traduzione però non stacco mai, nemmeno quando non traduco. Mi ronzano in testa le parole, le frasi, la soluzione a un problema che pareva di difficile scioglimento e che balena all’improvviso. Ecco, è un’immersione totale. Una sorta di viaggio a due, in cui ci si conosce sempre più a fondo. Ho notato che in genere all’inizio la traduzione è più lenta, poi diviene quasi un processo naturale, come se fossi ormai entrata nel meccanismo della scrittura e la traduzione fluisse in modo naturale. Mi piace molto anche la fase della ricerca, perché comunque, traducendo s’imparano moltissime cose».

Giorgio Caproni diceva che tradurre equivale a «doppiare». Lei che cosa ne pensa?
«Caproni è stato un grande traduttore e sono completamente d’accordo con lui quando, in un suo discorso in occasione della vincita del premio Monselice, nel 1973, dichiara: «Non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si tratta soltanto di cercar di esprimere me stesso nel modo migliore: nel cercar di far bene qualcosa che valga a esprimere quanto ho in animo. L’impegno per me resta, in entrambi i casi, il medesimo e di egual natura, e di diverso non vedo in essi che l’impulso, il movente». Mi pare che proprio in questo discorso egli si dichiari lontano «dal sognare una traduzione quale perfetto double dell’originale». Non so, tradurre è in fondo un procedimento bizzarro. Da un lato ti chiede un abbandono totale al testo e all’autore, quasi un atto di resa, uno svuotamento di sé; dall’altro esige tutto te stesso, la totalità delle tue capacità, delle tue competenze, delle tue risorse. È come svuotarsi e riempirsi di nuovo, ma con un atto di consapevolezza assoluta. In realtà tradurre è un percorso di conoscenza di se stessi».

Un autore che vorrebbe tradurre?
«Sono due o tre, ma non ne dico il nome per non dare dei suggerimenti».

Un traduttore che ammira?
«Solo uno? Foscolo, Leopardi, Pavese, Fortini, mio padre».

Un traduttore o una traduzione che considera sopravvalutati?
«Fernanda Pivano».

Senta, ma se lei dovesse spiegare in parole estremamente semplici che cosa vuol dire tradurre, che cosa direbbe?
«Che è un atto d’amore».

E se dovesse spiegare qual è il bello del lavoro del traduttore? 
«L’emozione travolgente della scoperta di se stessi».

(C)2012 by Simone Gambacorta e Francesca Diano TUTTI I DIRITTI RISERVATI

“Siamo esseri simbolici”. La forma che esorcizza l’evento. Simone Pizziconi su Carlo Diano

Nota introduttiva.

Paolo Anelli, che fu l’ultimo a laurearsi con mio padre, ora docente di Latino e Greco presso il Liceo Classico di Assisi, mi ha   segnalato  questo saggio di un suo allievo, Simone Pizziconi. Questa è in effetti la Tesina presentata quest’anno all’esame di Maturità da Pizziconi. Tuttavia, se non avessi saputo che l’autore  ha diciotto anni e che ha fatto quest’anno l’esame di maturità, mai e poi mai avrei potuto immaginarlo. Non solo l’idea è degna già di una tesi di laurea, ma il modo stesso in cui l’idea è articolata, le vaste e sicure conoscenze culturali, la capacità di usare gli strumenti ermeneutici e l’originalità  della loro applicazione, fanno di questo testo un saggio critico già maturo.  Ho trovato originalissimo in particolare il discorso su Pirandello, non meno che sulle prospettive di analisi che le categorie di Forma ed Evento aprono nel campo della filosofia della scienza e non solo. Preziosi in questo gli ultimi studi che il filosofo della scienza Silvano Tagliagambe ha condotto sull’opera di Carlo Diano.

Simone Pizziconi, che non ha mai conosciuto Diano, è la conferma della fiducia e della fede che Diano aveva nei giovani. Trovo bellissimo che un allievo di un suo allievo abbia saputo comunicare l’amore per la conoscenza, per la ricerca della verità che ha animato Diano per tutta la vita.

Ringrazio Paolo Anelli per questo e Simone Pizziconi per essersi voluto inoltrare in una via ancora tutta da battere. Le sue mappe sono precise e le sue scarpe molto robuste.

Francesca Diano

                       “Siamo esseri simbolici”

                              La Forma che esorcizza l’Evento

 

      di Simone Pizziconi

 

 

                 Πολλά  μέν ανθρώποισιν επιχθονίοισι κέλευθα,

                          Πᾶσι δ’αληθείας ἕν τέλος εστίν αεί.

 

                                    Molte sono le vie battute dagli uomini

                                          Fine a tutti comune è la verità. [1]

                                                                     Carlo Diano

INTRODUZIONE
Carlo Diano nella sua opera Forma ed Evento – Principi per una interpretazione del mondo greco[2] individua due categorie “fenomenologiche e non ontologiche” , come lui stesso afferma, che “appaiono sufficienti all’analisi di qualunque civiltà”. Ora lo scopo del presente lavoro è appunto trovare queste due categorie in primis nel mondo greco, poi nell’antichità in generale fino ad interpretare con questo filtro pure autori moderni e periodi storici (come Diano afferma, queste categorie appaiono “sul terreno della storia”, sono “insieme storiche e logiche”).

1 Cosa si intende per Forma ed Evento

È necessario definire cosa si intenda per Evento e cosa per Forma.

Diano intende per Evento la Tyche, ovvero ciò che a ciascuno accade (“quod cuique evenit”) in un preciso luogo ed in un preciso tempo (hic et nunc, dove il tempo prevale sul luogo, infatti nella nostra memoria i luoghi hanno tutti una data), per Forma la “risposta difensiva alla sfida dell’evento” (Remo Bodei) ovvero “la reazione dell’uomo a questo emergere del tempo e aprirsi dello spazio creatigli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento”. Ecco che allora le forme sono sempre forme di un evento, ma sono fuori del tempo e dello spazio (ubique et semper), sono per sé stesse. Grazie alla Forma “la realtà è esorcizzata”.

 

1.1 Nella realtà

Ovviamente nella realtà Forma ed Evento si confondono e come egli afferma “non viviamo né solo l’essenza (come ritenevano Platone o Aristotele) né solo l’esistenza (esistenzialisti) ma un’esistenza che si chiude nell’essenza”.

 1.2 L’uomo e la donna

Qualche rapido scorcio interpretativo suggerito dagli studi di Diano stesso parte addirittura dall’identificazione primigenia della figura femminile con l’Evento (“Il dio dell’evento ha una forma e infinite epifanie, identificato alle origini con figure femminili”, le Grandi Madri) e della figura maschile conla Forma(il mondo classico, dominio della Forma, rappresenta l’uomo nudo e la donna velata, dove l’ellenismo, dominio dell’evento, spoglia anche la donna).

1.3 Achille e Odisseo

Esempio centrale del discorso è la corrispondenza tra i caratteri dei due grandi eroi omerici, Achille e Odisseo: “Sono le due anime della Grecia, e la storia dei Greci è la storia di queste due anime”[3].

Il primo si identifica conla Forma: “L’eroe dell’Iliade è un eroe della forma e, come tale, della forza. Perché tra forma e forma non possono esservi altri rapporti che di forza: la forma è un assoluto che esclude la mediazione. Rapporti di forza, ma questa forza non è la forza bruta, che ha il principio ed il fine fuori di sé, come tutte le forze che sono nella natura, e rientra nell’evento, è la forza dell’azione che ha il suo fine in se stessa, la forza che è propria della forma”. Achille è l’eroe dell’ira, “combatte a lancia e spada”, è “sempre di fronte, quadrato come le statue del Canone di Policleto”, “piange con Priamo sul nulla che è l’uomo” poiché per lui “la forma era la sua figura mortale eternata dalla fama”.

Il secondo si identifica con l’Evento (fatto che sottolineerebbe il passaggio dalla civiltà guerriera dei Micenei a quella dei mercanti): “l’eroe dell’Odissea è un eroe dell’evento e, come tale, dell’intelligenza: perché la forma è immediabile, ma l’evento è tutto nella mediazione”. Odisseo è l’eroe della pazienza, “i Proci li uccide con l’arco, l’arma dell’insidia e dell’ombra”, è “sempre di sbieco, tutto scorci e spire”. Anche lui “soffrì molti dolori” ma “li narra, non li canta” perché “una sola cosa non sa fare, cantare sulla cetra come Achille”.

1.4 Epicurei e Stoici

Un’altra antitesi fondamentale c’è tra politeismo e monoteismo, ben rappresentata dallo scontro Epicurei – Stoici: mentre per i primi gli dèi sono molti, oziosi e immobili, dediti al piacere e al gioco, quindi sono Forme, per i secondi Dio è uno, è il mondo, èla Tyche, è l’Evento.

1.5 Oggettività e Soggetività

Un’ultima, ancor più sottile, tra oggettività e soggettività: mentre la forma è caratterizzata dall’“essere per sé”, l’oggettività, l’evento “è sempre per qualcuno, per un soggetto”.

1.6 La Grecia Classica: il dominio della Forma

Tralasciati tanti spunti, è di fondamentale importanza focalizzare il discorso sull’epoca della Grecia classica, prima ad aver operato il “passaggio esemplare dalla dimensione mistico-religiosa e storico-puntuale a quella, inconciliabile nella sua alterità presa sul serio, della scienza e della filosofia, ossia dei “valori” contemplati solo per se stessi (come, ad esempio, il “triangolo”, l’”uguale”, la “giustizia” o “la virtù”)”.La Greciaclassica è il dominio assoluto della forma, dell’ εἶδος, dove “dal vissuto si passa al pensato, allo strutturato e ordinato senza centro e periferia, a un determinato genere di scienza, filosofia o di arte”.

1.6.1 La filosofia e l’arte

Ecco che allora abbiamo la filosofia del V secolo, abbiamo l’eccezionale statuaria greca, piena di una luce “che viene dall’interno, e arde al limite e lo chiude. Esempio massimo ne è l’Apollo di Olimpia. Ma non è necessario ricorrere alla statua d’un nume; basta una sola delle colonne del Sunio”. Altri esempi sono l’Hermes di Prassitele, proprio il dio dell’Evento, che presiede ai passaggi e ai cambiamenti, fissato nella Forma, oppure Cleobi e Bitone, resi eterni dalla dea e dall’opera dello scultore. In tutte “l’opera d’arte si presenta come circondata da un’aura splendente, che da essa si sprigiona ma che ad essa ritorna senza dissiparsi, rimandando dal centro di nuovo al centro”.

1.6.2 Gli agoni sportivi

Ultimo esempio del prevalere della Forma nel mondo classico è l’importanza data ai Giochi Olimpici: essi segnano la cronologia, sospendono gli eventi bellici e rappresentano la sfida in forma di gioco. Alla fine dell’ Iliade i giochi funebri in onore di Patroclo: “Omero rivelò in essi l’essenza di quella guerra, quale era intesa dagli Achei, e ci diede una delle chiavi del suo poema. E se il Riscatto ne dà la catarsi nella logica dell’evento, i Ludi ce la danno nella logica della forma”.

2.1 La Forma come   φάρμακον dell’amore: Polifemo e Galatea

Se abbiamo detto chela Formaesorcizza l’Evento, dà un nome al fulmine che terrorizzava i primi uomini, dà sollievo sulle corde della lira al dolore di Achille per la morte di Patroclo, essa consente pure al Ciclope Polifemo di trovare sollievo davanti al rifiuto della ninfa Galatea grazie ad un canto d’amore.

Così lo descrive Teocrito (315-260) nell’undicesimo dei suoi Idilli:

13  δὲτὰνΓαλάτειανἀείδων
αὐτόθ᾽ἐπ᾽ἀιόνοςκατετάκετοφυκιοέσσας

ἐξ ἀοῦς, ἔχθιστον ἔχων ὑποκάρδιον ἕλκος
Κύπριδος ἐκ μεγάλας, τό οἱ ἥπατι πᾶξε βέλεμνον.
ἀλλὰ τὸ φάρμακον εὗρε, καθεζόμενος δ᾽ ἐπὶ πέτρας
ὑψηλᾶς ἐς πόντον ὁρῶν ἄειδε τοιαῦτα.

̂̓Ω λευκὰ Γαλάτεια, τί τὸν φιλέοντ᾽ ἀποβάλλῃ;

80 ΟτωτοιΠολύφαμοςἐποίμαινεντὸνἔρωτα
μουσίσδων, ῥᾷονδὲδιᾶγ᾽εἰχρυσὸνἔδωκεν.”

Egli cantando Galatea sul lido

Algoso si struggeva dall’aurora

Con atroce ferita dentro il cuore.

Cipride grande il petto gli trafisse;

Ma il farmaco trovò, su un’alta roccia

Seduto innanzi al mare egli cantava:

O bianca Galatea, perché respingi

Chi ti ama?

[…]

Così pasceva il suo amore di canti

Polifemo e viveva ancora meglio,

Più che se avesse speso dei suoi soldi.

(Traduzione di Federico Cinti)

2.2 La Forma come φάρμακον del tempo: il carpe diem di Trimalcione

E non solo l’amore va esorcizzato, ma anche il passaggio del tempo, quel tempo in cui, come già detto, si situa ogni evento e che l’uomo brama di immobilizzare. Ecco allora Orazio con il famoso carpe diem dell’Ode I, 11 e, in chiave più popolaresca e se vogliamo pure ironica, le parole di Trimalcione nel capitolo 34 del Satyricon di Petronio (27.66):

Statim allatae sunt amphorae uitreae diligenter gypsatae, quarum in ceruicibus pittacia erant affixa cum hoc titulo: FALERNVM OPIMIANVM ANNORVM CENTVM. Dum titulos perlegimus, complosit Trimalchio manus et: “Eheu, inquit, ergo diutius uiuit uinum quam homuncio. Quare tangomenas faciamus. Vita uinum est. Verum Opimianum praesto. Heri non tam bonum posui, et multo honestiores cenabant”. Potantibus ergo nobis et accuratissime lautitias mirantibus larvam argenteam attulit servus sic aptatam ut articuli eius vertebraeque laxatae in omnem partem flecterentur. Hanc cum super mensam semel iterumque abiecisset, et catenatio mobilis aliquot figuras exprimeret, Trimalchio adiecit:

Eheu nos miseros, quam totus homuncio nil est!

Sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus.

Ergo vivamus, dum licet esse bene.

Subito sono portate anfore di vetro sigillate diligentemente, sui cui colli c’erano etichette con questa scritta: FALERNO OPIMIANO DI CENTO ANNI.

Mentre leggevamo le scritte, Trimalcione battè le mani e disse: “Oddio, quindi il vino vive più a lungo di un misero uomo. Dunque apriamo le danze. Il vino è vita. E questo è Opimiano puro. Ieri non ne ho offerto uno tanto buono, e c’erano a cena convitati molto più di riguardo”. Mentre noi bevevamo e miravamo molto attentamente quelle primizie, un servo portò uno scheletro d’argento fatto in modo tale che i suoi arti e le vertebre si flettessero verso tutte le parti. Dopo averlo gettato varie volte sul tavolo e avergli fatto assumere svariate pose grazie alla struttura mobile, Trimalcione disse:

“Poveri noi,  l’uomo è una cosa da nulla!

Tutti saremo così, dopo che l’Orco ci avrà preso.

Allora viviamo, finchè ci è lecito godere.”

2.3 La Forma come φάρμακον dei bisogni:la contemplazione di Schopenauer

Pure Schopenhauer, peraltro ottimo conoscitore del mondo greco (si veda la citazione di Sofocle che al v.126 dell’Aiace definisce l’uomo κούφηνσκιάν, ombra vana) vede nella Forma una possibile liberazione, seppur momentanea, dai dolori della vita, provocati dall’incessante succedersi per l’uomo dei bisogni (e scrive al riguardo tutto il libro III della sua opera intitolato L’idea platonica: l’oggetto dell’arte[4]). “L’arte è conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure, o modelli eterni, delle cose: nell’arte, ad esempio, questo amore, questa afflizione, questa guerra divengono l’amore, l’afflizione e la guerra, ovvero l’essenza immutabile di tali fenomeni”. (Abbagnano[5])

 

“L’idea, mentre gli individui in cui si manifesta sono innumerevoli e soggetti inesorabilmente al divenire e alla morte, permane invariabilmente unica e identica, sottratta al principio di ragion sufficiente”.

 (Libro III, pag.252)

Per questo suo carattere contemplativo “si occupa unicamente e semplicemente di ciò che le cose sono” (libro III pag.264) e per questa sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne, l’arte sottrae l’individuo alla catena infinita dei bisogni e dei desideri quotidiani, offrendogli un appagamento immobile e compiuto. Ecco perchè, secondo Schopenauer, l’arte è catartica per essenza: grazie a essa l’uomo, più che vivere (e legarsi quindi all’Evento) contempla la vita (ne traela Forma), elevandosi al di sopra della volontà, del dolore e del tempo” (Abbagnano).

“L’arte […] strappa alla corrente, che trascina le cose del mondo, l’oggetto della sua contemplazione, ponendolo isolato dinanzi a sé; […] si attiene dunque all’oggetto singolo, considerato a sé stante; ferma la ruota del tempo; […] possiamo perciò definire l’arte come la contemplazione delle cose, […] è il pacifico raggio di sole, l’arcobaleno che si stende tranquillo sopra questo tumulto infernale.”

(Libro III, pag.273-74)

“È infine questa beatitudine della contemplazione esente da volontà, che diffonde un incanto magico su tutte le cose passate e lontane, e che in virtù dell’autosuggestione ce la fa vedere in una luce così bella. […] Per questo soprattutto quando un dolore ci angustia più dell’ordinario, il ricordo improvviso delle scene passate o lontane si presenta davanti agli occhi come l’immagine di un paradiso perduto. Di queste scene la fantasia non rievoca che la parte oggettiva (la Forma, come detto in apertura, è oggettività), ma nulla della parte individuale e soggettiva […] e la nostra miseria diviene allora tanto estranea a noi, quanto è estranea agli oggetti. Non resta più che il mondo come rappresentazione, il mondo come volontà è svanito.”

(Libro III, pag.291-92)

L’arte si combina in Schopenhauer con la filosofia, entrambe espressioni della Forma, anzi la filosofia instrada all’arte, consiglia all’uomo l’arte come una possibile medicina al male di vivere.

3.1 Un’interpretazione originale: Pirandello

Il binomio Forma-Evento, come già detto presente “sul terreno della storia”, apre ad alcune interpretazioni originali.

Forma ed Evento sono strutturali nell’opera di uno dei più importanti letterati italiani del primo novecento: Luigi Pirandello. Sono strutturali per la sua provenienza dalla Sicilia, come dice Sciascia in Pirandello e la Sicilia[6],  “luogo delle metamorfosi” delle creature in personaggi, dei personaggi in creature, della vita nel teatro e del teatro nella vita – un luogo, insomma, in cui più evidente, concitato e violento si fa “el gran teatro del mundo”; ma il luogo, anche, di una cultura e di una tradizione da cui Pirandello decolla verso spazi vertiginosi” , la magna Grecia, ambiente dell’ “esaltazione virile” e della “sofistica disgregazione”, patria da molti critici misconosciuta in favore di una sorta di “Pirandello di Stoccolma” (solo perché ricevette il Nobel nel 1934) o forzatamente mitteleuropeo (forse perché laureatosi a Bonn in seguito ad un conflitto personale col rettore dell’Ateneo romano).

3.2.1 Un’arte che sfugga alla Forma

Da qui può partire sia l’analisi delle due fasi della produzione pirandelliana, quella umoristica e quella surrealista, sia l’analisi del fine della sua produzione, ovvero sfuggire alla Forma (paragona non a caso l’uomo irretito dalle forme a una “statua d’antico oratore”, cosa che fa pensare subito al discorso iniziale sulla statuaria greca) per riprodurre il flusso della vita, dell’Evento, in arte.

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. […] Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente. […]

Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. […]

E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? – ci domandiamo talvolta allo specchio, – con questa faccia, con questo corpo? – Alziamo una mano nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. Con quel gesto sospeso possiamo assomigliarci a una statua; a quella statua d’antico oratore, per esempio, che si vede in una nicchia, salendo per la scalinata del Quirinale. Con un rotolo di carta in mano, e l’altra mano protesa a un sobrio gesto, come pare afflitto e meravigliato quell’oratore antico d’esser rimasto lì, di pietra, per tutti i secoli, sospeso in quell’atteggiamento, dinanzi a tanta gente che è salita, che sale e salirà per quella scalinata!

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione.

(da “L’Umorismo”, parte II, cap. V)

3.2.2 Intrappolati  nel  personaggio

I personaggi delle opere di Pirandello sono tutti intrappolati nella Forma: Il fu Mattia Pascal è costretto a “vedersi vivere” nella figura del suo alter ego Adriano Meis, Enrico IV sceglie la pazzia che blocca nel tempo per sfuggire all’Evento, i sei personaggi sono appunto personaggi, maschere, non più persone.

 Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla, infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

[…] Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stia: la sua ombra per le vie di Roma.

 

(da “Il fu Mattia Pascal” cap. XV)

 

“No, avviene ora, avviene sempre. Il mio strazio non è finto, signore! Io sono viva e presente, sempre, in ogni momento del mio strazio, che si rinnova vivo e presente sempre (il semper della Forma)”. Questo ella [la madre] sente, senza coscienza, e perciò come cosa inesplicabile […] lo sente come dolore, e questo dolore, immediato, grida. Così in lei si riflette la fissità della sua vita in una forma.

 

(dalla “Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore”)

 

Dico che siete sciocchi! Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’inganno; non per rappresentarlo davanti a me […] sentendovi vivi, vivi veramente nella storia del mille e cento, qua alla Corte del vostro Imperatore Enrico IV! […] Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti, aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica”

 

(da “Enrico IV” Atto II)

 

3.3 L’evento che esorcizzi la vita

Ma la Forma, tenta di dimostrare lo scrittore di Girgenti, quasi ossessionato da questa tematica, non è la giusta via d’uscita. La sua soluzione è riprodurre il flusso della vita, per esorcizzarla definitivamente, una volta rappresentata nel suo nudo fluire e non più nelle solite forme, qui incarnate dai nomi (e pare di sentire la frase Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” di Bernardo Cluniacense ripresa da Eco al termine de Il nome della rosa[7]).

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace, non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.

 

(da “Uno, nessuno e centomila”, libro VIII, cap. IV)

3.4 Il fallimento di Pirandello e l’ultimo tentativo

Operazione impossibile, anche per Pirandello, perché l’arte è Forma.

Il teatro, le novelle, i romanzi della prima fase sono una Forma che denunciala Forma, non che rappresenta l’Evento. E così alla fine l’unico modo di rappresentare l’Evento è il ritorno al mito, e questo spiega il passaggio dall’umorismo alla fase surrealista. Il mito, la religione, cari all’Evento, sono la spinta ultima, la motivazione, di opere misteriose e quasi mistiche che, usando come trampolino di lancio il sopraccitato finale dell’ “Uno, nessuno e centomila” rivelano quel Pirandello viscerale e misconosciuto della terrestrità e non tanto del cerebralismo.

4.1 La scienza come Forma e la relatività dei modelli fisici

Scrive Silvano Tagliagambe[8], professore ordinario di Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Sassari, analizzando sia l’Evento di Carlo Diano sia le modalità individuate da Massimo Pauri, professore Emerito di Fisica Teoretica dell’Università di Parma[9], con cui l’uomo dà, attraverso la fisica, una “norma” all’Evento, “chiude”, come dice Diano, l’Evento, in un modello che si sostituisce alla realtà.

“Per spiegare le ragioni della difficoltà della descrizione fisica del mondo a confrontarsi con la dimensione dell’«hic et nunc» Pauri scandaglia le modalità attraverso le quali si è giunti, storicamente, a elaborare e a mettere a punto questa specifica descrizione. In particolare, egli punta l’attenzione su due aspetti: l’implicita metodologia della separazione del mondo in tre parti, e le altrettanto implicite approssimazioni fondanti, tra le quali rientra appunto quella del tempo fisico, che consentono l’idealizzazione degli oggetti fisici, sulla quale si innesta la loro matematizzazione e la conseguente costituzione di un modello che letteralmente rimpiazza gli oggetti reali.”

Di questo argomento si interessano anche Wittgenstein e i post-popperiani: essi affermano che il modello non è unico e quindi neanche riduttivo, in quanto, ad esempio, la teoria della relatività “diversamente dalla meccanica newtoniana, nega la simultaneità assoluta di due eventi nello spazio globale per cui viene a mancare anche un sistema di riferimento intrinsecamente privilegiato”(Tagliagambe).

Un altro esempio riguarda la geometria e, come afferma Poincarè (citato da Meschkowski[10]), potendo scegliere di analizzare un triangolo con la geometria euclidea o con la geometria non euclidea, “tutt’e due le spiegazioni sono possibili, e […] il decidersi per l’una o l’altra possibilità è una convenzione”. Per dirla con Popper[11] “il mondo quale lo conosciamo è una nostra interpretazione dei fatti osservabili alla luce di teorie che inventiamo noi stessi”, pertanto il criterio di valore di una teoria scientifica è la sua falsificabilità.

4.2 La matematica e le sue acquisizioni: siamo esseri simbolici

“George Lakoff (professore di Linguistica a Berkeley)[12] […] sottolinea che anche la matematica ha a che fare con i processi più concreti dell’uomo. Le sue acquisizioni, infatti, sono fondate nel nostro corpo, non sono arbitrarie e non sono pure convenzioni sociali, sono profondamente emanate dal nostro corpo: i numeri, l’aritmetica, le figure, la geometria”.

Così pure la matematica  rappresenta degli eventi strutturali al nostro corpo, alla nostra esistenza. “La struttura cognitiva dei concetti matematici è dunque profondamente e inestricabilmente al linguaggio, al corpo, alla gestualità.” Scrive Tagliagambe, che a proposito di questo concetto cita Iacono (Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa)[13] al quale mi sono ispirato per il titolo del mio lavoro “siamo esseri simbolici”.

4.3 Induzione e deduzione: il valore della scienza

“Già in Aristotele, dunque, ci sono in modo chiaro le prime tracce del cosiddetto “problema di Hume”, che consiste nel cercare di capire come si passa da una molteplicità di osservazioni a una teoria che permette di prevedere il comportamento della natura. È corretto e scientificamente affidabile, si chiede in proposito Hume, il procedimento induttivo, che permette di passare da tanti casi particolari a un enunciato generale? L’esempio tipico di Hume era questo: come possiamo essere certi che domani sorgerà il Sole sulla base del fatto che ogni giorno l’esperienza passata ci ha insegnato che il Sole è sorto?”[14]

Si mette dunque in dubbio la validità del processo induttivo, ma Reichenbach[15] afferma che “una volta messa in dubbio l’induzione, la scienza non avrebbe più il diritto di distinguere le sue teorie da creazioni fantastiche e arbitrarie” e Poincarè[16] aggiunge “L’uomo di scienza non procede accatastando e accumulando fatti e dati, non agisce per sommatoria, bensì per intersezione e per incastro, riscontrando, sotto le diversità che si manifestano, ponti sottili e analogie non rilevabili da un occhio non esercitato ed esperto” e, conclude Tagliagambe, “dovendo giudicare della ammis­sibilità della ipotesi, occorrerà che ogni vera ipotesi plausibile sia tale che da essa si possano dedurre delle conseguenze le quali, a loro vol­ta, possano essere collaudate induttivamente, vale a dire speri­mentalmente”, ma senza credere che l’induzione sia l’unico “criterio di demarcazione soddisfacente” (Popper[17]), poichè solo utilizzando insieme induzione e deduzione si dà validità alla scienza.

4.4 La scienza nell’antichità: la rivoluzione di Anassagora

Trattando di scienza si può in qualche modo tornare all’antichità, di preciso alla vera e propria rivoluzione, messa in atto da Anassagora (“Senza Anassagora non s’intende nulla della rivoluzione che nel campo delle idee e dei costumi venne operata in Atene nel V secolo”[18]), il quale, in un ambiente influenzato dalla sofistica, mise in discussione la religione proponendo l’uso della ragione (il λόγος) ed eliminando dalle sorti dell’uomo il destino proveniente dagli déi (Εἱμαρμένη o Τύχη θεῶν) per lasciarlo dominato dal solo caso (la τύχη). Come afferma Diano “La teoria che fa delle arti la lenta conquista dell’uomo nel seno di una natura senza Dio, fu Anassagora il primo a trarla fuori”.

Questa visione influenzerà anche famosi tragediografi, come Sofocle, che si mantenne comunque cauto per timore dell’accusa di empietà, motivo per cui Anassagora stesso fu processato, e Euripide, che invece pose il problema al centro della sua produzione.

“Nel mondo formato, il nous, che è ‘identico dovunque si trovi’, è solo là dove è la vita, nelle piante, negli animali e nell’uomo (A 99-101 a, 116-117), ma solo nell’uomo giunge al pieno sviluppo delle sue potenze come pensiero cosciente (φρόνησις), ed è capace di σοφία e di τέχνη, di ‘sapienza’ e di ‘arte’, e ciò non per altro se non perché ha l’ἐμπειρία e la μνήμη, l’ ‘esperienza’ e la ‘memoria’ (B 21 b), e soprattutto perché ha le ‘mani’. È per le mani che l’uomo è infatti φρονιμώτατος fra tutti gli animali (A 102).” (Carlo Diano)

Dalla saggezza, l’uomo ricaverà delle τέχναι, dei saperi in grado di fargli comprendere la φύσις e di mettere ordine al caos iniziale (dare, appunto, Forma all’Evento).

“Il tempo ha trasformato la vita dell’uomo. “la conoscenza è divenuta ‘sapienza’, e cioè ‘memoria’ di ‘esperienza’, e la capacità di moto, guidata da quella sapienza, s’è ordinata in ‘arte’.” (Carlo Diano)

Anassagora sosteneva che l’uomo deve la propria intelligenza alle mani, rese disponibili alla manipolazione dalla stazione eretta. Questa opinione di Anassagora è riferita da Aristotele (De partibus animalium, IV, 687a, 8-10) che la criticava sostenendo che l’uso delle mani nell’uomo era dovuto alla sua maggiore intelligenza e, visto il successo nei secoli della sua filosofia, Anassagora fu dimenticato, finché la scienza moderna non dimostrò che egli aveva ragione[19].

4.5 Varcare i confini tra le discipline

Secondo Paolo Scarpi[20] il magistero di Carlo Diano “ha anticipato molti dei temi oggi fatti propri anche dagli studi antropologici”.

L’analisi di Diano e delle sue due categorie interpretative ci consente dunque di varcare i confini del tempo e i confini tra le discipline, di dimostrare come anche la scienza sia Forma e dunque non dissimile dall’arte e dalla filosofia e dall’insieme dei prodotti umani che incasellano l’evento: “Questa ‘lezione’ che ci viene da un grande filologo vale intanto a farci capire quanto questa istanza sia più forte di qualsiasi implacabile ‘polizia di frontiera’, tesa a impedire la libera interazione e lo scambio dialogico tra i diversi campi del sapere” (Tagliagambe).

E pare che iniziative in questa direzione, proprio nell’ambito dell’istruzione, ce ne siano. Dal Liceo Scientifico Lussana di Bergamo è partita l’idea, che sta prendendo piede anche altrove con rapidità, di utilizzare le nuove tecnologie, come i tablet e la piattaforma internet, “per facilitare un coordinamento multidicipliare tra i diversi professori della medesima classe in unità di apprendimento trasversale”[21].

 

Conclusione

Taluni finiscono per soccombergli, altri per abituarsi ad accettarlo passivamente, tuttavia interminabile è la lotta dell’uomo contro l’Evento, contro quell’Hic et Nunc che subito passa e si disgrega, contro il dolore, i bisogni, i fallimenti. E questa lotta procede grazie alla Forma, che eterna i momenti e i valori, che consente attraverso la filosofia, l’arte e la scienza di esorcizzare la vita e il suo fluire, di porre per se stessi degli enti al di là del tempo e dello spazio.

 

 BIBLIOGRAFIA

 

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Diano Carlo, Forma ed Evento – principi per una interpretazione del mondo greco, prefazione di Remo Bodei, Marsilio Editori, Venezia, 1993, prima ed. Neri Pozza Editore, Vicenza, 1952.

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Petronio, Satyricon.

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Pirandello Luigi, L’Umorismo, Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, i brani citati sono presenti in Luperini, Cataldi, Marchiani, Tinacci, La scrittura e l’interpretazione, Volume III, Tomo I, Palumbo Editore, 2010.

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Tagliagambe Silvano, Diano e i suoi principi per una interpretazione del mondo greco (in corso di pubblicazione).

Teocrito, Idilli.

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[1] Questo distico fu composto da Carlo Diano nel 1971, nel corso di un convegno a Bressanone, ed è stato inviato da un suo allievo, il drammaturgo, poeta e germanista Franco Farina, a sua figlia Francesca Diano, che lo ha pubblicato nel blog “Il Ramo di Corallo”.

[2] C. Diano, Forma ed Evento – principi per una interpretazione del mondo greco, prefazione di Remo Bodei, Marsilio Editori, Venezia, 1993, prima ed. Neri Pozza Editore, Vicenza, 1952.

[3] Vedi anche C. Diano, Pagine sull’Iliade, in Saggezza e poetiche degli antichi, Neri Pozza editore, Vicenza 1968, pp.355-361

[4] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Libro III, trad. di Nicola Palanga riveduta da Ada Vigliani, Mondadori, Milano, 1989.

[5] N. Abbagnano, G. Foriero, La filosofia, Tomo 3A, da Schopenhauer a Freud, Pearson Paravia Bruno Mondadori spa, Padova, 2009, p.23.

[6] L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Adelphi, 1996.

[7] La citazione di Bernardo Cluniacense è in U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 2007 (prima ed. 1980), p.503, chiarita da Eco in Postille a “Il nome della rosa” apparso su Alfabeta, n. 49, pp. 1-2, giugno 1983.

[8] S. Tagliagambe, Diano e i suoi principi per una interpretazione del mondo greco (in corso di pubblicazione).

[9] M. Pauri, I rivelatori del tempo, ‘Nuova civiltà delle macchine’, 1999, n. 1, p. 36.

[10] H. Meschkowski in Mutamenti nel pensiero matematico (titolo originale Wandlungen des mathematischen Denkens), Editore Boringhieri, Torino, 1982, pag. 93.

[11] K. Popper, Conjectures and Refutations, London, Routledge and Kegan Paul, 1963; citato da  Giorello Giulio in Introduzione alla Filosofia della Scienza, Strumenti Bompiani, Milano, 1994, pp. 16 e 18.

[12] G. Lakoff e R. Núñez, Where Mathematics Comes From. How the Embodied Mind Brings Mathematics into Being, Basic Books, Perseus Books Group, New York, 2000. Traduzione italiana Da dove viene la Matematica Bollati Boringhieri, Torino, 2005 citato in S. Tagliagambe, op. cit..

[13] A. M. Iacono, Una storia tra i mondi intermedi, ‘Educazione sentimentale’, n. 17, 2012, pp. 86-87 citato in S. Tagliagambe, op. cit..

[14] S. Tagliagambe, op. cit..

[15] H. Reichenbach è citato in K. Popper, Logik der Forschung, Wien, Sprinter, 1934, p.6, a sua volta citato da G. Giorello in Introduzione alla Filosofia della Scienza, Strumenti Bompiani, Milano, 1994.

[16] J.H. Poincaré, Scienza e metodo, a cura di C. Bartocci,Einaudi, Torino, 1997, pp. 14-15 in S. Tagliagambe, op. cit..

[17] Vedi Nota 11.

[18] C. Diano, Edipo figlio della Tyche, in Saggezza e poetiche degli antichi, Neri Pozza, Vicenza, 1968.

[19] Di questa e di altre versioni prescientifiche dell’evoluzione biologica, esposte da pensatori presocratici, parla Lucio Russo nel capitolo “Botanica e zoologia” de La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano, 1996.

[20] La citazione è tratta dalla Presentazione di Paolo Scarpi in O. Longo (a cura di) L’esilio del sapiente – Carlo Diano a cent’anni dalla nascita, Esedra Editrice, Padova, 2003 (Atti del Convegno – Padova 23 ottobre 2002).

[21] P. Soldavini, Tecnologia in aula – La scuola riparte dalla nuvola, nell’inserto Domenica de Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2012.

(C) Simone Pizziconi 2012 TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Carlo Diano – Un distico in greco

 

 

Greek border

 

Πολλά μὲν ἀνθρώποισιν ἐπιχθονίοισι κέλευθα,
Πᾶσι δ’ἀληθείας ἕν τέλος ἐστίν ἀεί.

Molte sono le vie battute dagli uomini

Fine a tutti comune è la verità

 

Carlo Diano

 

Questo distico fu composto da mio padre nel 1972, nel corso del simposio “L’Umanesimo e il problema della morte”, da lui organizzato nell’agosto di quell’anno a Bressanone e mi è stato inviato da un suo allievo, il drammaturgo, poeta e germanista Franco Farina, che ringrazio con tutto il cuore.

F.D.

Carlo Diano – Limite azzurro

Carlo Diano, Limite azzurro. All’insegna del Pesce d’oro, Milano 1976

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Carlo Diano (Vibo Valentia, 16-2-1902 – Padova, 12 – 12 – 1974), non fu soltanto filosofo tra i più originali del ‘900, grandissimo grecista e filologo, ma fu anche poeta, scultore, pittore e compositore di musica. Una mente traboccante, assetata di bellezza e conoscenza, mai doma, mai paga. Pubblicò una prima raccolta di poesie nel 1933, col titolo L’acqua del tempo, poi, pur seguitando a scrivere poesia, non si interessò più di farne altre pubblicazioni.

Due anni dopo la sua morte, tra le sue carte, furono trovati dei testi, parte dei quali Ninì Oreffice volle fossero pubblicati.  Ninì, il cui cognome di nascita era Ottolenghi, fu una di quelle donne molto speciali, innamorata veramente col cuore dell’arte e della cultura e nel suo salotto padovano passarono i più grandi letterati, intellettuali, poeti e artisti di tutta Europa. Legata per quasi una vita  a Diego Valeri da un’amicizia profondissima, fu lei a tenere a battesimo e a incoraggiare  un giovanissimo Andrea Zanzotto

Per Carlo Diano aveva un’ammirazione e un affetto sconfinati e fu lei a curare la scelta per  questa breve raccolta postuma delle poesie di Diano. La pubblicò nel 1976 Vanni Scheiwiller in 500 copie numerate, con un bellissimo disegno di Alberto Viani che l’artista, amico di Diano e cugino dello storico dell’arte Sergio Bettini, fratello d’anima di Diano, eseguì appositamente per questa raffinata edizione.

I 50 testi, che coprono quasi l’arco della vita di Diano, si aprono con il distico in greco, (che tradusse egli stesso in italiano  e di cui do qui la versione) che Diano scrisse per la devastazione della Piana di Gioia Tauro e si chiudono con tre testi in francese.   Non tutte le poesie sono datate, ma le ultime furono scritte pochi mesi prima della morte, quando Diano era ormai molto malato ma lo spirito e la mente erano lucidissimi e vivi.

I testi che qui riporto vanno dal 1944 alla seconda metà del 1974.  Non aggiungo, volutamente,  alcun commento, perché lascio al lettore, soprattutto a chi conosce il pensiero  filosofico e la straordinaria vicenda umana di Diano, scoprire la ricchezza e l’originalità di questi testi.

Alberto Viani. Nudo. 1976

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ulivi addio

Ora sui nostri monti Demetra cerca piangendo

miseramente il viso della bella Persefone,

ora a terra si sfa l’oliva sotto la pioggia,

suona intorno il vento predatore di foglie.

*********

Per il tuo limite azzurro

dove la luce s’increspa

fiore dell’attimo

apri nel palpito d’ali i tuoi petali

nel cerchio della chiusa forma.

Luglio 1974

********

Arso stecchito

squarciato dal fulmine

nudo

mette ancora una gemma:

pallida come una preghiera

domanda al cielo

di poter fiorire.

1974

********

Dal punto ov’io siedo

volgendo intorno lo sguardo pigro

partono infinite vie:

nella disperazione di seguirle tutte

contemplo il cielo.

*********

Sublimi splendono

all’occhio dell’anima

le idee, mirabili immote:

né l’ala del tempo le sfiora,

né flusso di cose le tocca.

D’indicibile amore è preso

l’uomo che una volta le scorga,

né per piacere né per pena l’oblia.

Sempre che d’alcuna oda il nome,

il cuore gli balza come per donna cara.

Nel silenzio che dentro lo vuota,

irresistibile suona come tromba di guerra,

soave come invito di gioia

e solitudine è intorno

e luce di sole gli raggia nell’anima.

Ed ecco egli è pronto e nulla paventa,

né povertà, né calunnia o dolore,

non abbandono di cose amate,

deserto d’affetti, delle tempeste s’inebria,

a te, morte, sorride.

1944

**********

Qualche cosa che non tornerà.

Ma questo spazio senza fine

nella mia anima – questo è.

Ti sento, vita.

ti porto lieve su ogni fibra,

come ogni zolla il cielo,

gioia senza grido.

Tu – negli occhi sei Tu

negli occhi degli occhi sei Tu

in codesto tuo Nulla Tutto che s’apre,

cielo in un cielo, nel fondo

delle tue pupille, sei Tu.

*********

Une feuille sur une branche, seule,

la brise la bata de tout coté –

si le vent tombe et qu’il pleut,

demain nous la foulerons aux pieds.

(C) 2012 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

Carlo Diano e la cattiva memoria della cultura italiana

Carlo Diano a Bressanone

 

 

 

 

 

 

 

Carlo Diano è stato un esiliato tutta la sua vita.

Da questo forse derivava quel suo carattere così fatto di contrasti. L’estrema dolcezza si alternava a momenti in cui la sua mente si allontanava, persa nelle sue speculazioni, per passare all’improvviso ad esplosioni di insofferenza o di ribellione. Il tutto senza soluzione di continuità e senza che vi fosse preavviso di quei cambiamenti.

Dell’esiliato mio padre aveva l’irrequietezza, come di chi viva tutta la vita col dolore di una perdita, di un vuoto incolmabile, che nulla potrà mai colmare, perché ciò che potrebbe colmare quel vuoto è perso per sempre. E di questo v’è consapevolezza.

Esiliato da dove? O da cosa?

A otto anni era rimasto orfano del padre, capostazione a Vibo Valentia, che allora si chiamava Monteleone di Calabria.

Era il primo di quattro tra fratelli e sorelle (altri due erano morti bambini) e sua madre si trovò improvvisamente vedova e senza mezzi. Nella  famiglia di sua madre c’erano medici e notai, ma nella Calabria di inizi ‘900, a parte la solidarietà delle sue sorelle, mia nonna si trovò a fronteggiare fatiche e sacrificio nel crescere i figli.

Quasi da sola dovette  affrontare difficoltà economiche, mancanza di un sostegno, enormi responsabilità nel crescerli quei  quattro figli.

L’infanzia di mio padre deve essere stata molto dura e difatti non ne parlava mai, come se quegli anni tanto difficili gli avessero lasciato dentro un nodo oscuro, che non era nemmeno in grado di ricordare perché così crudele. Il ricordo di un tradimento. Di un abbandono. Come figlio di suo padre e come figlio della propria terra. E dunque, chi è in esilio così dalle proprie radici, può andare ovunque, perché ovunque sarà in esilio, ché se lo porta dentro. Perché in realtà è in esilio da se stesso.

Per quanti legami possa stringere nel suo vagare, nessun legame lo strapperà alla sua solitudine assoluta. E allora, l’unico dialogo vero, autentico, profondo, può essere solo quello con la propria solitudine, che altro non è se non la scissione dolorante e dolorosa dalla patria interiore: da se stesso. Da un se stesso che si è dovuto autogenerare.

E’ questa però la condizione ideale per la creatività, come se gli occhi dell’anima, rivolti costantemente verso l’interno, attingessero alla fonte della solitudine, per creare, per capire il mondo e darne un’immagine.

Quale fosse una parte della sua patria perduta mio padre lo capì molto presto: lo capì attraverso Carlo Felice Crispo, un vibonese di famiglia aristocratica, che aveva dedicato la sua vita agli studi e alla speculazione, e che come lui si portava dentro la piaga di una separazione non sanabile. Crispo esiliato dal sogno degli Orfici. Mio padre dagli assoluti delle forme che vedeva con occhi antichi dentro di sé, prima ancora che fuori. Ma per entrambi, il luogo e il tempo a cui tornare erano scomparsi due millenni e mezzo prima. E non sarebbero tornati mai più.

Con la Calabria aveva un rapporto conflittuale. Ne era partito a poco più di diciassette anni quando, dopo la maturità classica, era andato a Roma a studiare all’università.

I soldi per il viaggio gli erano stati dati da una zia, sorella di sua madre e da Roma scriveva a casa lettere piene di nostalgia e dolore. Chiedeva che gli mandassero l’origano, le olive, i sapori e gli odori della sua terra. Perché una parte della sua casa, del suo mondo, a cui era legato non solo dalla sofferenza, ma dalle prime scoperte di se stesso e della sua vocazione, dagli affetti della famiglia e dai paesaggi incantati, fosse presente nella quotidianità dura della sua nuova realtà.

Chiedeva, con la sete della lontananza e con il desiderio di mantenere un legame con le cose note. In una realtà che era per lui ancora ostile e ignota. Dove era e si sentiva solo. E in alcune di queste lettere, a sua madre, ai suoi fratelli, trapela tra le righe il carattere di un mistico, di chi ha fatto già del dolore uno strumento di conoscenza.

Amava gli ulivi. Si era portato dentro la loro forma contorta e viva per tutta la vita. Perché l’ulivo non era solo l’albero della sua terra, ma è la prova vivente della capacità di sopravvivere ad ogni tempesta, ad ogni fulmine, ad ogni trascorrer del tempo che uccide la bellezza. Perché nell’ulivo il tempo  è bellezza, e ne modella la forma segnandola di sé. L’ulivo è la prova vivente che la sofferenza può essere anche fonte di nutrimento e di vita. E all’ulivo aveva dedicato molti dei suoi disegni e il distico che scrisse in occasione dello scempio della Piana di Gioia Tauro.

La sua terra era la sua radice, perché lì aveva scoperto per la prima volta la bellezza degli antichi padri magnogreci, anche grazie all’incontro con quell’uomo straordinario, appunto, Carlo Felice Crispo, per il quale  scrisse una bellissima commemorazione, quando Crispo morì a Roma, ucciso dallo stesso male di Epicuro. E che, come Epicuro, aveva sopportato con coraggio e nobiltà.

Crispo gli aveva reso vive le matrici greche della loro terra comune.

Mio padre non lo avrebbe mai dimenticato.

Ma da quella terra di antichi padri era dovuto partire, per affrontare da solo e così giovane un mondo che non gli era facile affrontare.

Una volta, che io avevo circa l’età in cui lui era andato a Roma, facemmo un viaggio insieme. Io e lui, a Roma. E una sera, andando al teatro Argentina, passammo davanti a un torracchione scrostato e lasciato ancora intatto dal tempo. Alto, triste, gelido.

<<Quando sono venuto a Roma la prima volta, ho abitato lì sopra>>, mi disse. Lo disse come diceva le cose che gli risvegliavano vecchie sofferenze. Per le quali non ci sono parole. Lo disse quasi casualmente, quasi sottovoce. Non disse altro. E allora mi resi conto per la prima volta, guardando mio padre come quel ragazzino di allora, di quanto dovesse aver sofferto. La fame, il freddo, la solitudine. E per la prima volta cominciai a capire. Il suo desiderio di non farci mai mancare nulla, di aiutare sempre i giovani e chi si trovava in difficoltà,  il silenzio sulla sua giovinezza, i suoi sbalzi d’umore. La sua fame di vita.

In un quadernetto a righe, datato 1918-25, aveva raccolto alcune poesie che poi, in parte, aveva pubblicato nel 1933 col titolo “L’acqua del tempo”. Ce n’è una, inedita, in forma di sonetto, che non aveva incluso nella raccolta e che sopra reca il segno di una cancellatura, forse perché gli era parsa troppo cruda, che invece esprime con una chiarezza di lama acuminata lo stato d’animo di quanto ho appena detto.

Io ti conobbi, tazza avvelenata

del disinganno, assai volte ed ancora,

sempre più amara e pur t’ho tracannata

lentamente, qual chi vino assapora.

Del tuo velen sottile ebbi malata

l’anima ed aborii veder l’aurora

prossima, e terminai la mia giornata

maledicendo attediato ogni ora.

E vissi e il tempo, nel suo molle volo

spense ogni grido,chiuse ogni ferita

e recò l’ombra di sogni novelli.

Or tu ritorni e m’aggredisci solo

quando l’ultima speme è disfiorita

e vizzo è il fiore dei miei dì più belli.

L’amarezza del disinganno sarebbe stata il leit-motiv della sua vita. Una lezione che si sarebbe ripetuta in molti dei suoi rapporti con gli altri esseri umani.

La sua era una natura in fondo ottimista e facilmente entusiasmabile, non sembri troppo facile dire “ingenua” e dunque questa sua natura lo portava non tanto a fidarsi degli altri, quanto ad affidarsi agli altri.

Se la fiducia nel prossimo è una virtù, il porre nelle mani altrui il proprio benessere, la propria serenità, la propria felicità, è un grande errore. Eppure, ad ogni disinganno, come già poco più che ragazzo aveva capito, tracannava, con coraggio. Fino in fondo.

Lo ha fatto tutta la sua vita. Quando sfidò il potere, giovane docente di Greco al Liceo Tasso di Roma,  rifiutandosi di iscriversi al Parito Fascista, come gli era stata fatta pressione, quando  compì scelte che solo un pazzo sognatore avrebbe potuto compiere, sposando delle cause ormai perse e abbandonate da tutti, che gli costarono per anni la carriera, quando mise in salvo, all’insaputa di tutti ancora oggi, molta gente ricercata dalla Gestapo a Padova, grazie al suo ruolo di Ispettore della Pubblica Istruzione, ( e nessuno ne ha fatto un eroe per questo) quando si fidò di chi non doveva fidarsi, solo per coerenza con le proprie idee. Quando giunse a mettere in palio la vita per rendere pubblicamente omaggio al suo Maestro, Giovanni Gentile, che era stato per lui il padre che non aveva avuto ed era stato assassinato in modo vile. Per commemorarlo nonostante le minacce di morte che gli erano giunte da più parti.

Era  capace di un amore senza pudori quando  trovava un uguale, chi sapesse parlare alla sua anima, abbattendo le barriere tra essere e essere. Così fu per Giovanni Gentile, per Giorgio Pasquali, per Ugo Spirito,  per Walter F. Otto, per Mircea Eliade, per Sergio Bettini. Uomini che hanno segnato la sua vita e la sua mente. Come Maestri e come amici. Uomini a cui lo legavano percorsi di conoscenza e di affetto.

Aveva, dell’amicizia, la stessa concezione di Epicuro. Non conosceva felicità più grande del trovarsi con animi affini. Non solo del presente, ma del passato. Discorreva con Parmenide e con Platone, con Epicuro, con Leopardi e con Baudelaire come con i suoi  Maestri e i suoi amici. Senza barriere. Né di tempo né di spazio.

Ma la malattia dell’anima che lo ha minato tutta la vita e che, ne sono convinta, è stata la causa del suo infarto prima e del suo cancro poi, questo “velen sottile”, era da ricercarsi proprio nei primi tradimenti della vita, quelli che, se ti segnano troppo presto, non sono facilmente sanabili.

La cura che lui aveva trovato per sé, perché in questi casi si sopravvive solo trovandosi dentro i meandri dell’anima una cura, era il viaggio dello spirito verso un mondo perduto. La Grecia nei suoi studi e nella mappa della sua anima, giunta a lui, intatta dal passato, attraverso la nascita in una terra colonizzata da quegli antichi esuli volontari.

Ma gli ultimi tre versi del sonetto sembrano essere una terribile premonizione di quella che sarebbe stata la conclusione della sua vita. Il ritorno di quel veleno che lo avrebbe aggredito alla fine.

I poeti hanno il dono della premonizione.

La Calabria era per lui una terra trasfigurata. Era la Calabria della sua fanciullezza, in cui andava a cogliere i fichi d’India dalle piante e saliva sugli ulivi e sugli alberi di fico e una volta una spina gli aveva procurato un’infezione a un mignolo, che gli aveva lasciato una cicatrice che gli teneva piegata la falange. Quel segno era in fondo il ricordo delle sue scorribande felici di ragazzo nelle campagne, ma anche il ricordo di una ferita mai guarita. Cicatrizzata, ma malamente.

Così era per lui la Calabria. Una ferita cicatrizzata, ma malamente.

E dunque, andare in Calabria, per lui, era come riaprire la vecchia ferita. Quella della perdita, quella dell’assenza. Non ci andava a cuor leggero e aveva coi suoi abitanti un rapporto conflittuale, quasi infantile. Come di chi si sia sentito tradito.

Ma dalla Calabria in cui era nato – non per caso – come mai per caso qualcosa avviene – aveva anche ricevuto una doppia eredità, dalle due stirpi che vi hanno lasciato il loro segno: i Greci e i Normanni. La mediterraneità e il richiamo delle terre del grande nord. E non a caso difatti, in lui la grecità si mischiava con l’amore per il Nord Europa e per  la Scandinavia, una terra in cui aveva vissuto per sei anni e dove, per contrasto, aveva forse ritrovato parte di se stesso.

Il suo aspetto, del resto, era quello della lunare stirpe normanna, da cui la famiglia paterna derivava. Di struttura robusta, i capelli biondi in gioventù, somigliava poi sempre più con l’età a Jean Gabin o a Spencer Tracy, di cui aveva anche lo sguardo ironico e dolce. Con un fondo di malinconia che non lo abbandonava mai.

Ma la vera patria da cui si sentiva in esilio era la Grecia.

Non so se ne avesse piena percezione. Di quanto quell’amore fosse mischiato allo struggimento e alla nostalgia di un esilio e di come, rendendo viva dentro di sé quella cultura e parlandone come ne fosse appena tornato, di fatto si comportasse come si comporta un esule, che conserva intatta dentro di sé l’immagine della sua terra d’origine.

In realtà non era un uomo ne’ di questo tempo ne’ di questo luogo.

Era come piovuto qui, intatto dal passato, e come tale non poteva essere compreso.

Lui vedeva quelle forme con gli occhi di un uomo di venticinque secoli fa. Quei testi, morti sulla carta, a lui parlavano con una voce fresca, bisbigliante, la stessa di venticinque secoli fa. Comprendeva perché conosceva. Perché sapeva. Già –  dentro di sé.

Dagli altri, da quelli del suo tempo, era separato da un muro invisibile ma invalicabile. Sia in un senso che nell’altro. Ed era un privilegio e una condanna.

Aveva questa singolare percezione del tempo. Non viveva mai nel presente, perché o la sua mente era persa nella visione abbacinante del passato, o proiettata in avanti alla velocità del fulmine. Per lampi. Comprendeva prima ancora di aver capito. Eppure mai ho visto qualcuno più capace di amare l’istante.

Non sopportava di non essere amato. Perché la ferita antica non s’era chiusa affatto e i sogni novelli, appunto, in lui forse erano solo ombra, come ebbe a intuire.

Non accettava di non sentirsi amato. E quando si rendeva conto che a volte non lo era, dentro di lui scoppiava la disperazione e forse l’angoscia. Vecchie ferite si riaprivano, l’eco di antichi abbandoni, di antiche insicurezze riaffioravano alla superficie con prepotenza. E reagiva alternativamente in modo aggressivo o infantile, ma sempre chiedendo amore e attenzione.

Era un uomo apparentemente di sentimenti estremi. Eppure  era capace di incredibili tenerezze, di delicatezze commoventi. In apparenza era poco psicologo, e invece non sbagliava mai un giudizio. Solo che i suoi giudizi anticipavano i tempi e di molto. Così tanto, che non li si potevano verificare se non in un futuro distante. Sempre precisi a tal punto, che l’avresti detto un veggente. Ma era il veggente come lo intende Baudelaire, un poeta che amava tanto da tenersene un ritratto nello studio.

Non posso dimenticare quando, il giorno successivo alla strage di Piazza Fontana, quando la stagione oscura degli anni di piombo si affacciava a proiettare un’ombra sinistra sulla storia del notro infelice paese, mio padre disse: “Sono stati loro“.  Gli chiesi cosa intendesse con “loro”. E la sua risposta, che allora era apparsa del tutto improbabile fu: “Quelli che ci governano”. Ma morì nel 1974, molto prima che tutto questo fosse chiaro.

L’aveva capito con l’anticipo di decenni. Noi lo sappiamo solo ora, dopo anni di processi che hanno umiliato la Giustizia. Quella con la G maiuscola. Quella in cui credeva Socrate, tanto da dare la vita.

Come poteva essere davvero capito? Sentirsi tra simili?

Aveva il dono dell’essenzialità e della sintesi. Ogni sua pagina è un condensato di idee, intuizioni, analisi profonde e acutissime, illuminazioni per lampi. Non diluiva. E dunque ogni sua pagina è una quintessenza, un distillato, che a voler essere compreso va diluito in cento almeno. E’ questa la difficoltà che pone la lettura dei suoi scritti. Limpidi, chiarissimi, ma densi come una sostanza densa.

Altri avrebbero costruito una carriera sul materiale di una sua sola conferenza. Perché anche in questo dava. Dava di sé senza risparmio.

Dunque anche le sue opere devono ancora essere comprese veramente. C’è ancora tutto da fare.

Sarà un lavoro lungo, per chi verrà dopo di lui.

Quel che lascia un uomo dietro di sé, nei suoi scritti, nelle sue opere, non va giudicato attraverso lo specchio di quella che è stata la vicenda della sua vita. Ecco perché chi viene dopo comprende meglio dei contemporanei. Perché nel suo giudizio non si lascia fuorviare dallo specchio deformante del rapporto emotivo.

Ma a volte è giusto rendere giustizia. Quando le azioni di un uomo, dettate dalla coerenza con se stesso, possono essere velate e nascoste nel loro impulso puro e profondo dalla fragilità nata dalla sofferenza. E la superficialità del giudizio comune non ha gli strumenti per comprendere i moti di un’anima.

Il carattere generoso e impetuoso, ma a volte in apparenza prepotente di mio padre, era solo il prodotto di sofferenze taciute con pudore, di vuoti non colmabili, del senso di isolamento in un mondo lontano dal suo mondo interiore.

Ha vissuto in modo tragico. Non nel senso scontato del termine, ma perché misurandosi costantemente col suo demone, lottando costantemente con l’ombra dentro di sé.

Un’ombra potente, che in apparenza lo ha sconfitto nel corpo.

In apparenza.

Ma le sconfitte sono spesso più onorevoli di una vittoria, quando sai che, in fondo alla tua lotta, ti attende solo la sconfitta. Ma non rinunci a combattere con coraggio. Sia pure contro la morte.

Credo che, a conclusione di questo mio tentativo di capire mio padre, non da figlia, ma da persona che ha vissuto e cercato di capire il mondo intorno a sé, un tentativo non so quanto riuscito, ma fatto con lo strumento dell’amore (non potrei usarne altri, perché è il cuore che conosce e non la mente) l’ultima parola spetti a lui. A lui con linguaggio di poeta, l’unico, insieme alla musica, capace di rivelare l’ineffabile. E difatti mio padre ha lasciato anche della meravigliosa musica da lui composta.  Con  la poesia che io giudico più intensa e rivelatrice che abbia scritto. Quando era ancora molto giovane, ma molto già aveva compreso.

Una poesia quasi leopardiana, poiché tanto amava Leopardi, un altro esiliato come lui. Del Leopardi de L’Infinito, testo che anche potrebbe a ben ragione recare il titolo di “Atman”, come quello che scelse mio padre.

ATMAN

Ho paura del silenzio della notte

e mi sento abbandonato da ogni cosa

e dinanzi agli occhi ho l’ombra del mio cuore

coi suoi mille desideri senza nome,

cui non basta il mondo, che oltre il mondo vanno

e più forti sono della stessa morte;

ed il vuoto sento intorno a quest’oscuro

mio volere, incomprensibile, solingo,

e mi par di non poter più ripigliare

la mia vita, non poterla più finire,

ma restare per l’eterno condannato,

vuota brama, nel mio nulla imperituro.

Mio padre, Carlo Diano. Giornata di studi per la commemorazione di Carlo Diano nel centenario della nascita. Padova, 2002

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Questo è il padre che io ho conosciuto, ma poi c’è Carlo Diano, lo studioso assetato di conoscenza, il docente universitario che ha cambiato la vita a molti che lo hanno avuto come Maestro,  il filosofo rivoluzionario, il pensatore originale che ha percorso vie inesplorate, e il filologo tra i più grandi del ‘900.

Il pensiero di mio padre nell’interpretazione del mondo greco, ha aperto una strada che molti hanno percorso. Ma, come ha detto Massimo Cacciari nella giornata di studi tenuta all’Università di Padova nel 2002 a commemorazione del centenario della sua nascita,  Carlo Diano è stato un outsider non solo nel panorama del pensiero italiano del ‘900, ma europeo. L’originalità della sua visione ha avuto radice nella vastità della sua cultura, nell’ampiezza e nella libertà davvero rinascimentale della sua visione e in una capacità di sintesi e di intuizione solidamente fondate su un rigore filologico di qualità unica, basi di un pensiero filosofico ed estetico nuovo ed originale.

I suoi studi epicurei, la sua conoscenza di Platone, di Aristotele, dei presocratici, dei tragici greci, la sua convinzione che Parmenide e Anassagora siano  alla radice del pensiero occidentale moderno, la creazione delle categorie di forma ed evento, che gli hanno permesso un’ interpretazione originalissima dell’arte e della cultura greca e la loro applicazione ad ogni epoca e ad ogni tempo, con risultati ancora insuperati e ancora tutti da esplorare, che solo ora iniziano da parte di alcuni studiosi ad essere esplorati e scoperti, hanno fatto di Carlo Diano uno dei maggiori pensatori del secolo passato.

Eppure…. su di lui la cultura  italiana ancora tace, a parte alcune felici eccezioni, che ne tengono vivo il pensiero e l’insegnamento. Primo fra tutti, Massimo Cacciari,  che non omette mai di menzionare, quando tiene quelle sue meravigliose conferenze, o quando scrive, che moltissimo di quello che è e fa lo deve al suo Maestro, Carlo Diano. Ma, a lui si è aggiunto di recente il grande filosofo della scienza Silvano Tagliagambe, che in rivoluzionari saggi ha dimostrato come il pensiero di Diano sia all’avanguardia ancora oggi.

Il silenzio degli altri non è un silenzio fatto di dimenticanza. Non era comunista, non era di sinistra, come andava di moda, e nemmeno di destra;  era un uomo libero. Il suo solo partito era quello del Sapere. Non si è mai fatto comprare o sedurre dal potere corrente e non amava chi lo faceva. Non amava le chiesucole, le conventicole, i partitelli. Non amava gli eruditi sterili, incapaci di usare le loro nozioni vaste e inutili se non come un muro di fumo. Né gli imbonitori. Disdegnava le vie già percorse e i sentieri battuti. Le sole vie che amava erano quelle sconosciute.

Fa grande onore all’Università di Padova che vi sia un suo busto in bronzo, e una strada della stessa città che reca il suo nome e, a Vibo Valentia, la piazza della casa in cui nacque, a lui intitolata. Ma, a parte Boringhieri, che ha ristampato quella geniale storia della filosofia greca che è “Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici”, per la cui introduzione Cacciari ha scritto le pagine più belle sul pensiero di Diano e la Lorenzo Valla, che seguita a ristampare  nuove edizioni della sua meravigliosa traduzione dei Frammenti di Eraclito, e gli Scritti Morali di Epicuro pubblicati nella BUR, molti sono stati i progetti di ristampare le sue opere filosofiche ormai introvabili  sul mercato, tanto che ne circolano versioni in fotocopia, ma ancora nulla è stato fatto. Eppure, so che si farà.

 

Aggiornamento del 2017

Nel frattempo sono state scritte tesi di laurea sul suo pensiero, giovani ricercatori iniziano a interessarsi dei suoi studi. Prossimamente negli USA uscirà una traduzione inglese di Forma ed Evento (dopo quella francese, spagnola e neogreca) per i tipi della Fordham University Press, poiché alcuni brillanti studiosi americani si sono innamorati di questo pensatore e, allo stesso tempo, non riescono a credere che in Italia le sue opere non si trovino.

Ma verrà il tempo in cui le cose saranno mature. Sarà quello il tempo giusto.

 

Francesca Diano

Voce Carlo Diano Wikipedia

http://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Diano

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